Mastro Bestemmia e la Maledizione del Faraone

Non volendo fare la fine di Giordano Bruno, vi chiediamo: siete sicuri di voler andare su una pagina con un tizio che bestemmia? Non è che poi vi scandalizzate e ci denuciate alla Santa Inquisizione e ci mandate gente a casa a spezzarci le ossicina? Noi che non abbiamo mai fatto niente di male a nessuno, che siamo timorati e pii e tutte quelle cose lì? Eh? In breve: VOLETE LEGGERE DELLE BESTEMMIE? Se sì, cliccate qui, ma poi non venite a lamentarvi con noi. Se invece tenete alla salvezza della vostra anima, lasciate questa pagina, andate a confessarvi e comportatevi ammodino.


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La Bibbia fa diventare mafiosi?

scienze-veritaocazzate

Dopo il clamoroso ritrovamento di bibbie, crocefissi e immagini religiose nella casa del boss mafioso Provenzano è questa la conclusione a cui sono arrivati i nostri esperti. Ci sono arrivati dopo avere esaminato sia questo, sia precedenti casi in cui è stata dimostrata la stretta relazione fra ascolti musicali, letture, attività ludiche e comportamenti criminali o devianti. Ma ci spiegherà meglio la situazione il professore (nonché esperto) Von Moigeus, in questa intervista che ci ha gentilmente concesso.

Dottor Stalinslao: Allora professore, ci può spiegare meglio le conclusioni a cui siete arrivati?
Professor Von Moigeus: Ma certamente mio caro, non si diventa un professore ed esperto così a cazzo.

D.S.: E allora?
V.M.: Cosa?

D.S.: Beh, allora ci può spiegare le conclusioni a cui siete arrivati?
V.M.: Ma certo che sì, l’ho già detto!

D.S.: Dunque?….
V.M.: Dunque cosa?!? Ma sia più chiaro!!! Mica ho tutto sto tempo da perdere!!! So’ professore (nonché esperto) io, mica cazzi!

D.S.: Uff… dunque ci può spiegare le conclusioni che l’hanno portata a dire che leggere la bibbia fa diventare mafiosi?
V.M.: Ancora!!! Ma quante volte devo rispondere a questa domanda?!? Sì, certo che sì, ho condotto io questo ricerca!!! E’ ovvio che la posso spiegare! Ma è sordo, o è solamente stupido!!??!!

D.S.: Allora ci risponda!!!
V.M.: Ah, ma allora lei vuole che io risponda! Ma è inutile arrabbiarsi! Bastava chiederlo prima, no?

D.S.: Ma è dall’inizio dell’intervista che lo sto chiedendo!
V.M.: E no giovanotto! Lei mi ha chiesto se posso spiegare, e io ho risposto alla sua domanda, so’ professore io (nonché esperto), e seguo un rigoroso metodo scientifico in tutti gli aspetti della mia vita, mi permetta di consigliarle di essere più preciso in futuro, avrebbe dovuto chiedermi direttamente di spiegarle le mie conclusioni senza disperdersi in inutili domande scontate. Le ho già detto che non ho tempo da perdere, sto proprio ora svolgendo una ricerca che proverà che gli uomini discendono dai rinoceronti, se ci pensa bene è evidente! Insomma a parte il corno, la pelle coriacea, il fatto che siano erbivori e che camminino a quattro zampe , insomma tutta una serie di piccoli dettagli che, concorderà con me che so’ professore (nonché esperto), sono assolutamente irrilevanti, la somiglianza dei rinoceronti con l’uomo è impressionante!!! Non crede?

D.S.: Ma.. beh.. insomma…non mi sembra.
V.M.: Non le sembra!?! Beh d’altra parte il professore (nonché esperto) sono io! Ignorante!

D.S.: Ok, ok va bene, ma torniamo alla questione iniziale… Ci spieghi le conclusioni a cui è arrivato!!!
V.M.: Ma certo! Però calmini eh! E’ troppo chiedere un po’ di rispetto? Che ne so, un per favore? So’ professore io (nonché esperto).

D.S.: Mmmmhhh…Per favore!!!
V.M.: Oh così va meglio! Allora… cos’è esattamente che devo spiegare? Sa mi occupo di infinite ricerche, so’ professore io (nonché esperto).

