Il Calendario di Frate Cazzaro – Aprile 2006

0604mese I magici pistacchi di Frate Cazzaro
E’ un segreto, capite? La mia famiglia cresce questi pistacchi da generazioni e generazioni e generazioni e generazioni e… vabbeh, avete capito. E sono magici. I pistacchi. Benedetti dal Signore! E nessuno che non sia un Cazzaro purosangue può vederli o mangiarli, perché altrimenti verrebbe distrutto dalle nano-macchine impiantate nei magici pistacchi, programmate diversi millenni addietro per ridurre in minuscoli frammenti ogni trasgressore delle sacre regole. Per cui no, non ne avrete neanche uno! Ve lo scordate! Me li mangio tutti io, ecco. Che poi vi fanno male.
0604calendario L’antico mestiere del raddrizzatore di banane
Eoni ed eoni fa, quando vennero inventate le banane, ci fu sgomento e disperazione tra i popoli: per un banale errore di progettazione infatti erano venute orrendamente curve! Sciagura! Per fortuna gli sgamati bananofagi erano tipi pieni di risorse e aggirarono il problema con sagacia e sicumera, istituendo la nobile figura del raddrizzatore di banane, che con tocco delicato, ma deciso (grazie all’utilizzo di un’incudine e una pala di ghisa) riusciva a riportare il frutto alla sua giusta rettitudine. Purtroppo con il passare dei millenni, questa antica sapienza è andata perduta e ci siamo ormai ridotti a mangiare le banane curve, da veri selvaggi.

La giovane Blatta Parlante
era piccola e nera. Strano, nevvero?

Il proverbio del mese
La cicoria cresce dove vaga il facocero.
Beh, questo proverbio di spiega da solo. Se avete bisogno di cicoria sapete dove andare. Anche se avete bisogno di facoceri.

 

0604semina

Lo uistitì al whisky
Per prima cosa, procuratevi uno uistitì vivo, il che potrebbe risultare difficoltoso perché sono dei piccoli saltellanti bastardi. Uno volta preso, versategli una bottiglia di whisky giù per il gargarozzo (solo il whisky, non anche la bottiglia). Adesso la bestiolina sarà in coma etilico e già abbastanza insaporita, ma per completare la preparazione, spalmatela di burro di arachidi e mettetele una cipolla in bocca. Dopodiché friggetela in padella con olio di semi e un trito di verdure e scarafaggi.

Il Santo del mese.

 

I Fratelli Malleolo: di tutte le mitologiche figure dell’antica Babilonia, nessuna è più losca dei fratelli Malleolo, i Nani Bombaroli di Ninive. Di ascendenza incerta e dubbia moralità, Gioboaz e Roboaz Malleolo sono passati alla Storia per l’invenzione del malleolo, che ha permesso agli esseri umani di conquistare la postura eretta e la capacità di tirare calci in faccia. Gli infidi fratellini iniziarono subito un racket di protezione dei malleoli, che procurò loro enormi ricchezze e l’odio imperituro delle masse, un astio che ancor oggi risuona in antichi modi di dire come “viscido come un malleolo” oppure “malleolo infame” oppure “malleolus malleficarum”.

0604santo Ordini dall’alto

 

Guai a chi costruisce la casa senza giustizia
e il piano di sopra senza equità,
che fa lavorare il suo prossimo per nulla,
senza dargli la paga,
e dice: “Mi costruirò una casa grande
con spazioso piano di sopra”
e vi apre finestre
e la riveste di tavolati di cedro
e la dipinge di rosso.
Forse tu agisci da re
perché ostenti passione per il cedro?
Forse tuo padre non mangiava e beveva?
Ma egli praticava il diritto e la giustizia e tutto andava bene.

Geremia 22, 13


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La Città del Re Leucrotta – Cap. IV

Ukhurra

 

