E ora, un po’ di fantascienza

galaxy_science_fiction_1952

(Ok, tecnicamente non è proprio fantascienza fantascienza, quella di Asimov e compagnia bella; siamo più in territorio weird – cyberpunk o giù di lì. Oh, beh, che ci volete fare…)

1) Kraken, di China Mieville

Io a China Mieville ci voglio tanto bene, e al calamaro gigante pure, per cui questo libro mi sarebbe piaciuto anche senza leggerlo; però, boia, che fatica arrivare alla fine. Cominciamo  con le cose positive, così ci togliamo il pensiero: ottima (per quanto assurda) l’idea di partenza,  torrenziale come sempre l’immaginazione del buon China, e uno stile pirotecnico che dovrebbero, per  quanto possa sembrare strano, far tradurre a Bergonzoni.
Però.
Però questo libro è lunghissimo. Sono trecentomila capitoli nei quali tutti si agitano come criceti  forsennati senza mai combinare nulla. Si parte benissimo,  con un certo tono da commedia dark inglese  (e in effetti mi immaginavo il protagonista, Billy, uno sfigato curatore di museo, con la faccia di Simon Pegg), ci invischiamo in una storia assurda su una setta di adoratori del Calamaro Gigante e il furto di un esemplare del suddetto cefalopode conservato in formalina in un museo di Londra; e a metà del libro Billy è diventato un ninja-taumaturgo-profeta così, senza colpo ferire e la storia si incarta in una palude di sottotrame inutili e vicoli ciechi (per non parlare del finale del romanzo, che è una  cosa da andare a cercare l’autore sotto casa e schiaffeggiarlo con un merluzzo). I personaggi secondari spesso sembrano buone idee mal realizzate: ci sono gli immancabili poliziotti del mistero, per esempio, che però dopo tre capitoli, scusate il francesismo, hanno già scassato la  minchia; c’è un fantasma sindacalista, taumaturghi appassionati di Star Trek, adoratori di questo e di quello, tatuaggi parlanti e cattivi, cattivi, cattivissimi  killer che sai già che faranno la fine di Boba Fett. E infatti. Io mi  son fatto quest’idea che Mieville, da buon marxista, pensi che l’individuo conti meno della massa, e in effetti i suoi romanzi brulicano di “comparse”, ma raramente di “personaggi”, e men che meno di  “protagonisti” (chi si ricorda il nome del protagonista della Città delle Navi?); il che non è  necessariamente un male, ma certe volte lascia spiazzati, perchè ti chiedi “ma perchè mi stai  raccontando di questo tizio? E’ utile ai fini della storia o è solo un pretesto per parlare della tua  geniale trovata dello spiritello dell’Ipod? Non potremmo tornare alla trama principale?”.
Poi c’è la faccenda dell’immaginazione torrenziale di cui sopra: qualcuno dovrebbe ogni tanto dirgli  basta. Se hai millemila idee bellissime, bravo, beato te che ci riesci, ma non è detto che tu debba  metterle per forza TUTTE nel tuo romanzo; anche perchè il troppo stroppia, e buona parte di queste  geniali invenzioni finiscono semplicemente sepolte e dimenticate.
Insomma, una mezza delusione. Temo che Mieville stia imboccando la pericolosa discesa verso  l’autoparodia (ok, lo so, vorrà pure essere ironico, eccetera, però quando appaiono i Nazisti del Caos  non puoi fare a meno di alzare gli occhi dal libro e guardarti intorno con aria imbarazzata). Come M.  Night Shyamalan: spero non faccia la stessa fine.

2) Pop Apocalypse, di Lee Konstantinou

In un futuro non troppo remoto, tutto – ma proprio tutto – è coperto dal diritto d’autore. Così, se  qualcuno parla di te, deve pagarti i diritti; quindi, se sei famoso e tutti parlano di te, sei ricco.  Al che i genitori di Eliot, visto che il numero dei suoi amici, contatti e follower sui vari social  network ha raggiunto la massa critica, decidono di quotare il figlio in borsa. Il poveretto si ritrova  da un giorno all’altro a vivere in una specie di reality show, e a dover impostare le proprie scelte  personali in modo da soddisfare i suoi azionisti. Ma c’è un problema: Eliot è un minchione di prima  categoria, ed è incapace di rimanere due giorni di fila sobrio e lontano dai guai. E ce n’è un altro:  Eliot ha un sosia. Ovviamente, cattivo.
Il cyberpunk non mi ha mai convinto particolarmente, ma è la prima volta che mi capita una “commedia  cyberpunk”: ci sono tutti gli stereotipi del genere – tecnologie avanzate ma non fantascientifiche,  metodi di controllo pervasivi, una società ingiusta e instabile, un ambiente devastato e sull’orlo del  collasso, megacorporazioni avide e spietate, conflitti religiosi, sociali ed etnici ormai  incontrollabili – ma il tono è completamente diverso. Probabilmente è per questo che mi è piaciuto:  come l’autore, credo che un mondo così (non molto diverso dal nosto, poi) sia disperato, certo – ma non  serio.

