(Ok, tecnicamente non è proprio fantascienza fantascienza, quella di Asimov e compagnia bella; siamo più in territorio weird – cyberpunk o giù di lì. Oh, beh, che ci volete fare…)
1) Kraken, di China Mieville
Io a China Mieville ci voglio tanto bene, e al calamaro gigante pure, per cui questo libro mi sarebbe piaciuto anche senza leggerlo; però, boia, che fatica arrivare alla fine. Cominciamo con le cose positive, così ci togliamo il pensiero: ottima (per quanto assurda) l’idea di partenza, torrenziale come sempre l’immaginazione del buon China, e uno stile pirotecnico che dovrebbero, per quanto possa sembrare strano, far tradurre a Bergonzoni.
Però.
Però questo libro è lunghissimo. Sono trecentomila capitoli nei quali tutti si agitano come criceti forsennati senza mai combinare nulla. Si parte benissimo, con un certo tono da commedia dark inglese (e in effetti mi immaginavo il protagonista, Billy, uno sfigato curatore di museo, con la faccia di Simon Pegg), ci invischiamo in una storia assurda su una setta di adoratori del Calamaro Gigante e il furto di un esemplare del suddetto cefalopode conservato in formalina in un museo di Londra; e a metà del libro Billy è diventato un ninja-taumaturgo-profeta così, senza colpo ferire e la storia si incarta in una palude di sottotrame inutili e vicoli ciechi (per non parlare del finale del romanzo, che è una cosa da andare a cercare l’autore sotto casa e schiaffeggiarlo con un merluzzo). I personaggi secondari spesso sembrano buone idee mal realizzate: ci sono gli immancabili poliziotti del mistero, per esempio, che però dopo tre capitoli, scusate il francesismo, hanno già scassato la minchia; c’è un fantasma sindacalista, taumaturghi appassionati di Star Trek, adoratori di questo e di quello, tatuaggi parlanti e cattivi, cattivi, cattivissimi killer che sai già che faranno la fine di Boba Fett. E infatti. Io mi son fatto quest’idea che Mieville, da buon marxista, pensi che l’individuo conti meno della massa, e in effetti i suoi romanzi brulicano di “comparse”, ma raramente di “personaggi”, e men che meno di “protagonisti” (chi si ricorda il nome del protagonista della Città delle Navi?); il che non è necessariamente un male, ma certe volte lascia spiazzati, perchè ti chiedi “ma perchè mi stai raccontando di questo tizio? E’ utile ai fini della storia o è solo un pretesto per parlare della tua geniale trovata dello spiritello dell’Ipod? Non potremmo tornare alla trama principale?”.
Poi c’è la faccenda dell’immaginazione torrenziale di cui sopra: qualcuno dovrebbe ogni tanto dirgli basta. Se hai millemila idee bellissime, bravo, beato te che ci riesci, ma non è detto che tu debba metterle per forza TUTTE nel tuo romanzo; anche perchè il troppo stroppia, e buona parte di queste geniali invenzioni finiscono semplicemente sepolte e dimenticate.
Insomma, una mezza delusione. Temo che Mieville stia imboccando la pericolosa discesa verso l’autoparodia (ok, lo so, vorrà pure essere ironico, eccetera, però quando appaiono i Nazisti del Caos non puoi fare a meno di alzare gli occhi dal libro e guardarti intorno con aria imbarazzata). Come M. Night Shyamalan: spero non faccia la stessa fine.
2) Pop Apocalypse, di Lee Konstantinou
In un futuro non troppo remoto, tutto – ma proprio tutto – è coperto dal diritto d’autore. Così, se qualcuno parla di te, deve pagarti i diritti; quindi, se sei famoso e tutti parlano di te, sei ricco. Al che i genitori di Eliot, visto che il numero dei suoi amici, contatti e follower sui vari social network ha raggiunto la massa critica, decidono di quotare il figlio in borsa. Il poveretto si ritrova da un giorno all’altro a vivere in una specie di reality show, e a dover impostare le proprie scelte personali in modo da soddisfare i suoi azionisti. Ma c’è un problema: Eliot è un minchione di prima categoria, ed è incapace di rimanere due giorni di fila sobrio e lontano dai guai. E ce n’è un altro: Eliot ha un sosia. Ovviamente, cattivo.