La nonna del vincitore degli Uruth e degli Yeek aveva una figura imponente, pesante come un menhir, aggraziata come un troll di palude; una testa enorme, un viso dai lineamenti raccapriccianti perfino per un coboldo, una bocca da squalo, occhi nerissimi e lampeggianti come tizzoni d’Acheronte, leggermente strabici. La capigliatura, grigia e ispida come fil di ferro, le cadeva in grottesco disordine sull’informe veste di tela nera a ricami d’oro, raffiguranti scene infernali; la pelle, quasi mai esposta al sole (si diceva che sarebbe esplosa), era coriacea e grigiastra, con sfumature che ricordavano certi riflessi dei succhi gastrici; aveva le braccia nude e adorne di grotteschi tatuaggi, e i piedi racchiusi in zoccoli chiodati con ricami di perle, così grossi da poter reggere vittoriosamente il confronto con quelli tanto decantati delle donne naniche.
«Nulla, nulla, nonnina mia,» rantolò il disgraziato generale, risollevandosi con uno spasmo. «Sono semplicemente preoccupato… ehm… per la, diciamo, malattia, del Baldench.»
«Non dire cazzate! Tu stai male e sei oppresso da qualche cosa di più grave d’una preoccupazione. Non è che mi stai nascondendo qualcosa?» disse la vecchia.
«No, non è nulla. Giuro. Davvero. Parola di coboldo.»
«Ci pulisco il culo del mio leucrotta, con la tua parola. È dunque gravemente ammalato, l’ultimo dei Baldench?» chiese Ukhurra.
«È un po’ triste, tuttavia nulla, ehm, di grave. È un po’ costipato. Sai, i dolcetti di scarabeo….»
«E se muore? Finiresti a spasso, eh?»
«Non vi è alcun pericolo, ehm, per ora. Ma parliamo d’altro! Che fame! Faccio portare la cena, eh? E poi subito a nanna! Domani questa stanchezza sarà scomparsa. Eh, si!»
La vecchia percosse con un martelletto di legno uno dei servitori, che fuggì per tornare poco dopo portando, su grandi vassoi di piombo, parecchi tondi pieni di brodaglie fumanti, di frutta fermentata e di tuberi di varie specie.
Il coboldo medio si nutre ordinariamente al pari dello snotling e dello yeek di enormi quantità di qualsiasi cosa, purchè condita con un miscuglio puzzolente che somiglia, in peggio, alla polvere da sparo, composto di gamberetti di palude lasciati prima putrefare al sole per settimane e di parecchie erbe e droghe fortissime. Non sdegna però, specialmente il coboldo campagnolo, i ratti, le lucertole, le locuste, i vermi-iena, gli halfling, il budino nero e i nani di fosso. In ciò è eguale, per gusto, al goblin.
I ricchi preferiscono invece carne di iguana o di elfo, fresca o salata che si vende in quantità prodigiose sul mercato galleggiante di Kuglurg, i funghi urlatori, i fagiolini della morte, che nonostante il nome sono squisiti conditi con grasso di serpente; raramente invece mangiano goblin e quasi mai carni d’altri coboldi, perché la loro religione proibisce di ucciderli, quantunque permetta loro di mangiarne se uccisi da altri che non siano coboldi.
Vronch, che voleva nascondere le sue angosce e anche il tristo disegno che aveva preso forma nella sua mente, si mise ad assaggiare le vivande portate, inaffiandole abbondantemente con tazze colme di kench, un liquore distillato dal cervello di gremlin, mescolato a calce e a canna da zucchero, che i coboldi pretendono sia atto a riparare le energie fisiche estenuate dalla continua traspirazione, nonostante i gravi danni cerebrali che provoca. Il disgraziato cercava di stordirsi e di acquistare un’allegria fittizia, visto che di fare ubriacar la nonna non c’era verso: ci sarebbe voluto tutto il letto del Fulukh, se il Fulukh fosse stato vino. O trielina.
Terminato il pasto, si fece portare la scatola di ghisa regalatagli dal re, piena di noci di brung e di fango con un po’ di calce. Si mise a masticare lentamente quel miscuglio piccante, che annerisce i denti e che fa sputar saliva color del sangue, regolarmente sul pavimento, mentre preparava il tè per sé e per l’arcigna vecchietta, versandolo in microscopiche chicchere di porcellana, sulle quali era dipinto, nello stile nazionale, il paradiso dei coboldi colle falangi degli dèì, i troni celesti e l’immensa palude fatiscente dove i coboldi si sarebbero radunati alla fine dei tempi. Approfittando di un attimo di distrazione della vecchia, versò nella sua tazzina alcune gocce di un liquido incolore.
«Mia dolce nonnina,» disse ad un tratto il generale, che da alcuni minuti sembrava ricaduto nei suoi biechi pensieri; in realtà stava aspettando il giusto momento. «Tu hai compiuto già da tre settimane i tuoi ottanta anni, e anch’io non sono più un giovincello, e potrebbe da un momento all’altro capitare qualche disgrazia. Non a te, certo che no, però, sai… non si sa mai…»
«Che cosa dici, deficiente? Quali neri pensieri turbano questa sera il tuo cervello? Sei di nuovo ubriaco? Vado a prendere la mazza da cricket.»
«No! Aspetta, aspetta,» rispose il generale, mentre la vecchia accennava goffamente ad alzarsi. «Prendo precauzioni, in vista di certi avvenimenti che potrebbero verificarsi. Ma anche no, voglio dire.»
«Adesso mi sto incazzando. Cosa c’è sotto?»
«Niente! Niente, nulla davvero, Ukhurra. Giuro su una montagna di ossa sacre e benedette dai Santi Asceti del Monte Periglioso.»
«Si fottano gli asceti. Che cosa vuoi concludere, allora?», ringhiò la vecchia con voce impastata.
«Che alla mia età, ehm, forse… dovrei sapere dove si trovano le, ehm, ricchezze, capisci, che un giorno mi dovranno spettare in… eredità. » Istintivamente, si coprì la testa con le mani.
«All’estremità del nostro giardino», biascicò la vecchia, con lo sguardo perso nel vuoto. «In un forziere che io ho immerso nella vasca, si trovano rinchiuse tutte le gioie della famiglia e le verghe d’oro che ho accumulato in tanti anni di economia. Vi è là dentro tanto da farti ricco, anche se non te lo meriti, maledetto te e chi ti ha generato… Giacché, nei saccheggi delle città Yeek e Uruthesi, al nonno è toccata una fortuna considerevole. Nessuno sa che le mie ricchezze si trovino immerse in quel bacino, che è guardato da due gaviali onde garantirle dai ladri. Ecco quello che volevi sapere. Ti vada tutto in medicine.»
In lontananza, i messi del palazzo reale chiamavano rumorosamente, invitando gli abitanti della città a spegnere i lumi ed a coricarsi: «A letto, ubriaconi, o vi si dà un sacco di legnate!». «Vafanculo! », rispondevano dalle case galleggianti. Sarebbero andati avanti tutta la notte.
Vronch si alzò di scatto. «È tardi,» disse con voce ferma. «Le ombre dei morti lasciano il cielo e scendono sulla terra. Va’ a coricarti mia dolce nonnina. Sarai sicuramente stanca», aggiunse mellifluo.
S’accostò alla vecchia, che lo guardava in cagnesco, la fissò un momento, poi le depose un bacio sulla fronte.
«Vai, vai» le disse, evitando con un balzo gli artigli della megera «Io avrò ancora da fare un po’ prima di coricarmi. Devo… ehm, sistemare i conti. Sai, la tassa sui rifiuti, il commercialista, tutte quelle cose lì.»
Mentre Ukhurra si ritirava barcollando nella sua stanza, Vronch uscì sulla veranda, aspirando avidamente l’aria fresca della notte.
Il Fulukh, illuminato dalle lune salite ormai in cielo, svolgeva la sua immensa, putrida curva mucillaginosa, come se le sue acque fossero brodo di iguana, scorrendo fra la moltitudine di case galleggianti e mormorando astiosamente, in un incessante scricchiolio di zattere e di barche che si alzavano per la marea montante.
I lumi delle case acquatiche a poco a poco si spegnevano e le canzoni dei battellieri ubriachi morivano sulla superficie dell’immenso fiume, mentre lontano lontano echeggiavano ancora i dolcissimi richiami d’un troll in amore.
La città s’addormentava a poco a poco, mentre la prima luna saliva sempre fra miriadi di stelle scintillanti in un cielo purissimo, facendo balenare i tetti dorati dei palazzi e le ardite punte delle piramidi gigantesche; e la brezza notturna faceva tintinnare i campanelluzzi dei talponi, e tremolare le immense foglie degli alberi di poponi che servivano di sfondo a quel superbo quadro.
Vronch, appoggiato alla balaustrata della veranda, pericolosamente scricchiolante, teneva gli sguardi fissi su un punto lontano, dove si vedevano talora brillare dei fuochi ed innalzare nubi nerissime. Guardava oltre la necropoli, verso le terre libere.
«Domani sarò là.» disse. «Libero e ricco sfondato. Ortragh, Mianthe e, più oltre, Phuldeblar. Mi volete morto? Eh no, cari miei, Vronch non è mica un fringuello. Vadano a fare in culo i Baldench e i vili che li hanno uccisi! Che la maledizione di Krustulas li perseguiti in questa e nell’altra vita, eccetera eccetera. Ukhurra mi perdonerà di averla privata dell’eredità e comprenderà che la sua morte era necessaria. Almeno sfuggirà alla schiavitù che l’attende, e io sfuggirò alle sue legnate. Eh eh eh.»
Un grido sbilenco echeggiò in quell’istante proprio sopra il tetto della casa.
«L’uccello della morte si è posato sulla mia casa,» disse con un bieco sorriso. «Forse l’anima di mio nonno. Sì, nonno, la vecchia avrà quel che si merita.»
Percorse con passo fermo tutta la veranda e aprì una porta, entrando nella sua stanza da letto.
La stanza dell’ex-generale era ampia e arredata con ben poco gusto, visto che predominava in tutti i mobili lo stile coboldo. Le pareti erano coperte di frammenti malassortiti di tappezzeria con fiori, scene di corte, palombari e cani; il soffitto era tutto scolpito ma ormai divorato dai tarli, il pavimento coperto di piastrelle a disegni stravaganti, prese chissà dove. Alle finestre pesanti tendaggi verde-muffa, nel mezzo un ampio letto di forme massicce; qua e là, negli angoli e lungo le pareti, mobili antichi incrostati d’avorio e di piombo, poi vasi, vasetti, appendini e quadri sbiaditi; e di fronte al letto, su una mensola di ebano, una statuetta di Krustulas. Vronch, appena entrato, si diresse lentamente verso un angolo in cui, sopra una mensola di ghisa, si vedeva una larga sciabola dalla lama intaccata e scheggiata, colla guardia enorme, a forma di drago. Era la sua arma di guerra, una volta taglientissima ma ormai ricoperta di ruggine, già tinta e ritinta un tempo nel sangue di goblin, yeek e coboldi – specialmente del sangue che sgorga dalla schiena.
La impugnò con mano ferma e la guardò per alcuni istanti, alla luce della lampada verdastra che ardeva proprio sopra il letto; poi, con un ghigno, mimò alcune goffe tecniche di scherma. Ad un tratto però abbassò l’arma, poi la gettò su uno dei divanetti.
«Ahimè, povera Ukhurra» disse ridacchiando. «Il sangue ti rovinerà i tappeti.»
Stette un momento irresoluto, poi si diresse verso un tavolino sbilenco, su cui stavano parecchi vasi di porcellana, delle tazze e delle caraffe piene d’acqua e di liquori.
«La morte ti coglierà nel sonno,» mormorò. «Spero solo che l’effetto dell’erba-yotka duri ancora un po’.»
Si versò un bicchiere di vino e lo vuotò d’un fiato. Nonostante la droga che le aveva somministrato, l’idea di entrare di soppiatto nella camera della vecchia lo terrorizzava. Raccolse la scimitarra e si avviò spedito verso la porta, dicendo: «Addio, vecchiaccia malefica! Mi spiace, ma o te o me.»
E cadde a terra come un tronco. Sulla veranda l’uccello della morte faceva echeggiare per tre volte di seguito il suo funebre grido.