D.S.: Argh… ci spieghi come è giunto alle conclusioni che leggere la bibbia faccia diventare mafiosi.
V.M.: Ah ma certo! Beh mi lasci dire che sono giunto a questa conclusione dopo un approfondito esame dei dati ottenuti dalla perquisizione della casa di Provenzano e dopo un loro confronto con delle precedenti ricerche sviluppate attraverso il metodo causale/cazzale che consiste nel creare un rapporto causale fra vari fenomeni tramite la metodologia moigesiana; in altre parole, si tratta di accoppiare degli avvenimenti in un rapporto causa/effetto, assolutamente a cazzo, anche se la loro relazione può apparire senza senso a chiunque abbia un’intelligenza superiore a un’ameba paglierina (che comunque va detto sono esseri che hanno sviluppato, in un universo parallelo, una società estremamente sviluppata e che… ma questa è un’altra storia).
Ho definito questa metodologia, in mio onore, che so’ professore (nonché esperto), tecnica di Moigeus, o, come già detto moigesiana.

D.S.: Bene, finalmente, ora se per cortesia entrasse più in profondità nei dettagli della sua ricerca…
V.M.: Ma certo, ma certo giovanotto, però insomma tutta questa deferenza nei miei confronti, vabbe che so’ professore (nonché esperto), ma mi sembra un po’ esagerata, suvvia mi tratti pure più informalmente. Comunque andiamo ad iniziare.
Allora nella perquisizione della casa di Provenzano sono stati trovati vari materiali religiosi, bibbie, immagini votive, crocifissi, da cui deriva che Provenzano sia un fervente credente e che legga spesso la bibbia, giusto?

D.S.: Direi di sì.
V.M.: Bene, ora sappiamo che Provenzano è un boss mafioso ed un pericoloso criminale, e quindi… beh il resto viene da sé.

D.S.: Mmh cioè?
V.M.: Ma è ovvio!!! Basta applicare la metodologia moigesiana!!!!

  1. Provenzano è un criminale mafioso.
  2. Provenzano legge la bibbia. Da ciò deriva, applicando il metodo di Moigeus che:
  3. Quelli che leggono la bibbia, soprattutto se giuovini, dalla mente facilmente traviabile, diventano mafiosi!!!! E’ un rapporto lapalissiano, direi addirittura moigesiano!!!

D.S.: Mi sembra un po’ azzardato dire che chi legge la bibbia diventa mafioso!
V.M.: Ma certo che no!!! E’ evidente!!! E comunque non mi riferisco a tutti, ma solo a quelle menti giuovini e facilmente traviabili dalle cattive compagnie!!!!
Per cui mamme e babbi vigilate sui vostri figli e se li vedete girare con preti, seminaristi, frequentare oratori, o (orrore!!!) leggere una bibbia intervenite immediatamente!!! Potrebbe essere troppo tardi!!!!
E poi, quando un movimento ha applicato la metodologia moigesiana (da cui, a proposito, ha preso il nome e non mi ha neanche pagato i diritti!!!) alla musica metalla, dicendo che chi ascolta la musica metalla diventa satanista e fa le messe nere, e ai giuochi di ruolo, dicendo che chi li giuoca poi si suicida, tutti gli hanno creduto!!! Titoloni sui giornali, speciali in tv e tutte ‘ste stronzate, insomma non vedo perché non dovrebbe funzionare con la bibbia!!!!

D.S.: Che poi il rapporto fra religione e mafia mi sembra più sensato che gli altri.
V.M.: Ma sì, ma sì… ma non è questo il punto, non ha ancora capito il vero significato della metodologia moigesiana, che è essere applicabile ovunque, senza porsi problemi!!! Con il metodo moigesiano è facile costruire teorie stramapalate per accusare qualsiasi cosa, libri, cartoni, film, fumetti, musica, giochi, ecc. sulla base di pochi casi, senza assumersi le proprie responsabilità e senza preoccuparsi se le conclusioni siano sensate o meno!!!!!
E se lo dico io, che so’ professore (nonché esperto) potete crederci!!!


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Il Merdabosco – Opera Teatrale in più Atti – Intermezzo

Personaggi

Re Alcolizzato
Regina Cagona
Principessa Scorreggiona
Principe Coprofago
Lupotossico
Orco Vegano
Cavaliere Mafioso
Cuoco Magnaccia
Fata Pederasta
Ninfa Travestito
Elfo Spacciatore
Folletto Serial Killer
Gigante Ricchione
Cacciatore Leghista
Muratori musicanti Stùgis
Picio Gnomo Barista e narratore (nonché famoso idiota)
Pistola Gnoma aiutante di Picio (nonché nota imbecille)
Sciur Niggurath

Primo intermezzo

Costruisci con Folletto Serial Killer

Bar del Merdabosco, sono presenti Picio e Pistola.

Picio: Ciao piccoli amici, oggi abbiamo un ospite speciale, che v’insegnerà come costruire facilmente un coltellino svizzero, ma mi raccomando dovete usarlo con mooooolta attenzione. Ecco a voi Folletto Serial Killer. (sottovoce rivolto al pubblico) state attenti che questo è un pazzo pericoloso.

