Ascoltate.
Abhay, giovane studente indiano, torna in patria dopo un lungo periodo trascorso negli Stati Uniti. Siamo negli anni ’80 di Reagan, e l’America sembra davvero un sogno: un paese ricco, dinamico, moderno. Ben diverso da un’India oziosa, vecchia, un po’ selvatica, provinciale. E piena di scimmie. Abhay si è disabituato all’enorme quantità di animali grandi e piccoli che abitano le città indiane: e non sopporta le scimmie che dal tempio accanto a casa gli entrano in giardino e gli rubano i vestiti stesi ad asciugare. Così si procura un fucile ad aria compressa e ne abbatte una. I genitori di Abhay inorridiscono: sono indù praticanti e per loro le scimmie sono sacre ad Hanuman; e soprattutto, se lo scoprono i vicini c’è il rischio che le cose si mettano male. Recuperano la scimmietta moribonda e la nascondono in casa sperando si riprenda. Passano i giorni; il padre di Abhay ha l’abitudine di scrivere lettere di fuoco ai giornali spiegando come risolvere i molteplici problemi della democrazia più popolosa del mondo; e la scimmia, sdraiata su una brandina, lo guarda incuriosita. Qualcosa si muove nella sua testolina, ricordi, pensieri appena abbozzati, strane idee che vengono da chissà dove. Forse da un’altra vita: e un bel momento la scimmia si avvicina alla macchina da scrivere e batte sui tasti: «Io sono Sanjay».
«Terra rossa e pioggia scrosciante», romanzo d’esordio di Vikram Chandra, è la storia di una scimmia moribonda che racconta la sua vita precedente. E’ facile intuire che c’è molto di fantastico, in questo romanzo, per cui, se il vostro romanzo-tipo (ne parlavamo già qui) è quel genere di storia medio-quotidiana di gente qualunque alle prese con matrimoni in crisi, lavori precari, nonni problematici e cani ipocondriaci, lasciate pure perdere. Perchè qui non facciamo in tempo a riprenderci dallo shock di una scimmia dattilografa che sulla scena fanno il loro ingresso nientemeno che tre divinità: Yama, Hanuman e Ganesha. Il primo, il dio dei morti, forte dei suoi immensi baffoni, reclama per sè l’anima di Sanjay: il suo momento è giunto, e ora si reincarnerà in una lumaca o qualcosa del genere, così impara a stare al suo posto. Hanuman è il dio delle scimmie, e ovviamente si oppone. Ganesha allora propone una scommessa: lasciamo che Sanjay racconti la sua storia – una storia lunga e intricata: se al tramonto ci sarà meno gente che al mattino, la scimmia morirà e Yama farà quel che vuole; altrimenti vincerà Hanuman, e a Sanjay sarà concessa una vita futura da essere umano.
Così la scimmia comincia a scrivere, e Abhay legge a voce alta un foglio dopo l’altro. All’inizio il pubblico è composto solo da Abhay, la sorella e i genitori: ma la voce si sparge, i vicini accorrono incuriositi, e ben presto la casa è piena di gente che ascolta affascinata la strana storia di Sanjay. E’ una storia torrenziale e labirintica, di personaggi che raccontano a loro volta storie o angoli di storia, sempre iniziando con la stessa parola: «Ascoltate»; e ascoltiamo anche noi le avventure di Benoit de Borgne, mercenario crudele e senza cuore; di George Thomas, soldato britannico che getta alle ortiche la divisa per diventare capitano di ventura, con spada e cotta di maglia, a capo di un esercito personale di guerrieri sikh; dell’affascinante Began Sumroo, la strega che nessuno può guardare senza innamorarsene, e del suo malinconico marito inglese; e tutte queste vite, e molte altre, convergono in modi misteriosi in un cesto di laddu, i deliziosi dolcetti cari a Ganesha (se non avete mai provato i dolci indiani la vostra vita è vuota e senza senso), che un santone eremita consegna alla moglie di un ufficiale della Compagnia delle Indie. La donna, una principessa indiana, rimane incinta, e così pure una sua amica che aveva assaggiato i miracolosi pasticcini (?); e nascono dei bambini, fratelli seppur di genitori diversi, due dei quali sono destinati a grandi imprese. Uno è Sikander, grande, forte, carismatico; l’altro è Sanjay, la futura scimmia, gracile e introverso. I due sono inseparabili, e crescono assieme, e il sogno di Sikander (Sikander era il nome indiano di Alessandro Magno) è di radunare un esercito, sollevare la popolazione e cacciare gli Inglesi; Sanjay, dal canto suo, si trova a vivere in due mondi contemporaneamente.
Forse, anzi indubbiamente, siamo noi occidentali, che ci siamo costruiti un «mito» dell’India fatto in gran parte di luoghi comuni («l’India è un paese di contraddizioni», «gli Indiani sono un popolo di grande spiritualità», «una volta qui era tutta campagna»), ma in questo nostro recente viaggio ho avuto molto netta l’impressione che in questo paese le barriere tra i «mondi» siano molto più tenui che da noi. E’ vero, ci sono le caste e tutto quanto, ma l’impressione è che gli uomini, l’ambiente, gli animali – e gli dei – siano molto meno separati che qui in Occidente. E così non c’è da stupirsi se Sanjay parla con gli spiriti, e a volte manifesta straordinarie capacità: è invulnerabile, vola, prevede il futuro. Anche Abhay, che legge la storia, è in bilico tra due mondi: quando la scimmia, esausta, si addormenta, continua raccontando dell’America, delle highways immense, di un paese senza passato, dove tutto è spazi infiniti e velocità e futuro, contrapposto all’India eterna, dove il tempo scorre in cerchio, dal ritorno dei monsoni, al ciclo delle rinascite, alla danza di Shiva.
E con questa perla di saggezza lascio a voi di scoprire come continua questo romanzone che, lo avrete intuito, occupa un posto assai elevato nella classifica dei miei libri preferiti; sono ottocento pagine, una più bella dell’altra: un romanzo epico, favoloso, coloratissimo, immenso – come l’India.
«Ascoltate. Sto per raccontare una storia. Vi racconterò di mogli e bravi medici, soldati, poeti, tribù, perdigiorno e teppisti, bugiardi, truffatori, piloti temerari, cavalli focosi, giocatori d’azzardo, uomini di mondo, attrici, politici, vi racconterò di loschi affari, denaro sporco, grandi amori, corse campestri, contadini e raccolti, pescatori e consiglieri municipali, capi religiosi e naturalmente cavalieri. Racconterò una storia che crescerà come un loto rampicante, si avvolgerà su sé stessa e si espanderà senza fine, finchè ciascuno di voi entrerà a farne parte, e gli dèi verranno ad ascoltare, finchè tutti noi parleremo in un’armoniosa confusione che contiene il passato, ogni attimo dei presente e il futuro infinito. […] Poi siederemo in cerchio, in innumerevoli cerchi, e diremo, dacci la tua benedizione, Ganesha; resta con noi, amico Hanuman; e tu, Yama, vecchio furfante, puoi stare a sentire, se credi; e con queste parole ricominceremo tutto daccapo.»
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I miei gatti confessioni così elaborate non me ne hanno mai fatte. Ammetto però di non avergli mai sparato…
Meglio di no, che poi si incazzano sul serio! 😉
bello davvero il libro. però la parte che mi è piaciuta di più è quella ambientata negli USA contemporanei