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La Città del Re Leucrotta – Cap. III

Torna a Casa, Vronch!

Vronch era il tipico coboldo da romanzo fantasy, ma non aveva però quel portamento cascante, molle, snervato che si osserva in quasi tutti gli abitanti dei sotterranei e che produce su noi una pessima impressione. O meglio, aveva imparato a nasconderlo perfettamente quando c’erano estranei in giro.
Era un coboldo piuttosto alto, ancora vigoroso malgrado gli anni e gli stravizi, dall’ampia pancia da birra e dalle braccine piene di cicatrici che indicavano il coboldo costretto a maneggiare la pesante spada dei comandanti.
Aveva invece, al pari dei suoi compatrioti, la tinta della pelle olivastra con indefinibili sfumature rossastre, la fronte stretta e sfuggente, le labbra grosse e rosse e i denti aguzzi. Ma i suoi occhi non erano smorti, piccoli, senza fuoco, col bulbo quasi interamente giallo: erano invece due infidi occhi neri, dal lampo astuto e traditore, che anche un Occhio Fluttuante gli avrebbe invidiato, prima di mangiarselo. Vronch si era creata una posizione altissima, esclusivamente col proprio valore, che per un coboldo significa: col tradimento, l’adulazione e il complotto. Di temperamento pusillanime e vigliacco, era entrato giovanissimo nell’esercito, pensando che forse sarebbe stato quello l’unico mezzo per raggiungere una posizione elevata, giacché suo padre, un modesto svuotatore di pozzi neri, non gli aveva lasciato che poche ore di vantaggio prima di corrergli dietro con il forcone. Il giovane, che come i suoi compatrioti, aveva la brutta fama di essere codardo e fannullone, si era fatto subito largo, distinguendosi in parecchi scontri, risse e accoltellamenti, poiché il Fethrund era allora in guerra cogli stati vicini.
A trent’anni, dopo aver respinto e battuto sanguinosamente gli Uomini-Pinguino di Oeban, che erano tre volte superiori di numero e peso corporeo, ma a quelle latitudini il calore li mandava in delirio, aveva già ricevuto dal re la prima scatola di ghisa per conservare il fango, distintivo di nobiltà, giacché nel Fethrund la nobiltà non è ereditaria e il fango neppure. A trentacinque, già generale, dopo aver battuto le truppe Uruthesi che avevano già varcato le frontiere, con l’uso sapiente di alcolici avvelenati e coperte infettate col vaiolo, aveva ricevuto la seconda, più grande e più elegante, ed il cucchiaio d’oro con fiori e pesci cesellati da infilare nel nastro del cappello, e poi la terza, ancora più grande, che poteva contenere sei galloni di fango e gli conferiva il titolo di orag, ossia di Grande Personaggio.
Cessate le guerre, il valoroso generale si era ritirato come privato cittadino nella sua natia Kuglurg, per godersi finalmente un po’ di tranquillità e crearsi una famiglia prima di diventare troppo vecchio.
Re Woorplah invece, che non aveva dimenticato i servigi resi alla patria dal prode generale, lo aveva poco dopo chiamato alla corte, creandolo ministro della sua casa prima, poi ministro della corte dei Sacri Mostri Candidi, la carica più alta e più invidiata da tutti i notabili coboldi.
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Vronch, in preda al panico, si allontanò quasi di corsa dal palazzo reale, camminando come un ebbro intossicato dal fango, cogli occhi stralunati e la lingua penzoloni, seguendo la riva fangosa del Fulukh, la famosa fogna a cielo aperto le cui acque pestilenziali riflettevano vagamente le ultime luci del crepuscolo. Kuglurg è la principale città del Fethrund dopo la decadenza di Gaglarup, l’antica capitale dello stato, lasciata deperire per un capriccio inesplicabile dei monarchi Fethrundesi, i quali, al pari di quelli Uruth, amano sovente abbandonare le grandi città per dare splendore ad altre minori, o almeno così facevano prima dell’invenzione delle fogne. Kuglurg, quantunque salita agli onori di città da poco più di un secolo, ha oggi, compresi i sobborghi, quasi quaranta chilometri di sviluppo e tre milioni di abitanti, tra coboldi, goblin, gnoll, bugbear, uomini-talpa e spiriti maligni di vario genere e gode fama di essere opulenta, ripugnante e inespugnabile.
Ed infatti Gib-Hurplurgon-Orlblin-Rograug-Goolurg-Agh, come la chiamano i coboldi, che ci tengono ai nomi lunghissimi, significa “la grande fighissima regal città degli angeli, la bella e la inespugnabile che neanche te la immagini”, anche se non potrebbe resistere un’ora sola al fuoco d’una delle moderne corazzate naniche, quantunque, per renderla imprendibile, i cobodi abbiano bagnato le fondamenta delle sue porte con sangue di troll. La città sorge sopra alcune isolette fangose, divise in due gruppi da un braccio principale del Fulukh. La città che si estende sulla riva destra del fiume non è che una accozzaglia di casupole; quella che s’innalza sulla sinistra è veramente una magnifica accozzaglia di casupole ma contiene, cinta da mura merlate con torri e bastioni, la parte nobile e ricca della città, dove vi si agglomerano, non si sa come, non meno di seicentomila abitanti. È là che sorge il palazzo reale, dinanzi a cui tutti i passanti devono affrettarsi e aprire l’ombrello, per non correre il pericolo di vedersi fatti bersaglio da fetentissime pallottole di fango, saliva e muco, che le guardie sputano dagli spalti con ammirabile maestria.
Ed è pure là che s’innalzano la grandiosa piramide di Quolghap-Khur, che lancia la sua cima a oltre venti metri, edificio ammirabile per le sue linee architettoniche psichedeliche e sotto la cui mole si crede siano sepolte le reliquie preziose di Krustulas; i templi grandiosi dei talponi, coi loro tre metri di altezza, coperti di guano di avvoltoio i cui vapori, ai raggi del sole maggiore, sono visibili e annusabili fin dall’altra riva del Fulukh; la pagoda di Dzarr-Dzaurekh colle sue magnifiche porte di ghisa ad intarsi di ossi di seppia, scolpite e lavorate con un’arte che fortunatamente non ha l’eguale, colle sue colonne e coi suoi tetti coperti di peltro ed eternit, che sono costati somme favolose; ed è là, finalmente, che si ammira il Gran Tempio di Irrae-Slibup che racchiude una colossale statua di Braazor, ossia di Krustulas, ovvero Uthma-Thrang, tutta coperta d’oro e d’un valore inestimabile.