(Entra Folletto Serial Killer)
Pistola:
(con insopportabile voce sguaiata ed in falsetto) Picio, Picio, perché dicevi che è un pazzo pericoloso! Mi sembra una così brava persona…folletto

Picio: (sibilando rivolta a Pistola) Zitta stupida che questo ci ammazza…

Folletto Serial Killer: Ah e così io sarei pazzo, eh?

Picio: Ma no via, mica starai a sentire questa piccola idiota? Vero?

Folletto Serial Killer: Sì, sì… poi ne parliamo… Allora oggi insegnerò a fare un kit di lame da uccisione e sbudellamento.

Picio: Ma doveva essere un coltellino svizzero…

Folletto Serial Killer: (sogghignando) Chiamalo pure come ti pare…Dunque, prima di tutto vi occorreranno delle belle forbici.

Picio: Sì, però dovete prendere delle forbici dalla punta arrotondata, non come queste che sono troppo aguzze…

Folletto Serial Killer: Aguzze?!? Queste?!? Ma stai scherzando!!!!gnomo

(Pianta con violenza le forbici negli occhi di Picio).
Picio: (Crolla a terra con le forbici piantate in un occhio) Arghh!!!! Che dolore!!!!!

Folletto Serial Killer: Beh sì, forse sono un po’ aguzze…

Pistola: Visto cosa succede a disturbare uno quando usa le forbici, eppure sei proprio tu Picio a dire sempre “Bambini state lontano quando un adulto usa le forbici e bla, bla, bla…”.

Folletto Serial Killer: Beh, Pistola ha ragione, devi stare più attento, ora potresti ridarmi le forbici? (Strappa le forbici dall’occhio di Picio che si sta rialzando faticosamente e che subito crolla nuovamente al suolo). Beh, adesso le forbici non vi serviranno più, allora prendete una sparachiodi come questa…

Picio: (nel frattempo si rialza appoggiandosi al tavolo di lavoro) … ma state attenti, è pericoloso, fatela usare da un adulto…

Folletto Serial Killer: …altrimenti vi può succedere questo (spara una serie di chiodi sulla mano di Picio inchiodandolo al tavolo).

Picio: Ahiaaaa!!!! Non si stacca più, non si stacca più!!!

Pistola: (scocciata) Ma insomma Picio! Vuoi fare un po’ d’attenzione!

Folletto Serial Killer: Non vi preoccupate, ora vi mostrerò cosa fare in casi come questo per togliere i chiodi. Basta prendere una bella pinza come questa e poi strappare i chiodi così (strappa i chiodi dalla mano di Picio che crolla a terra in preda a tremiti irrefrenabili).

Pistola: (rivolta a Folletto Serial Killer piena d’ammirazione ) Ma… sei bravissimo.

Folletto Serial Killer: Lo so, lo so… comunque vi possono capitare chiodi che non si staccano, come questo; in questi casi è meglio piantare in profondità il chiodo e fare finta di niente, se lo farete bene e se non lo dite a nessuno, nessuno se ne accorgerà. (prende un enorme martello da fabbro).

Picio: No! No!!! Ti prego!!!!!!
(Folletto Serial Killer cala pesantemente il martello sulla mano di Picio, che sviene).


Folletto S.K. :
Bene, ed ora ecco qua il vostro set di lame (estrae una serie impressionante di coltelli, uncini, lame, ecc.).

Picio: (pallidissimo si rialza a fatica) Bravo..coff, coff… bravissimo!!!

Pistola: (innocente) Ma, Picio!!! Io non ho capito come si costruisce il coltelino, non ha fatto vedere nulla!

Folletto Serial Killer: (ridacchiando) Davvero?!? Allora dovrò rimediare mostrando ai nostri piccoli spettatori come si usa questo “coltellino svizzero”.

Pistola: (esultante) Evvivaaaaa!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

(Folletto Serial Killer si avvicina con un ghigno maligno a Picio con in mano le lame).
Picio:
No, no, hanno capito benissimo come si usa, noooooo!!!!!!!

Le urla si attenuano mentre cala il sipario.


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La Città del Re Leucrotta – Cap. X

Il Parco dei Batraci

 