Il cyberpunk non mi ha mai convinto particolarmente, ma è la prima volta che mi capita una “commedia cyberpunk”: ci sono tutti gli stereotipi del genere – tecnologie avanzate ma non fantascientifiche, metodi di controllo pervasivi, una società ingiusta e instabile, un ambiente devastato e sull’orlo del collasso, megacorporazioni avide e spietate, conflitti religiosi, sociali ed etnici ormai incontrollabili – ma il tono è completamente diverso. Probabilmente è per questo che mi è piaciuto: come l’autore, credo che un mondo così (non molto diverso dal nosto, poi) sia disperato, certo – ma non serio.
3) Un Anno nella Città Lineare, di Paul di Filippo
Al centro della Città c’è una lunga strada rettilinea. Ai lati, due file di case. Oltre le case, il Fiume da una parte e la Ferrovia dall’altra. Tutto qui. Al di là del Fiume e dei binari potrebbero esserci il Paradiso e l’Inferno, per quel che se ne sa. In effetti, a guardare bene, in lontananza si vedono le sagome indistinte degli psicopompi, che aspettano che qualcuno muoia per venire a prenderlo: le Ittiodomine dalla coda di pesce o gli Ornitauri dalla testa di toro, creature immateriali e inquietanti, il cui compito è portar via i cadaveri e le anime con essi. Per questo in Città non ci sono cimiteri. E anche perchè sotto il livello del marciapiedi, sotto il tunnel rettilineo della Sotterranea, sbucano le scaglie cornee del Cittanimale, la bestia gigantesca su cui la Città riposa. Una Città infinitamente lunga, i cui quartieri si susseguono tutti uguali – all’apparenza; in realtà le differenze ci sono, minime tra quartieri vicini, enormi tra quartieri separati da centinaia di migliaia di chilometri: lingue diverse, usanze incomprensibili. Diego Patchen è uno scrittore di fantascienza (o, come la chiamano qui, “narrativa cosmogonica”), alle prese con un lavoro difficile, un padre malato e un mondo incomprensibile. E sebbene in questo racconto alla fin fine non succeda nulla o quasi, l’entusiasmo con cui Diego difende i suoi voli di fantasia da chi preferisce l’introspezione psicologica e le “le vicende qualsiasi della vita qualsiasi di persone terribilmente qualsiasi”, unito all’assurdità dell’ambientazione, fanno di questo racconto una vera chicca. Lo si può trovare nell’antologia “Le città del domani”, Fanucci (ahimè), assieme ad altre storie di China Mieville e di Geoff Ryman, e al mitico Jerry Cornelius.
Io a China Mieville ci voglio tanto bene, e al calamaro gigante pure, per cui a questo libro non avrei
dato meno di tre stelline anche senza leggerlo; però, boia, che fatica arrivare alla fine. Cominciamo
con le cose positive, così ci togliamo il pensiero: ottima (per quanto assurda) l’idea di partenza,
torrenziale come sempre l’immaginazione del buon China, e uno stile pirotecnico che dovrebbero, per
quanto possa sembrare strano, far tradurre a Bergonzoni.
Però.
Però questo libro è lunghissimo. Sono trecentomila capitoli nei quali tutti si agitano come criceti
forsennati senza mai combinare nulla. I personaggi sono tutt’altro che memorabili; si parte benissimo,
con un certo tono da commedia dark inglese – e in effetti mi immaginavo il protagonista, Billy, uno
sfigato curatore di museo, con la faccia di Simon Pegg; e a metà del libro me lo ritrovo
ninja-taumaturgo-profeta così, senza colpo ferire (per non parlare del finale del romanzo, che è una
cosa da andare a cercare l’autore sotto casa e schiaffeggiarlo con un merluzzo); e lo stesso vale per i
poliziotti del mistero, che però dopo tre capitoli, scusate il francesismo, hanno già scassato la
minchia; e così via. Ok, Wati il fantasma sindacalista, e Jason, il camaleonte proletario, sono
notevoli, ma più come idea che come realizzazione; e Goss & Subby, i cattivi, cattivi, cattivissimi
killer, sono quel genere di personaggi che sai già che faranno la fine di Boba Fett. E infatti. Io mi
son fatto quest’idea che Mieville, da buon marxista, pensi che l’individuo conti meno della massa, e in
effetti i suoi romanzi brulicano di “comparse”, ma raramente di “personaggi”, e men che meno di
“protagonisti” (chi si ricorda il nome del protagonista della Città delle Navi?); il che non è
necessariamente un male, ma certe volte lascia spiazzati, perchè ti chiedi “ma perchè mi stai
raccontando di questo tizio? E’ utile ai fini della storia o è solo un pretesto per parlare della tua
geniale trovata dello spiritello dell’Ipod? Non potremmo tornare alla trama principale? Non potremmo
tornare a Billy?”.