Vronch, sempre guardingo, continuava a seguire la riva del fiume, diretto alle porte della città, insensibile alla pittoresca grandiosità di quel superbo corso d’acqua, che vince tutti gli altri in fetore e squallore. Migliaia e migliaia di case galleggianti già illuminate, ormeggiate alla riva da grosse gomene rosicchiate dai topi e tenute a galla da enormi fasci di bambù legati a cento a cento, ondulavano graziosamente, scricchiolando, mentre nell’interno si udivano imprecazioni, grida e litigi di snotling e voci di anziani coboldi in preda al beri-beri. Ondate di fumo denso e acre sfuggivano dai camini e fuochi multicolori brillavano sulle zattere e dentro le case terrestri o galleggianti: alcune, già in preda alle fiamme, venivano lasciate andare alla deriva tra lo scherno dei passanti, mentre la fresca brezza notturna che veniva dal mare portava fino alla riva i mille inverosimili odori delle cucine.
Vronch seguì il fiume, finché ebbe oltrepassato tutta la città galleggiante, urtando di frequente qualche passante; e scese verso i quartieri bassi, camminando sempre come un sonnambulo, finché giunse in un luogo deserto, dove si vedevano scintillare nelle tenebre dei fuochi giganteschi. Degli gnoll seminudi, armati di lunghe picche, s’aggiravano ridacchiando come invasati intorno a quei fuochi, ora apparendo alla vivida luce della fiamma ed ora scomparendo fra le ondate di fumo denso, mentre dall’alto calavano pesantemente stormi di sinistri avvoltoi neri. Grossi e viscidi vermi-iena si aggiravano sulle loro zampette, tastando il terreno in cerca di cibo. Quel luogo era la necropoli di Kuglurg; accanto sorgeva il tempio di Huglurek, il dio dei morti, il Portinaio dell’Inferno dalla testa di iena; e quegli gnoll bruciavano i cadaveri delle persone morte nella giornata. Vronch si fermò, quasi sorpreso di trovarsi in quel luogo funebre, e guardò con malcelato timore quelle fiamme che facevano crepitare le carni dei cadaveri, spinti dai crematori sui tizzoni ardenti.
Una voce lo trasse da quella contemplazione, facendolo saltare come una molla.
«Padrone, che cosa fai qui?»
Era Fang, il quale da lontano lo aveva seguito, spaventato dall’aspetto tetro dell’ormai ex-generale, e timoroso che volesse svignarsela senza di lui. Vronch si voltò senza rispondere, soffocando un’imprecazione.
«Che cosa vieni a fare qui, padrone?» chiese nuovamente il servo. «Non è qui la tua casa.»
«Non lo so,» rispose Vronch. «Camminavo… ehm… senza vedere né sapere dove andassi, capisci, e mi sono trovato, tipo, fra questi morti. Una cosa del genere. Sarà stato il fango, capisci. Triste presagio. Quegli avvoltoi», aggiunse con un gesto teatrale, «piluccheranno ben presto anche il mio cadavere, giacché io non sono coboldo da sopravvivere alla disgrazia che mi ha colpito. Ahimè, ahimè. La mia morte calmerà la collera del re e salverà dalla schiavitù mia nonna.»
«Scaccia questi funebri pensieri, mio padrone,» disse Fang, che sapeva farsi venire le lacrime agli occhi a comando. «Forse la tua innocenza verrà un giorno riconosciuta e potrai tornare ministro. Pensa quale dolore proverebbe la veneranda Ukhurra, se tu morissi.»
«Mia nonna ha nelle vene sangue di vampiro, di tarrasque e di scarabeo urticante. Sai che gliene frega. Perché anche sua madre era figlia d’un prode condottiero, e non passa giorno che non me lo rammenti, gli dèi la conservino sotto sale. Saprà rassegnarsi alla sua sventura. No » continuò, «Vronch non sopravviverà alla sua disgrazia. Che cosa diverrei io domani, accusato di aver fatto morire i bianchi protettori del regno, i Sacri Baldench? Un miserabile in patria, disprezzato dai nobili e dal popolino, esecrato dagli onesti, inviso agli stessi delinquenti; un essere maledetto. Ptui» concluse, sputando per terra.
«Tu che hai salvato il regno dalle invasioni degli Yeek e degli Uruth e che hai domato i miei compatrioti? O mio signore!»
«È passato troppo tempo da allora,» rispose Vronch con voce cupa. «Vattene ora, mio fido Fang. Lascia che qui si compia il mio destino. »
«Vieni a casa, padrone: nonna Ukhurra, non vedendoti, sarà inquieta, e sai che se si incazza è la fine.»
Vronch soffocò un gemito e si lasciò condurre da Fang, senza più opporre resistenza.
Risalirono trattenendo il fiato la riva del fiume, ritornando nei quartieri più centrali, costituiti non più da capanne, bensì da casette più decorose, e che, quantunque esteriormente non offrano nulla di interessante, poco hanno da invidiare ai tanto decantati dungeon di Dordyleir. Sono piccoli lavori d’architettura tipicamente cobolda, colle travature graziosamente scolpite, con porte doppie e persiane variopinte che durante il giorno si tengono alzate, onde si possa vedere l’altare di Krustulas; e sono circondate da una larga e comoda veranda dalla ringhiera elegantissima, piena di poltroncine di legno e di vasi contenenti arbusti tagliati in forma d’animali più o meno fantastici. Almeno in teoria: in pratica, le imposte erano cadenti, gli arbusti soffocati dalle erbacce, la veranda inutilizzabile e le mura esterne ricoperte fino al tetto di graffiti osceni e da ogni sorta di sporcizia. Ma si sa, ai coboldi piace così.
«Ci siamo, padrone,» disse Fang.
Il generale, che pareva si fosse allora risvegliato da un triste sogno per precipitare in un incubo sanguinolento, alzò gli occhi verso la veranda che la prima luna, allora sorta, illuminava, facendo scintillare dei grandi vasi di porcellana scheggiati e pieni di melma, in cui crescevano peonie carnivore e muffe multicolori.
«Ah!» biascicò. «E Ukhurra?»
«Ti aspetterà nella sala da pranzo.»
Con una mossa lenta, quasi automatica, Vronch aperse la porta incrostata e salì lentamente alcuni gradini, poi percorse un corridoio ed entrò in una stanza a pianterreno, illuminata da una grande lampada dorata, che proiettava sulle pareti e sul pavimento di legno, una luce scialba e dolce come quella di un fuoco di gas di palude.
Vi erano pochi mobili, tutti antichi ma scheggiati, malmessi e rosi dai tarli. Una tavola era già apparecchiata, con tondi e vassoi di piombo cesellato, delle sedie dalla spalliera assai inclinata, delle mensole sostenenti vasi, pieni di peonie carnivore color fuoco, dei tavolini laccati da uno strato di unto spesso un dito, ed incrostati di tappi di bottiglia e gusci di pistacchi, coperti di ninnoli, di vasetti, di bottigliette contenenti forse degli stupefacenti o degli unguenti improponibili, di pallottole d’avorio traforato e di piccole statue di bronzo e d’oro raffiguranti Krustulas.
«Dov’è Ukhurra?» chiese il generale, lasciandosi cadere in una poltrona. «Dov’è il vino, cazzo?»
Una voce stridula, potentissima, si fece subito udire dietro le tende che si gonfiavano sotto i soffi lutulenti dell’aria notturna. Disse: «Che cazzo ci hai da startene lì come un’ameba paglierina, razza di finocchiaccio che non sei altro? Dritto con la schiena!»
Era Ukhurra.