L’ indomani, il dirigibile riprendeva il suo volo verso il settentrione, filando fra due rive assai sinuose, coperte da una vegetazione meravigliosa e svariata, che serviva d’asilo a miriadi di insetti nocivi ed a battaglioni corazzati di lucertole volanti. Superbi banani illusori dalle foglie immense formavano gruppi enormi, crescendo accanto a macchie di fangostani, di artoserpi dalle frutta rugose e shignazzanti, di durhun altissimi, di tonki dalla cui corteccia i coboldi ottengono un’ottima carta sui cui usi è meglio non indagare, di faang che somministrano una tintura rossa bellissima ma indelebile nel raggio di tre metri e di alberi della ghisa, i quali però non raggiungevano ancora le dimensioni straordinarie dei loro confratelli del settentrione. Di tanto in tanto, un baccano assordante rompeva improvvisamente il silenzio che regnava sulla grande fiumana: erano urla, strida, sghignazzamenti, fischi prolungati, poi latrati rauchi, bestemmie e parolacce. Una banda di gremlin, disturbata nei suoi saccheggi dall’improvviso apparire del dirigibile, si rifugiava precipitosamente sulla cima degli alberi costeggianti il fiume, e di là sfogava il suo malumore con grida discordi, con boccacce e con una tempesta di frutta e uova marce, per sparire poco dopo nel folto della foresta, al primo colpo di spingarda caricata a sale: l’arzillo vecchietto non perdeva inutilmente il suo tempo. Seduto a prua, a fianco di Ukhurra che era armata d’una pesante carabina e non voleva più averlo alle spalle, di quando in quando tirava qualche colpo contro gli stirge o qualunque altra cosa si muovesse per attraversare il fiume e di rado li mancava, facendo grugnire la nonna del generale di riluttante approvazione, e ora stava cercando di aprire una cassa di dinamite.
«Ma bravo!» esclamava la vecchia megera con sarcastica ammirazione. «Io potrei eguagliarvi con gli occhi bendati.»
«Non ne dubito, Ukhurra,» rispondeva il dottore. «Avete fulminato, a ottanta metri, quella bella gallina di palude che Fang sta spennacchiando.»
«E senza sparare, dottore.»
«Infatti. Non voglio sapere altro. E quello stirge che avete abbattuto poi, a cinquanta metri? Poche donne, credetelo, saprebbero fare altrettanto, con un semplice mestolo.»
«Lo so benissimo.»
«Ah.»
«La campagna contro gli Yeek mi ha agguerrito,» rispose l’arpia.
«Vi avete preso parte? Chi vi ha insegnato a colpire così bene?»
«La mia è una famiglia di guerrieri. Da generazioni manteniamo l’onore del regno, e tramandiamo le arti della guerra come la lotta nel fango e il lancio del mestolo. Ma mia figlia decise di sposare un minchione. E il risultato è sotto gli occhi di tutti.»
«Il generale, dite?»
«Quel cretino non conosce né le armi da fuoco né da mischia. Ignora cosa siano strategia e tattica, e preferisce la fuga o la menzogna. So che è comune tra i coboldi, ma è triste vedere le nostre tradizioni marziali finire in cacca.»
«E non potete, che so, insegnargli qualcosa?»
«È tempo sprecato, che credete?» rispose Ukhurra. «Ci ho provato migliaia di volte, ma Vronch è semplicemente un cretino. Ha fatto carriera con l’inganno e la frode.»
«Vorrei fare qualcosa di simile anch’io,» disse il dottore.
«Accontentatevi di pescare con la dinamite, dottore. E poi non ho capito che cosa ci fate, di preciso, qui
«Ehm, ehm, è una lunga storia, e poi una salda amicizia mi lega ormai alla vostra famiglia, no?» disse Eriprando, che si era improvvisamente alzato. «Piuttosto, non per cambiare discorso, che cos’è questo frastuono? Non lo sentite anche voi, Ukhurra?»
«Già, sento delle grida. Cosa può essere?»
Il fiume, che era sempre larghissimo e che descriveva di frequente delle curve assai accentuate, in quel luogo formava un brusco angolo, impedendo così all’equipaggio del dirigibile di poter scorgere ciò che succedeva dietro gli altissimi alberi che costeggiavano senza interruzione le rive. Le grida erano quasi subito cessate; si udiva invece ancora, di quando in quando, un colpo di tam-tam che la brezza, soffiando dal settentrione, portava fino agli orecchi dell’equipaggio e dei passeggeri.
«Vi sarà qualche villaggio dietro quella punta,» disse Vronch, che ascoltava attentamente. «Forse si sta celebrando qualche festa o qualche matrimonio.»