Poi c’è la faccenda dell’immaginazione torrenziale di cui sopra: qualcuno dovrebbe ogni tanto dirgli
basta. Se hai millemila idee bellissime, bravo, beato te che ci riesci, ma non è detto che tu debba
metterle per forza TUTTE nel tuo romanzo; anche perchè il troppo stroppia, e buona parte di queste
geniali invenzioni finiscono semplicemente sepolte e dimenticate.
Insomma, una mezza delusione. Temo che Mieville stia imboccando la pericolosa discesa verso
l’autoparodia (ok, lo so, vorrà pure essere ironico, eccetera, però quando appaiono i Nazisti del Caos
non puoi fare a meno di alzare gli occhi dal libro e guardarti intorno con aria imbarazzata). Come M.
Night Shyamalan: spero non faccia la stessa fine.
Pop Apocalypse, di Lee Konstantinou
In un futuro non troppo remoto, tutto – ma proprio tutto – è coperto dal diritto d’autore. Così, se
qualcuno parla di te, deve pagarti i diritti; quindi, se sei famoso e tutti parlano di te, sei ricco.
Al che i genitori di Eliot, visto che il numero dei suoi amici, contatti e follower sui vari social
network ha raggiunto la massa critica, decidono di quotare il figlio in borsa. Il poveretto si ritrova
da un giorno all’altro a vivere in una specie di reality show, e a dover impostare le proprie scelte
personali in modo da soddisfare i suoi azionisti. Ma c’è un problema: Eliot è un minchione di prima
categoria, ed è incapace di rimanere due giorni di fila sobrio e lontano dai guai. E ce n’è un altro:
Eliot ha un sosia. Ovviamente, cattivo.
Il cyberpunk non mi ha mai convinto particolarmente, ma è la prima volta che mi capita una “commedia
cyberpunk”: ci sono tutti gli stereotipi del genere – tecnologie avanzate ma non fantascientifiche,
metodi di controllo pervasivi, una società ingiusta e instabile, un ambiente devastato e sull’orlo del
collasso, megacorporazioni avide e spietate, conflitti religiosi, sociali ed etnici ormai
incontrollabili – ma il tono è completamente diverso. Probabilmente è per questo che mi è piaciuto:
come l’autore, credo che un mondo così (non molto diverso dal nosto, poi) sia disperato, certo – ma non
serio.
Un Anno nella Città Lineare, di Paul di Filippo
Al centro della Città c’è una lunga strada rettilinea. Ai lati, due file di case. Oltre le case, il
Fiume da una parte e la Ferrovia dall’altra. Tutto qui. Al di là del Fiume e dei binari potrebbero
esserci il Paradiso e l’Inferno, per quel che se ne sa. In effetti, a guardare bene, in lontananza si
vedono le sagome indistinte degli psicopompi, che aspettano che qualcuno muoia per venire a prenderlo:
le Ittiodomine dalla coda di pesce o gli Ornitauri dalla testa di toro, creature immateriali e
inquietanti, il cui compito è portar via i cadaveri e le anime con essi. Per questo in Città non ci
sono cimiteri. E anche perchè sotto il livello del marciapiedi, sotto il tunnel rettilineo della
Sotterranea, sbucano le scaglie cornee del Cittanimale, la bestia gigantesca su cui la Città riposa.
Una Città infinitamente lunga, i cui quartieri si susseguono tutti uguali – all’apparenza; in realtà le
differenze ci sono, minime tra quartieri vicini, enormi tra quartieri separati da centinaia di migliaia
di chilometri: lingue diverse, usanze incomprensibili. Diego Patchen è uno scrittore di fantascienza
(o, come la chiamano qui, “narrativa cosmogonica”), alle prese con un lavoro difficile, un padre malato
e un mondo incomprensibile. E sebbene in questo racconto alla fin fine non succeda nulla o quasi,
l’entusiasmo con cui Diego difende i suoi voli di fantasia da chi preferisce l’introspezione
psicologica e le “le vicende qualsiasi della vita qualsiasi di persone terribilmente qualsiasi”, unito
all’assurdità dell’ambientazione, fanno di questo racconto una vera chicca. Lo si può trovare
nell’antologia “Le città del domani”, Fanucci (ahimè), assieme ad altre storie di China Mieville e di
Geoff Ryman, e al mitico Jerry Cornelius.
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Una profonda riflessione su “E ora, un po’ di fantascienza”