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La Città del Re Leucrotta – Cap. II

Il Re del Fethrund

 

La venefica Slupgopab, la sposa malmostosa ed infida del dio Dilmolkurg, così venerato dai coboldi, trovandosi un giorno a corto di fazzoletti, ricoprì di muco le pareti della sua stanza da bagno, dopo uno starnuto particolarmente violento. Le preziose particelle di quell’essere divino, come l’argilla dalle mani di uno scultore, si raccolsero sul pavimento, dov’erano mescolati sali da bagno delle più svariate specie, animaletti morti e funghi d’ogni genere. Tosto delle forme umanoidi cominciarono a delinearsi, ed una statuetta di bimbo, un piccolo, putrido golem uscì dalla vasca di cemento, entro cui la dea si bagnava. La dea – narra sempre la leggenda cobolda – lo colpì più volte con l’attizzatoio e, un vagito s’udì: «Ahia! Ma che cazzo!»: era un piccolo mostro che apriva gli occhi alla luce.
Era trascorso quasi un anno, quando il terribile Dilmolkurg, tornando dalla guerra contro i nani maligni che volevano bruciare il mondo coi loro petardi, con sua sorpresa e collera, e anche un po’ di schifo, trovò nel bagno del palazzo reale un mostro pestilenziale di cui non s’aspettava l’esistenza. Colto da un tremendo accesso di furore, andò a prendere il cric dal bagagliaio del suo carro falcato e spiaccicò la testa dell’indifesa ancorché ripugnante creatura.
La dolce Slupgopab raccontò allora con quale innocente artificio aveva animato quella statua, di cui aveva ad un tempo fornito la materia prima e la manifattura, e siccome vi sono dei casi in cui gli stessi dèi accettano volentieri le ipotesi più inverosimili, Dilmolkurg non sollevò alcun dubbio sull’innocenza della diletta sposa, anche perché a farlo rischiava le rotule. «Sono stato un po’ vivace,» le disse. «Ho l’abitudine di agire troppo precipitosamente in tutte le cose mie, ma conosco un mezzo per riparare al mal fatto.»
Appena pronunciate quelle parole, con un colpo della sua formidabile roncola Ronk-Uragh, fece saltare la testa del suo leucrotta da guerra e la posò sulle spalle del mostro decapitato: grazie a quel miracolo di chirurgia, solo possibile ad un dio, il maestoso Uthma-Thrang, la cui testa di leucrotta si dondola sul suo corpo gelatinoso, fu annoverato fra gli dei del Fethrund e del Gergarm, con potestà sui mostri ibridi, orrendi e indefinibili e, più in generale, su tutte le bestie che non si sa dove altro mettere, tipo l’Occhio Fluttuante, il Ciucciacervelli e il Signor Roper.
Come praticamente qualsiasi altro essere pluricellulare, il leucrotta era considerato un animale superiore allo stesso coboldo, sia per la sua mole, sia per la sua straordinaria intelligenza, sia per la sua forza prodigiosa, sia per la sua resistenza all’alcool. Dovevano i popoli confinanti o quasi confinanti con il Gergarm rimanere insensibili ad un tale avvenimento? Assolutamente no, e il leucrotta fu senz’altro accettato dagli Uruth prima e dai Fethrundesi poi, come simbolo della divinità protettrice di quegli stati.
Il culto poi si evolse e modificò col passare dei secoli. Possedendo quei paesi fortunati dei mostri bianchi, quantunque rarissimi, invece di innalzare agli onori le più bizzarre creature nelle loro forme e colori naturali, diedero la preferenza a quelli… ammalati!… Ormai è noto che i famosi leucrotta bianchi non sono altro che degli albini, anzi peggio che peggio, dei… lebbrosi, sfuggiti dai loro stessi compagni come appestati! E lo stesso vale per gli Occhi Fluttuanti bianchi, affetti da cataratta terminale. Ma la scelta dei mostri bianchi o quasi bianchi o macchiati di bianco come oggetti di ammirazione e di venerazione aveva un’origine religiosa. Sia gli Uruth che i Fethrundesi, infatti, sono tutti adoratori di Braazor, dio che i primi venerano sotto il nome di Shullud ed i secondi sotto quello di Krustulas, ma che in realtà altri non è che Uthma-Thrang in una delle sue numerose incarnazioni.
Ora le antiche leggende narrano che questo Krustulas si era incarnato mantenendo i propri poteri, per illuminare le masse ignoranti e che, perfettamente istruito in tutte le scienze, era penetrato fino dal primo istante della sua nascita nei segreti più reconditi della natura, e che la sua divinità si era manifestata con una lunga serie di prodigi e di miracoli stupefacenti sui quali sorvoliamo. Un giorno il dio, essendosi seduto all’ombra di un albero di poponi, salì in cielo su un paranco sfolgorante d’oro e di carbonchi, e si dice che gli spiriti celesti, atterriti dal suo aspetto rozzo e tracotante, abbandonarono il loro divino soggiorno e gli si prostrarono dinanzi per adorarlo. Tanta gloria avrebbe eccitato la gelosia e il furore del fratello Pustulas, che era stato creato con gli avanzi di Uthma-Thrang: egli aveva infatti corpo di leucrotta e testa blobbosa gelatinosa, il che rendeva i suoi ragionamenti alquanto confusi oltrechè astiosi, e per questo non aveva voluto incarnarsi, anche per timore di essere sbeffeggiato da chi poteva indossare il cappello. Questo losco individuo, sostenuto da un potente partito, cospirò contro il dio, fondando un nuovo culto che fu abbracciato dai re e dai principi. Il mondo si divise allora in due grandi fazioni, l’una delle quali seguiva Krustulas come modello di virtù, e l’altra lo scellerato Pustulas che colle sue massime ree istigava i coboldi e gli altri popoli al vizio e al turpiloquio. Arse la guerra, ed il malvagio fu precipitato, in un abisso fiammeggiante, dopo essere stato inchiavicato di mazzate per benino.
Narrano ancora le antiche leggende Fethrundesi e Uruthesi che il dio, per perfezionare meglio la sua anima, passò nel corso di cinquecento anni per i corpi di vari animali, fra cui quello d’un Leucrotta bianco, di un Rugginovoro bianco e di un Ratto-Cervello, del pari, bianco.
Era dunque naturale che quei popoli venerassero un simile animale e supponessero che nel suo corpo rivivesse l’anima del dio. Ecco spiegato il motivo per cui Fethrundesi e Uruthesi hanno, anche oggidì, tanta venerazione per quei rari candidi animali, che per i primi rappresentano Krustulas, e per gli altri Shullud ossia Braazor. Chiaro, no? Perciò la morte dell’ultimo Baldench non doveva mancare di produrre una disastrosa impressione non solo sull’animo del re, bensì dell’intera popolazione; ed era il settimo che spirava nello spazio di poche settimane!…
Quali catastrofi, quali tremendi disastri si preparavano per quel regno, privo della protezione del suo dio?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Vronch uscì dal palazzo dei Baldench colla morte nel cuore e gli armigeri alle calcagna, per timore che se la svignasse come aveva già fatto più di una volta, prima di dare al re il terribile annuncio. Non era coboldo che avesse paura della morte, il ministro, oh no! Certo che no. Beh, insomma, per dirla tutta, sì.
Prima di essere innalzato a quella carica, Vronch era stato uno dei più famosi generali del regno, ed aveva combattuto, col tradimento, il veleno e il doppio gioco, contro gli Orchi di Froth, gli Snotling, gli Yeek di Vedryneta e i coboldi di Uruth che avevano violato le frontiere.
Quello che tormentava il suo animo era la triste sorte che forse gli avrebbe riservato la tremenda Ukhurra, la sua unica nonna che egli temeva pazzamente e che certo non avrebbe ben accolto la disgrazia che colpiva il nipote.