3) Un Anno nella Città Lineare, di Paul di Filippo

Al centro della Città c’è una lunga strada rettilinea. Ai lati, due file di case. Oltre le case, il  Fiume da una parte e la Ferrovia dall’altra. Tutto qui. Al di là del Fiume e dei binari potrebbero  esserci il Paradiso e l’Inferno, per quel che se ne sa. In effetti, a guardare bene, in lontananza si  vedono le sagome indistinte degli psicopompi, che aspettano che qualcuno muoia per venire a prenderlo:  le Ittiodomine dalla coda di pesce o gli Ornitauri dalla testa di toro, creature immateriali e  inquietanti, il cui compito è portar via i cadaveri e le anime con essi. Per questo in Città non ci  sono cimiteri. E anche perchè sotto il livello del marciapiedi, sotto il tunnel rettilineo della  Sotterranea, sbucano le scaglie cornee del Cittanimale, la bestia gigantesca su cui la Città riposa.  Una Città infinitamente lunga, i cui quartieri si susseguono tutti uguali – all’apparenza; in realtà le  differenze ci sono, minime tra quartieri vicini, enormi tra quartieri separati da centinaia di migliaia  di chilometri: lingue diverse, usanze incomprensibili. Diego Patchen è uno scrittore di fantascienza  (o, come la chiamano qui, “narrativa cosmogonica”), alle prese con un lavoro difficile, un padre malato  e un mondo incomprensibile. E sebbene in questo racconto alla fin fine non succeda nulla o quasi,  l’entusiasmo con cui Diego difende i suoi voli di fantasia da chi preferisce l’introspezione  psicologica e le “le vicende qualsiasi della vita qualsiasi di persone terribilmente qualsiasi”, unito  all’assurdità dell’ambientazione, fanno di questo racconto una vera chicca. Lo si può trovare  nell’antologia “Le città del domani”, Fanucci (ahimè), assieme ad altre storie di China Mieville e di  Geoff Ryman, e al mitico Jerry Cornelius.

Kraken, di China Mieville

Io a China Mieville ci voglio tanto bene, e al calamaro gigante pure, per cui a questo libro non avrei

dato meno di tre stelline anche senza leggerlo; però, boia, che fatica arrivare alla fine. Cominciamo

con le cose positive, così ci togliamo il pensiero: ottima (per quanto assurda) l’idea di partenza,

torrenziale come sempre l’immaginazione del buon China, e uno stile pirotecnico che dovrebbero, per

quanto possa sembrare strano, far tradurre a Bergonzoni.
Però.
Però questo libro è lunghissimo. Sono trecentomila capitoli nei quali tutti si agitano come criceti

forsennati senza mai combinare nulla. I personaggi sono tutt’altro che memorabili; si parte benissimo,

con un certo tono da commedia dark inglese – e in effetti mi immaginavo il protagonista, Billy, uno

sfigato curatore di museo, con la faccia di Simon Pegg; e a metà del libro me lo ritrovo

ninja-taumaturgo-profeta così, senza colpo ferire (per non parlare del finale del romanzo, che è una

cosa da andare a cercare l’autore sotto casa e schiaffeggiarlo con un merluzzo); e lo stesso vale per i

poliziotti del mistero, che però dopo tre capitoli, scusate il francesismo, hanno già scassato la

minchia; e così via. Ok, Wati il fantasma sindacalista, e Jason, il camaleonte proletario, sono

notevoli, ma più come idea che come realizzazione; e Goss & Subby, i cattivi, cattivi, cattivissimi

killer, sono quel genere di personaggi che sai già che faranno la fine di Boba Fett. E infatti. Io mi

son fatto quest’idea che Mieville, da buon marxista, pensi che l’individuo conti meno della massa, e in

effetti i suoi romanzi brulicano di “comparse”, ma raramente di “personaggi”, e men che meno di