«O un funerale o un sacrificio di sangue. È sicuro il fiume?» chiese il dottore.
«Fino a Gaglarup non vi sono da temere cattivi incontri casuali. Le cannoniere del re impediscono ai mostri d’acqua dolce di scendere fin qui. Più o meno.»
«Sicché può darsi che più tardi facciamo brutti incontri? Troll? Ogrillon, minotauri, gorgoni?»
«Oh! Non sono poi così temibili per gente come noi che ha buoni pedali.»
«Se lo dite voi. Piuttosto, che cos’è quell’immenso affare là davanti?»
Sembrava un bacino, avente almeno duecentocinquanta piedi quadrati di estensione, formato da grossi pali piantati nel fondo del fiume, e coperto da un tetto leggermente inclinato, fatto con panconi di legno, con un’apertura nel centro, da dove si rizzava l’albero.
«È semplicemente un parco di rane cannibali. Là dentro ve ne saranno probabilmente delle centinaia, e mi pare che quegli indigeni si preparino a issarne qualcuna. Vi sarà molta richiesta sul mercato di Gaglarup, e le zampe sono un manicaretto assai ricercato dai ghiottoni e dai mangiatori di cadaveri. Gli allevatori fanno dei buoni guadagni, ve lo assicuro.»
«E si allevano quei ributtanti batraci per mangiarli?»
«Certo: si pagano quasi a peso d’oro.»
«Ma non sapranno un po’ di fango?»
«Non sapete quanto! Ma non sono cattive, credetemi, a parte il sapore che non a tutti forse può piacere, se vengono lasciate frollare al sole per un paio di settimane,» rispose Vronch. «Ne ho mangiato più volte anch’io nei pranzi offerti dai ciambellani di Gaglarup e di Horblonk e non l’ho trovata sgradevole, anzi. Beh, adesso…», e fece un gesto eloquente.
«E come fanno ad allevarle?»
«Come vedete, le chiudono in quel bacino quando sono ancora girini. Durante i due primi anni non si occupano di loro, bastando ai piccoli mostri le erbe che crescono in fondo al fiume; poi si comincia a offrire loro qualcosa di più solido, affinché si sviluppino rapidamente. Infatti dopo, il secondo anno la rana cannibale mette i denti, e da quel momento ingrassa con una rapidità incredibile. Allora si gettano loro in pasto, la mattina e la sera, attraverso l’apertura del tetto, carogne d’animali, cesti d’immondizie, cani, gatti, sassi, gomme di bicicletta ed avanzi d’ogni specie. Al terzo anno, quando hanno già raggiunto i quattro o i cinque quintali di peso, si comincia a pescarli.»
Il dirigibile, guidato da Fang, si era accostato al parco, e ora vi girava sopra come un avvoltoio. Si vedevano i terribili anfibi contorcersi furiosamente e si udivano muggire, mentre dall’apertura del tetto apparivano di quando in quando delle mascelle formidabili, armate di denti acutissimi e velenosi. Senza dubbio ce n’erano parecchie centinaia rinchiusi in quella gabbia; dovevano essere furiosi di trovarsi così stretti ed erano probabilmente assai affamati. Di tanto in tanto i muggiti aumentavano improvvisamente, formando un baccano assordante, e si udiva il tetto rimbombare sotto i colpi di zampa dei prigionieri. Violente risse dovevano scoppiare fra quei bruti per una sigaretta o pochi spiccioli, e terminavano colla morte di qualcuno che finiva in pasto ai vincitori.
Una dozzina di coboldi, yeek e goblin, armati di coltellacci e di scuri, stavano facendo scorrere le funi collegate all’albero che sorgeva nel mezzo del parco, per fare abbassare una specie di gabbia di bambù.
Uno yeek terrorizzato, armato di una scimitarra dalla lama pesantissima e assai sbilenca, un tridente, un’alabarda e un’ascia a due tagli, e portava attorno al corpo un rotolo di corda grossa e durissima, fu fatto salire nella gabbia a calcagnate, gridando:
«No! Non voglio! Tocca a Furg, oggi! Cazzo!»
I suoi compagni manovrarono le corde, sghignazzando e facendogli gestacci e la gabbia, sollevandosi sopra la piattaforma, andò a urtare contro l’albero, passando sopra il tetto del parco.
«Se quelle corde si spezzassero!» esclamò il dottore.
«Quel poveretto non si salverebbe certo da una morte orrenda,» rispose Vronch. «Pensate anche voi quello che penso io?»
Pochi secondi dopo il dirigibile si inclinò bruscamente di lato. Con un urlo agghiacciante, che i pescatori avrebbero ricordato per anni nelle loro leggende, Ukhurra volò fuori bordo per schiantarsi, venti metri più sotto, nel bel mezzo del bacino. Una colonna d’acqua si levò come un geyser, lanciando pezzi di legno e rane furibonde a parecchi metri di distanza.