Era certo che il re non avrebbe mancato di accusarlo della misteriosa morte dei sette Baldench e che si sarebbe mostrato implacabile contro di lui, quantunque egli avesse speso puntualmente, fino all’ultimo nichelino – a parte qualche spicciolo che gli era finito inavvertitamente in tasca – le rendite della provincia di Ubon destinate al mantenimento di quei sacri abomini, e nulla avesse dimenticato per soddisfare il loro insaziabile appetito.
Uscì dunque, senza guardare in viso nessuno, cupo e affranto, a muso basso per evitare di pestare schifezze, le unghie delle guardie conficcate nel colletto della camicia, e cominciò a percorrere, camminando quasi a zig-zag per schivare le macerie, i viali che conducevano ai palazzi reali, le cui cupole cadenti scintillavano agli ultimi raggi dei soli morenti, sullo sfondo di un cielo variopinto. Nessuno aveva osato seguirlo, nemmeno il brauusk favorito dal povero Baldench, perché tutti temevano d’essere coinvolti nella disgrazia che aveva colpito il ministro.
Dopo aver percorso parecchi viali che costeggiavano dei putridi laghetti, dove si cullavano dolcemente eleganti barchette semiaffondate, e dove si bagnavano in gran numero le pantegane cornute dalle lunghe gambe e bande di aironi carnivori, Vronch, sempre assorto nei suoi tetri pensieri, si trovò dinanzi al palazzo abitato dal re. Era cinto tutto da muraglie altissime (per un coboldo: quasi due metri), che si prolungavano per parecchi chilometri, aperte qua e là da brecce, frane e buchi d’ogni dimensione, provocati dalla fanteria goblin, dalle inondazioni, dalle cavallette e dalla mancanza di manutenzione. Nel centro di quell’immenso recinto sorgeva il Mazpraat, ossia la gran sala dove il re usava ricevere gli ambasciatori delle potenze straniere, e dove si conservavano per un anno, racchiuse in un’urna di legno, le ceneri dei defunti re; sala ricca di dorature una volta, si diceva, meravigliose, ma ora inguardabili, eseguite dai più valenti artisti non solo del Fethrund bensì anche di Nastolos, Pifus e Telkelì.
Più oltre si trovava un altro ampio salone, a cui si accedeva per una gradinata di marmo fiancheggiata da gigantesche statue mostruose (per l’incompetenza degli scultori più che per il soggetto), e nel quale si trovava il trono, ricco di pietre preziose e coperto da un baldacchino diviso in sette scompartimenti, sotto cui il re riceveva i grandi della corte.
Vronch si diresse verso quella sala, che era attigua alle stanze reali del monarca e delle regine. Era sicuro di trovare il re senza dover troppo attendere. Salì col cuore trepidante la scala di marmo, aggrappandosi due volte alle enormi statue che gli pareva lo guardassero sogghignando; poi, facendo uno sforzo disperato, le guardie lo strapparono di lì e lo gettarono oltre la soglia senza rispondere al saluto del soldato di guardia che aveva puntato contro di loro l’archibugio.
Un ciambellano di corte, che indossava un magnifico vestito rosso a fiori gialli, e aveva alla coda numerosi braccialetti d’oro finto e ai piedi zoccoli a punta rialzati con perle e vetrini, vedendo entrare Vronch si affrettò a muovergli incontro, accompagnato da due paggi pure sfarzosamente vestiti.
«Il re?» gli chiese brevemente il ministro degli elefanti bianchi, facendo uno sforzo supremo per divincolarsi dalla stretta degli armigeri.
«È appena tornato nelle sue stanze, mio signore,» rispose il ciambellano. «Ha finito or ora il ricevimento della missione deyeren e credo che non abbia avuto nemmeno il tempo di spogliarsi.»
«Va’ a dirgli che mi urge vederlo.»
«Vronch è sempre gradito a Sua Maestà… Ma che cosa hai, mio signore? Tu tremi e sei trasfigurato.»
«Disgrazia, disgrazia,» gemette il generale.
«Il Baldench?…»
«Morto… ma posso spiegare tutto! Non c’entro! È stata una disgrazia! Non è colpa mia!»
Il ciambellano fece rapidamente alcuni passi indietro, per evitare che l’implorante ministro gli si aggrappasse al vestito, sgualcendolo. Fece un inchino meno profondo del solito e scomparve per una delle porte laterali che metteva negli appartamenti riservati al re. Sentirono la sua risata allontanarsi.
«Tutti mi abbandonano e mi sfuggono come un lebbroso,» mormorò Vronch. «Ieri erano vili servi, ora che arrivano le mazzate, fanno tanto i fighi. Bastardi. E voi mollatemi, cazzo e doppio cazzo.», aggiunse, rivolto alle guardie.
Lo strepito d’una porta che s’apriva lo trasse bruscamente dai suoi tristi pensieri. Alzò gli occhi e trasalì.
Ritto sul primo gradino che conduceva alla piattaforma del trono e ancora vestito del gran costume di gala, stava ritto il re, collo sguardo cupo e la fronte aggrottata.
Woorplah-Hugabdib-Vund-Rahgtru-Greng, re del Fethrund, era ancora un coboldo imponente e sagace, quantunque di età già matura, dalla pelle coriacea e dal portamento dignitoso, come si addiceva ad un monarca potente, anzi il più potente di tutti gli stati dell’Est.
Indossava ancora, come abbiamo detto, l’abito di gran gala, avendo appena terminato allora di ricevere un’ambasciata straordinaria inviatagli dal governo deyeren. Woorplah aveva dunque sul capo la famosa corona reale, una specie di piramide di zinco e crisopazio, alta più d’un piede, ornata all’intorno di opali e perle scaramazze, che doveva ben pesargli sul cranio; indossava una giubba di tessuto pesante, a lamine smaltate, che s’incrociava sotto la cintura, tutta adorna di perle e di pietre preziose di valore inestimabile; calzoni larghi, pure cosparsi di lamine e di pietre; e ai piedi aveva degli zoccoli che avrebbero potuto far felice una gorgone, tanto erano pesanti e ricchi di vetrini e specchietti.
Il re doveva già essere stato informato dal ciambellano della morte dell’ultimo dei sette Baldench, poiché la sua faccia tradiva una profonda preoccupazione, e i suoi occhi erano animati da una fiamma sinistra e le sue fauci sbavavano.
Vronch, divincolatosi dalle guardie, attraversò rapidamente la sala e si lasciò cadere in ginocchio dinanzi al re, dicendogli:
«Anche se mi credi colpevole, o mio re, non uccidermi! Ti prego! Tipregotipregotipregotiprego! »
Re Woorplah rimase silenzio per un terzo di secondo; poi la collera, a malapena frenata, scoppiò con violenza inaudita.
«Sei un miserabile!» gridò il re. «Canaglia! Infame! Puzzone! Io ti avevo affidato a te i miei sacri mostri bianchi, perché te ti credevo il coboldo più atto che coprivi quella carica, e tu me li hai fatti morire tutti morti! Tu hai nel tuo vile corpo la maledizione di Krustulas! Ma io a te t’ammazzo! Datemi un archibugio!»
«Non è stata colpa mia!» ripeté il disgraziatoammirazione e di venerazione aveli sguardi verso il monarca. «Ti giuro che la mia coscienza nulla ha da rimproverarsi; io ho speso regolarmente, fino all’ultimo nichelino, la rendita della provincia che tu avevi destinato alla corte dei Baldench, ed ho fatto il possibile perché a loro nulla mancasse. È stato qualcun altro! Che colpa ho io? Qualcuno, che non teme la punizione di Krustulas, sfida la giusta collera del suo re e si nasconde nelle tenebre, ha osato gettare il maleficio sui mostri bianchi! Ecco, si, è andata così! È un complotto!»
«Credi, con queste cazzate, di farla franca?» chiese il re. «Ma mi prendi per scemo?»
«Si! Cioè, no! No, certo che no! Ma che interesse avrei a mentire, o mio Sovrano? Tu sai che ti sono sempre stato fedele! E tu che sei il più lungimirante, saggio e sgamato fra i sovrani, non vuoi ascoltare la supplica del tuo servo non più giovane?»