“protagonisti” (chi si ricorda il nome del protagonista della Città delle Navi?); il che non è

necessariamente un male, ma certe volte lascia spiazzati, perchè ti chiedi “ma perchè mi stai

raccontando di questo tizio? E’ utile ai fini della storia o è solo un pretesto per parlare della tua

geniale trovata dello spiritello dell’Ipod? Non potremmo tornare alla trama principale? Non potremmo

tornare a Billy?”.
Poi c’è la faccenda dell’immaginazione torrenziale di cui sopra: qualcuno dovrebbe ogni tanto dirgli

basta. Se hai millemila idee bellissime, bravo, beato te che ci riesci, ma non è detto che tu debba

metterle per forza TUTTE nel tuo romanzo; anche perchè il troppo stroppia, e buona parte di queste

geniali invenzioni finiscono semplicemente sepolte e dimenticate.
Insomma, una mezza delusione. Temo che Mieville stia imboccando la pericolosa discesa verso

l’autoparodia (ok, lo so, vorrà pure essere ironico, eccetera, però quando appaiono i Nazisti del Caos

non puoi fare a meno di alzare gli occhi dal libro e guardarti intorno con aria imbarazzata). Come M.

Night Shyamalan: spero non faccia la stessa fine.

Pop Apocalypse, di Lee Konstantinou

In un futuro non troppo remoto, tutto – ma proprio tutto – è coperto dal diritto d’autore. Così, se

qualcuno parla di te, deve pagarti i diritti; quindi, se sei famoso e tutti parlano di te, sei ricco.

Al che i genitori di Eliot, visto che il numero dei suoi amici, contatti e follower sui vari social

network ha raggiunto la massa critica, decidono di quotare il figlio in borsa. Il poveretto si ritrova

da un giorno all’altro a vivere in una specie di reality show, e a dover impostare le proprie scelte

personali in modo da soddisfare i suoi azionisti. Ma c’è un problema: Eliot è un minchione di prima

categoria, ed è incapace di rimanere due giorni di fila sobrio e lontano dai guai. E ce n’è un altro:

Eliot ha un sosia. Ovviamente, cattivo.
Il cyberpunk non mi ha mai convinto particolarmente, ma è la prima volta che mi capita una “commedia

cyberpunk”: ci sono tutti gli stereotipi del genere – tecnologie avanzate ma non fantascientifiche,

metodi di controllo pervasivi, una società ingiusta e instabile, un ambiente devastato e sull’orlo del

collasso, megacorporazioni avide e spietate, conflitti religiosi, sociali ed etnici ormai

incontrollabili – ma il tono è completamente diverso. Probabilmente è per questo che mi è piaciuto:

come l’autore, credo che un mondo così (non molto diverso dal nosto, poi) sia disperato, certo – ma non

serio.

Un Anno nella Città Lineare, di Paul di Filippo

Al centro della Città c’è una lunga strada rettilinea. Ai lati, due file di case. Oltre le case, il

Fiume da una parte e la Ferrovia dall’altra. Tutto qui. Al di là del Fiume e dei binari potrebbero

esserci il Paradiso e l’Inferno, per quel che se ne sa. In effetti, a guardare bene, in lontananza si

vedono le sagome indistinte degli psicopompi, che aspettano che qualcuno muoia per venire a prenderlo:

le Ittiodomine dalla coda di pesce o gli Ornitauri dalla testa di toro, creature immateriali e

inquietanti, il cui compito è portar via i cadaveri e le anime con essi. Per questo in Città non ci

sono cimiteri. E anche perchè sotto il livello del marciapiedi, sotto il tunnel rettilineo della

Sotterranea, sbucano le scaglie cornee del Cittanimale, la bestia gigantesca su cui la Città riposa.

Una Città infinitamente lunga, i cui quartieri si susseguono tutti uguali – all’apparenza; in realtà le

differenze ci sono, minime tra quartieri vicini, enormi tra quartieri separati da centinaia di migliaia

di chilometri: lingue diverse, usanze incomprensibili. Diego Patchen è uno scrittore di fantascienza

(o, come la chiamano qui, “narrativa cosmogonica”), alle prese con un lavoro difficile, un padre malato

e un mondo incomprensibile. E sebbene in questo racconto alla fin fine non succeda nulla o quasi,

l’entusiasmo con cui Diego difende i suoi voli di fantasia da chi preferisce l’introspezione

psicologica e le “le vicende qualsiasi della vita qualsiasi di persone terribilmente qualsiasi”, unito

all’assurdità dell’ambientazione, fanno di questo racconto una vera chicca. Lo si può trovare

nell’antologia “Le città del domani”, Fanucci (ahimè), assieme ad altre storie di China Mieville e di

Geoff Ryman, e al mitico Jerry Cornelius.


Condividi questa opera dell'ingegno umano!
facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail



Una profonda riflessione su “E ora, un po’ di fantascienza

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Sito

This blog is kept spam free by WP-SpamFree.