“… forse, a quei tempi, questa leggenda servirà a scacciare per un poco la nera noia di una razza morente, divenuta insensibile a tutto tranne che all’oblio. Io narrerò la vicenda come la narreranno gli uomini a Zothique, l’ultimo continente, sotto un sole fioco e un cielo triste, dove le stelle brillano con terribile splendore prima di sera.”
Vi fu un tempo ormai dimenticato, in cui era possibile scrivere dell’ottima fantasy senza doversi abbandonare ad elefantiache diciottologie di proporzioni bibliche. Forse per la mancanza di word processors; forse perchè il numero di lettori era più esiguo (davvero?) – sta di fatto che l’epoca d’oro di Weird Tales e di riviste simili ci ha regalato delle piccole perle di inventiva, stile ed atmosfera che reggono il confronto, dopo settant’anni, con i moderni “maestri” del genere. Ci ha regalato anche un sacco di fuffa, ok, e forse solo il tempo ci dirà fra settant’anni se Terry Brooks è davvero un genio; ma, in fondo, chi se ne frega. Il punto è che il bello della fantasy – per me, naturalmente – sta nella sua capacità di portarti “altrove”, di creare mondi, stati d’animo, “visioni”. Mentre la buona fantascienza elabora delle idee, e non necessariamente le ambienta chissà dove – anzi, se si pensa ad Asimov si può vedere come in fondo lo scenario sia secondario rispetto alla trama – la buona fantasy deve farti “sognare” – deve metterti a confronto con qualcosa di “diverso”. In fondo – sempre per me, naturalmente – la trama è secondaria, in un romanzo fantasy: se c’è il “sense of wonder”, l’inventiva, se quando chiudi il libro devi “tornare” al mondo reale – quella, per me, è buona fantasy. Per questo non sono necessarie pagine a migliaia, legioni di personaggi, gente che si mena a ogni piè sospinto: bastano poche pennellate, poche parole scelte bene, poche allusioni – e ti ritrovi nella terra lontanissima di Zothique. Zothique è l’ultimo continente, in un futuro così lontano che di noi non si conserva nemmeno il ricordo, tanto lontano che il Sole è ormai morente e la magia è risorta. In questo scenario Clark Ashton Smith ambienta i suoi racconti: qui troverete storie di necromanti, di spettri e di incantesimi. Un giovane pastore che scopre di essere la reincarnazione di un antico re; due perfidi stregoni che ripopolano di fantasmi un regno cancellato dalla peste; l’osceno Giardino di Re Adompha, in cui brandelli umani crescono dalla terra come piante; due baldi guerrieri che contendono ad un perfido mago l’amore di una fanciulla – e così via e così via. Con una prosa barocca ed evocativa, con un continuo susseguirsi di immagini fantastiche e grottesche – dove l’amore e la morte vanno sempre in coppia, e la gloria dei re si accompagna sempre alla nostalgia per un passato ancora più glorioso – è un banchetto sontuoso e bizzarro, quello che ci prepara il signor Smith: piatti esotici e speziatissimi, dietro il cui sapore insolito si coglie sempre il dolciastro sentore della decomposizione.
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Questo è uno dei quei libri che ho sempre voluto leggere. Mi è capitato più volte di vedere il nome dell'autore affiancato a quelli di H.P. Lovecraft o R.E. Howard; e se non sbaglio Zothique è stato una delle fonti di ispirazioni per Jack Vance, mentre scriveva il ciclo della Terra Morente.
Peccato sia introvabile.