Woorplah, colpito da quelle parole, si rasserenò leggermente. La fiamma minacciosa che gli brillava poco prima negli occhi si dileguò, e anche le rughe della fronte a poco a poco si spianarono.
«Tu hai mica un sospetto, generale?» chiese, dopo qualche istante di silenzio.
«La morte dei Baldench, in così breve tempo, non mi pare naturale, o mio signore,» rispose il ministro.
«E chi avrebbe osato gettare un maleficio sui Baldench? Dove trovare nel mio regno un coboldo che abbia tanto coraggio da sfidare l’ira di Krustulas?»
«E se fosse uno straniero, uno che non credesse al nostro dio?» disse Vronch, che s’aggrappava a tutto per ritardare la sua perdita.
«Uno straniero! Ma che cazzo dici?» esclamò Woorplah , che per la seconda volta era stato colpito dalle risposte del suo ministro.
«Tu sai, o mio signore, che molti t’invidiano la tua potenza e la protezione che godi da parte di Krustulas.»
«E i miei Baldench,» si lasciò sfuggire, forse involontariamente, il monarca. «Il mio vicino, il re di Uruth, che ci ha un solo mostro bianco e già molto vecchio, un Ootyugh, mi aveva proposto, or non è molto, una barca di quattrini perché gli vendevo uno dei miei Baldench. Coglione.»
Ma subito dopo, quasi si fosse pentito di aver pronunciato quelle parole, aggiunse con un ghigno:
«No, non può essere mica vero, il re di Uruth è un coboldo al pari di noi, e non avrebbe osato sfidare mica la collera di Krustulas, che protegge pure il suo regno e che il suo popolo adora al pari di noialtri. Se ciò era vero, Krustulas ci faceva ritrovare altri bianchi leucrotta, funghi sapienti e cocatrici, mentre tutte le spedizioni, da me organizzate con immense spese, sono tornate a mani vuote senza che trovavano niente. Tu solo sei colpevole che hai causato la morte dei Baldench per inesperienza o per altre cause che io ancora ignoro; ma appena mi vengono in mente le parole, son cazzi tuoi.»
«Basta che non mi fai uccidere,» rispose Vronch. «Un generale che ha sfidato la morte sui campi di battaglia, per la gloria e la grandezza della nazione, non ha paura, certo che no, ma ormai ho una certa età.»
Woorplah, in preda ad una viva eccitazione, si mise a passeggiare per l’ampia sala, agitando la coda, senza rispondere al ministro. Aveva la fronte tempestosa ed il cupo lampo era tornato a brillare nei suoi occhi, indizi certi d’una collera violentissima; ad un tratto si fermò dinanzi a Vronch, che era rimasto sempre a faccia in giù ai piedi del trono, dicendogli con voce aspra:
«Che cosa accadrà ora del mio regno, privo della protezione dei mostri bianchi, che racchiudevano l’anima di Krustulas? Quali tremende sfighe piomberanno sul Fethrund? Carestie, epidemie, invasioni di nemici, disastri che manco mi immagino, inondazioni e terremoti e la gente che s’ammazza per strada e i bambini che dicono parolacce; e forse suonerà l’ultima ora per la mia dinastia. E tutto ciò lo dovremo a te, miserabile, che non hai saputo curare la salute dei nostri Baldench ed hai irritato il nostro dio. Levati dai miei regali coglioni e torna a casa tua, dove attenderai i miei ordini. Il popolo ed i nobili vorranno giustizia e l’avranno.»
«Ma Ukhurra… » gemette il disgraziato ministro.
«Tua nonna diverrà schiava. Finirà a lavorare nelle miniere di amianto di Chesochan, a meno che…»
«Cosa? Cosa, cosa, COSA?» chiese pacatamente Vronch.
«…a meno che tu non trovi il modo di procurarmi almeno un Baldench.»
«Se colla mia vita potessi trovarlo, non esiterei a sacrificarla, mio signore. Ma è un discorso più teorico che pratico. Voglio dire…»
«Tu sei maledetto da Krustulas e la tua vita non vale, oggi, un beato cazzo! Vattene e attendi a casa tua il mio castigo! Sciò! Via! Fuori di qui!»
Ciò detto Woorplah, in preda ad una collera furiosa, si diresse verso una delle porte di legno, incrostate d’avorio e di madreperla, che mettevano negli appartamenti reali, e scomparve nei meandri del palazzo.
Vronch si alzò in piedi, con la coda tremante e la lingua penzoloni.
«Tutto è finito,» disse, «ma i grandi ed il popolo non assisteranno alla mia punizione. Il vecchio generale, vincitore degli Uruth e degli Yeek, non ha paura della morte. Me la squaglio.»
Si precipitò verso la gradinata che conduceva ai giardini reali. Non si accorse nemmeno che la sentinella di guardia dinanzi alla porta, non gli rese il solito saluto, ma anzi tentò di infilzarlo con la baionetta. Riattraversò, sempre immerso nei suoi dolorosi pensieri, i giardini e le discariche, nei cui viali cominciavano già ad addensarsi le prime tenebre e i primi branchi di topi mannari, e si diresse verso la palazzina dalla quale era uscito prima di recarsi nella sala dei Baldench. Fang, il suo infido paggio, lo aspettava sulla porta della magnifica sala. Vedendo comparire il padrone così disfatto, intuì la disgrazia che lo aveva colpito.
«Oh mio povero signore,» esclamò, colle lagrime agli occhi. «Il Signor leucrotta bianco è morto dunque?»
«Sì,» rispose il generale con voce rauca. «Tutto è finito!»
«E il re?»
Invece di rispondere, Vronch entrò nella sala e con un gesto rabbioso gettò lungi da sé l’alto cappello a punta, di stoffa bianca, a strisce bianche e rosse, adorno d’un largo cerchio dorato con incisioni che rappresentavano dei fiori, pesci e oggetti d’antiquariato, insegna della sua carica; poi si strappò di dosso, lacerandola, la veste consunta e macchiata e la lunga sciarpa che gli avvolgeva i fianchi, facendo tutto a brandelli coi denti.
«Che cosa fai, mio signore?» chiese Fang, spaventato.
«Fatti i cazzi tuoi! Mi sbarazzo delle insegne del mio grado,» disse Vronch, coi denti stretti. «Io non sono più il ministro della corte dei Baldench; oggi sono un miserabile senza carica, uno schiavo, forse un condannato ad una morte infame. Ma Vronch non finirà in pasto ai regali piranha e non darà al suo occulto nemico, né ai grandi, né al popolo, una tale soddisfazione. Mi volete morto? Benissimo. Ma prima dovete prendermi! Maledetti bastardi, voi e il vostro leucrotta del cazzo! Il vecchio generale mostrerà a tutti come un prode che ha sfidato il fuoco dei nemici del suo re ne sappia una più del diavolo. Maledette le insegne del mio grado… Che il vento vi disperda. Ptui! Ptui! Fang, dammi un’altra veste, onde nessuno più riconosca in me il ministro della corte dei Baldench. Il vestito da suora andrà benissimo. E prepara le valigie.»
«Mio signore…»
«Taci e obbedisci!…»
Fang, che conosceva troppo bene il suo padrone, uscì per tornare poco dopo con una bracciata di pezze di stoffa nera, che le monache Fethrundesi indossano in vari modi incrociandole attorno al corpo, alle gambe, alle braccia e alla coda; e dei calzoni larghissimi, zoccoli di legno a forma di papero, occhiali scuri nonché parecchi cappelli in forma di fungo o di cono o d’imbuto. Vronch si vestì frettolosamente, si applicò un paio di baffi finti, si gettò sulle spalle una fascia di seta assai larga che poi avvolse intorno al collo, in modo da coprirsi anche parte del viso, e uscì.
«Mio signore,» gli disse Fang, che si disponeva a seguirlo. «Devo farti preparare il palanchino?»
«No,» rispose seccamente il generale. «Va’ ad attendermi a casa mia e non dire nulla alla nonna.»
Scese una gradinata di marmo prossima al crollo, percorse un corridoio pieno di ragnatele e aperse una porticina, slanciandosi nella via.
Era uscito dal palazzo reale.