Scesero di quota. Fang, che non aveva capito cos’era successo, in preda al panico distribuiva nerbate agli snotling che strillavano; Vronch e il dottore si strinsero la mano annuendo soddisfatti, mentre il dirigibile si fermava pochi metri sopra il recinto. Vedendo la gabbia dondolarsi sopra l’apertura del tetto, venti o trenta teste erano emerse, spalancando le terribili mascelle.
I batraci, terrorizzati, facevano sforzi disperati per balzare fuori, colla speranza di allontanarsi dalla vecchia, ma, pigiati com’erano in quello stretto spazio, appena appena potevano muoversi. Intanto, i compagni dello yeek si erano affrettati ad avvicinarsi, pensando fosse accaduta una disgrazia. Il riluttante pescatore sciolse allora il laccio, allargò il cappio, e dopo aver guardato per qualche po’ la gigantesca rissa che si svolgeva sotto di lui, lo lanciò. Fra le rane si manifestò per qualche istante una certa agitazione, specialmente quando videro lo yeek attaccare il laccio ad una carrucola, poi la gabbia si allontanò nuovamente, tratta alla riva da quelli che erano rimasti sotto la piattaforma.
Alla seconda strappata, più vigorosa della prima, si vide una forma tozza ma pesantissima innalzarsi fuori dall’apertura. Era Ukhurra, che aveva somministrato mazzate in abbondanza agli occupanti della pozza, ma non sembrava aver subito più di qualche graffio. La megera, sentendosi strappare alla carneficina e trascinare in alto, dapprima parve assai sorpresa e non cercò di dibattersi; ma quando si trovò a metà dell’albero e provò le prime strette del laccio, la sua rabbia scoppiò tremenda.
«Bastardi! Canaglie!», gridava, agitando la mazza ferrata, «Voi e le vostre rane del cazzo!»
La vecchia cominciò a dibattersi freneticamente, colla speranza di spezzare quella maledetta corda che la strozzava. Si contorceva disperatamente, muggendo con furore, avventava contro l’albero colpi di coda violentissimi che scrosciavano come se sparassero dei piccoli pezzi d’artiglieria, poi cercava di azzannarlo staccando larghi pezzi di legno, quindi colle gambe, rimaste libere, tentava di arrampicarsi, senza riuscire nel suo intento.
Sfinita da quegli sforzi, s’arrestava alcuni momenti colle mascelle spalancate, soffiando e sbuffando, gli occhi iniettati di sangue, poi tornava a balzare ed a contorcersi con maggior rabbia, non ottenendo altro scopo che quello di stringere sempre più il nodo che la strangolava.
Lo spettacolo era spaventevole e prometteva di durare a lungo.
«Ecco una scena che difficilmente si dimentica,» disse il dottore.
«È piuttosto ripugnante,» assentì Vronch.
«Durerà assai?»
«Qualche volta ho dovuto aspettare settimane, prima che le passasse l’incazzatura,» disse Vronch. «Ma non abbiamo tutto questo tempo. Fang!», gridò, «Fa’ scendere il pallone»
«E noi, sarà meglio che ci inventiamo una scusa plausibile», concluse il dottore.
Recuperarono la megera prima che sterminasse i pescatori. «Adesso,» ringhiò quando ebbe davanti il nipote, «Voglio sapere una sola cosa. Chi è stato?»
L’elaborata linea di difesa che Vronch e il dottore avevano concordato svanì dalla mente del coboldo. «Errrr…,» farfugliò, cominciando a indietreggiare. «Lui! È stato lui!» intervenne Von Basedoff. Indicò risolutamente uno degli snotling, che stava annodando una fune per ancorare il dirigibile. La creaturina si voltò di scatto con gli occhi spalancati. «Si! È vero! L’ho visto con questi stessi miei occhi,» incalzò Vronch, assecondandolo, «che Krustulas m’accechi se mento! Piccolo subdolo bastardo,» si rivolse allo snotling, «Chi ti manda? Per chi lavori?»
Il dottore aveva visto giusto. Gli snotling sono piccoli ed infingardi, e non compensano le loro deficienze fisiche con l’astuzia, tutt’altro. Vistosi puntare contro un dito inquisitore, l’omino si guardò attorno terrorizzato per un istante e poi se la diede a gambe strillando. I suoi compagni si guardarono l’un l’altro, confusi, poi guardarono Fang e i coboldi, poi si misero a parlare tutti assieme nella loro lingua, gesticolando freneticamente per indicare sé stessi, il fuggitivo che ormai era perso nella giungla, il dirigibile, alcune piante palustri e altre cose in rapida sequenza.