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Kaprawoulf: CAP IV

p-kaprawoulflin. Un verde prato. Un cielo limpido. Uccellini cinguettano in lontananza.
Plin Plin.
La basilica di Santa Scamorza a Vitrebbia.
Plin Plin Plin.
Uno zefiro gentile dal mare spira. Beati greggi di ovini pascolano beati, appunto.
Plin Plin.
Un solitario cacciator per le lande si aggira. Un ciclamino tra le labbra. Un bazooka nella mano destra, un lanciafiamme nella sinistra.
Plin Plin.
Le rovine della villa di Päappö a Verrǚka Gunther.
Plin Plin Plin.
Un pioppo!
Plin Plin Plin Plinplinplinplin PLIN!
Loschi figuri s’acquattano tra i bossi.
Plin.
Il solitario cacciator s’arresta meditabondo preparandosi alla lotta.
Plin Plin Zam zam zam.
Un altro pioppo.
Plin!
Un pinguino ninja in gita di piacere.
Pli… eh?
Loschi figuri si lanciano alla carica. In lontananza gli uccellini si dileguano. Un attimo di silenzio. Anche le pecore se la squagliano.
Zazaaaam!
All’urlo di “Katamarrano!” il solitario cacciator si avventa sui loschi figuri. E baraonda! Fiamme, spari, frizzi e lazzi riempiono l’aere.
Plin plin plin.
Un altro pioppo ancora.
Plin.
Dalle diroccate mura di cinta della villa di Päappö altri loschi figuri, questa volta più sgamati, si avventano sul solitario cacciator. Porcazza.
Plin. Bam! Sbadaragang! Plin plin.
Loschi figuri cadon morti come mosche al sole. Il solitario cacciator è ferito, stremato. Insomma butta male.
Plin plin plin.
Il solitario cacciator si rifugia nella basilica di Santa Scamorza inseguito da un numeroso contingente di loschi figuri. Armosi e pericolanti… cioè armati e pericolosi… insomma cattivi.
Plin plipliplin.
Il pinguino ninja assiso su una panca della basilica in contemplazione delle sacre icone. San Barbonzio, protettore dei ghiaccioli all’anice.
Plin.
I loschi figuri. Sempre loro. Loschi e agguerriti. Il solitario cacciator. Braccato. Ferito. Una granata in una mano. Una sicura nell’altra mano. E ora sono cazzi.
Blam. (Esplosione forte)
Per quaranta giorni e quaranta giorni i resti del solitario cacciator piovvero sulle colline. Mescolati ai resti dei loschi figuri. Ma la sua anima perdurò.
Plin plin.
Il pinguino ninja sopravissuto all’esplosione. Il solitario cacciator, le mani sulle tempie del pinguino, il volto contratto nella consapevolezza della morte.
Plin plin plin.
“Se c’è riuscito il dottor Spock posso farcela anch’io eccheccazzo!”
Plin plin pliplipliplin plin plin.
E ancora un pioppo. Ma dico io. Che poi qualcuno me lo spiega cosa ci stanno a fare tutti sti pioppi.
Plin!


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