La discussione andò avanti parecchio. Ukhurra era sì astuta e malfidente, ma Vronch e il dottore erano da decenni esperti di truffa, adulazione e menzogne senza ritegno, e riuscirono ad erigere un vero e proprio baluardo di cazzate con cui confondere la vecchia e deviare la sua ira sugli snotling. Alla fine si rimisero in volo, lasciando i pescatori perplessi e sconvolti. Il Fulukh, più a settentrione, cominciava a restringersi, mentre la corrente diventava più rapida. Su entrambe le rive si rizzavano dei bellissimi alberi che lanciavano le loro bacche mollicce a quaranta e perfino a cinquanta metri di distanza, dai tronchi slanciati e ricchi di un abbondante fogliame verde cupo. In mezzo al fogliame bande di piccoli umanoidi appartenenti a varie specie si rincorrevano di ramo in ramo, mentre sulle cime volteggiavano goffamente grossi tucanodonti, bizzarri animali dal corpo d’uccello e la testa di facocero.
Di quando in quando, cominciavano ad apparire dei villaggi, per lo più miserabili, formati di poche capanne costruite su palizzate, per impedire a leucrotta e vermi-iena di forzare le porte nelle loro incursioni notturne, o di rovesciare le malferme pareti d’argilla e di rami malamente intrecciati. Alle sei di sera, verso il nord, sul nitido orizzonte apparvero improvvisamente le altissime guglie dei templi di Gaglarup, indorati dagli ultimi raggi del secondo sole tramontante.
Le cupole cadenti e scrostate scintillavano debolmente, mentre più all’est giganteggiava l’imponente piramide sacra innalzata a Krustulas, una massa enorme e semidistrutta che s’eleva a gradini irregolari, con statue numerose ed amorfe ed un Braazor colossale verso la cima, e corridoi vastissimi che servono d’asilo tranquillo a milioni di pipistrelli di fuoco, stirge, ragni volanti e forse un paio di meduse.
Gaglarup non ha la decima parte del movimento di Kuglurg, quantunque sia sempre la seconda città del regno, ed ha una popolazione di gran lunga inferiore a quella della rivale. Come però tutte le città antiche, ha avuto giorni di splendore, anche se non tanti, specialmente quando era capitale del regno e sede dei monarchi Fethrundesi. Fondata dal re U-Crong, detto il Mentecatto, sulle rovine d’un’altra antichissima città, sorse rapidamente come una specie di fungo velenoso, mercé la munificenza dei monarchi, e decadde altrettanto in fretta quando sporcizia, malattie e scarsità di fango speziato la resero inabitabile. Conserva ancora il suo palazzo reale, che, quantunque costruito tutto in legno d’albero di ghisa e topazi, ha resistito per tanti secoli alle intemperie; invece i suoi templi, che occupavano una superficie di molte miglia quadrate, sono quasi tutti in rovina.
Le male erbe ne hanno già coperti molti; tuttavia si possono ammirare ancora cupole superbe, arcate meravigliose, colonnati magnifici, guglie che sembrano coperte di trine ma in realtà sono ragnatele e guano di pipistrello, e una statua di Krustulas alta ben diciotto metri, colto nell’atto di mettersi un dito nell’orecchio per scacciare i demoni, rivestita di lamine di rame, che valeva dei tesori, perché s’impiegarono per la sua erezione ben 25.000 libbre di ghisa, 2.000 d’argento e 400 d’oro. Torme di avventurieri giunti dai quattro angoli del mondo la ridussero ben presto a uno scheletro butterato. Tutto il resto non è che una rovina, essendo crollati perfino i muri di cinta dei giardini reali e gli edifici dell’antico quartiere degli stranieri che pure erano in mattoni.
Tale d’altronde è il destino di tutte le capitali cobolde quando vengono abbandonate dalla corte: si lasciano crollare senza che nessuno se ne preoccupi, tranne i topi mannari del sottosuolo. Ecco il motivo per cui in quelle regioni si trovano così sovente, anche in mezzo ai boschi, delle rovine che un giorno dovevano aver appartenuto a città opulente e grandiose. Essendo ormai calata la notte, Vronch e il dottore decisero di rimanere a bordo del dirigibile, giacché vi era spazio sufficiente per dormire sotto il baldacchino e c’erano coperte di lana di yak oltre ai cuscini; gli altri si accamparono sulla riva.


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La Città del Re Leucrotta – Cap. IX

Sul Fulukh

 

A mezzodì, dopo aver pranzato in compagnia, Vronch, il dottore e Ukhurra, su un palanchino retto da otto snotling sfiancati, lasciarono la villa, avviandosi verso il molo fluviale dove era ormeggiato un piccolo ma appariscente dirigibile a pedali, che in quelle terre viene chiamato balòn.
Era stato fatto venire dal cantiere dove era stato rimesso a nuovo a tempo di record; qualche anno prima, aveva subito un incidente con una chiatta carica di poponi, ed era rimasto semiaffondato nella melma fino a quando Vronch non aveva avuto abbastanza soldi per ripararlo; e Fang, che aveva ricevuto tutte le istruzioni, l’aveva equipaggiato con gente scelta ma fornita del minimo necessario per affrontare quella pericolosa spedizione: viveri, armi, vesti di ricambio, coperte, tende ed altre cose ancora, per lo più illegali, suggerite dal dottore che non era nuovo ai viaggi di contrabbando.
Eriprando aveva indossato un nuovo casco di leggera flanella bianca, si era strette le gambe entro alte uose di cuoio per difenderle dai morsi dei serpenti, numerosi non meno che in Imar e nelle foreste di Uruth, e riparato il casco da un altro casco di legno di tasso coperto di tela, leggero e ottimo riparo contro i colpi di sole e i poponi che cadono dagli alberi. Vronch, che non apprezzava la praticità dei vestiti umani, aveva rinunciato senza rimpianti alle sue camicie, alle sue fasce di seta ricamate e ai suoi sandali infradito, assolutamente inefficaci a riparare i piedi dalle erbe dure, taglienti e velenose delle foreste, per indossare un costume informe e variopinto, completo di un altissimo cappello conico bianco e rosso, col cerchio d’oro, distintivo del suo grado, e forse aveva fatto bene, anche se nessuno lo credeva, perchè quel distintivo datogli dal re lo avrebbe fatto rispettare e anche temere. Ukhurra invece indossava una corazza di anelli, rinforzata da piastre di rame, ricamata d’oro e crisopazi, stretta alla cintura da un’alta fascia borchiata, enormi calzoni di squame di basilisco, aveva sostituito agli zoccoli degli stivali chiodati, di pelle di chissà quale bestia, e si era messa in capo un ampio elmo di bronzo a forma di fungo velenoso, ornato d’un piccolo serpente dorato dall’aria bieca.
Dovettero aiutarla a salire sollevandola con un paranco, conducendola sotto l’enorme pallone di tela che si ergeva al di sopra del dirigibile; si sedettero accanto a lei sui cuscini cremisi e diedero il segnale della partenza.
Tosto le cinque paia di eliche, manovrate da dieci garzoni, si misero a ronzare ed il dirigibile si sollevò dalla riva abbandonando la superficie del viscoso Fulukh con un sonoro gloop.
Nelle loro barche volanti i Fethrundesi sfoggiano un lusso pacchiano e inverosimile, e tanta è la loro passione per quei mezzi di trasporto, che non vi è coboldo che non venderebbe la mamma per averne una. Il dirigibile di Vronch non aveva che cinquanta piedi di lunghezza, con una larghezza di dieci ed era stato scavato nel tronco d’un albero della ghisa, legno quasi incorruttibile e che può durare perfino un secolo, purchè rimanga sempre in un campo magico attivato nei sotterranei di un castello inespugnabile. Altrimenti molto meno. I costruttori gli avevano dato forme accettabili e l’avevano, col ferro e col fuoco, ovvero a suon di bastonate e superstiziosi scongiuri, reso leggerissimo senza comprometterne troppo la solidità. La prora, altissima ed affilata, reggeva una grottesca testa di maiale dipinta in rosso e giallo; i bordi erano scolpiti artisticamente e dorati; la poppa, un po’ meno alta e artistica della prua, era munita di una codina attorcigliata e d’una specie di sedile rialzato, su cui stava il timoniere armato d’un lunga pertica che doveva servire a manovrare le valvole del pallone o a picchiare i marinai svogliati. Nel centro, dietro il bracere che alimentava il pallone, s’alzava un baldacchino di tela rattoppata a frange multicolori, sorretto da quattro colonnine, e arredato con cuscini per quattro coboldi e volendo anche per sei, dodici se erano snotling, oppure due hobgoblin e una banshee o uno gnoll e sei halfling o una salamandra dei ghiacci. Ai due lati due parasoli di tela, distintivo di nobiltà, si ergevano per parecchi metri, l’uno color rosso, l’altro azzurro, decorati con faccioni e scritte offensive per le imbarcazioni che incrociavano. Dieci pedalatori, quattro a prua, seduti a due a due sui banchi, e sei dietro il baldacchino imprimevano alle eliche della bizzarra imbarcazione spinte vigorose, che la facevano filare liscia come una scialuppa a vapore nel bel mezzo di una burrasca. Erano tutti giovani snotling, dalle braccine rachitiche e stente, ma dalle gambe robustissime per l’abitudine di questa razza di confidare nella fuga come mezzo di risoluzione dei problemi; erano quasi nudi, non avendo indosso che uno straccio a quadrettoni ed una fascia stretta ai fianchi che saliva fino alla metà del petto. Fang li aveva scelti con cura fra i numerosi schiavi del generale e si poteva contare assolutamente sulla loro fedeltà e sulla loro devozione: erano troppo stupidi per essere comprati o corrotti. Il dirigibile, spinto da quelle eliche manovrate con energia, filò dinanzi al palazzo reale, ben al di là della gittata massima degli sputatori imperiali, e ai colossali templi che giganteggiavano sulla riva e ben presto si trovò fuori dalla città, fra due rive coperte da una lussureggiante e pericolosa vegetazione.
Numerose barche, e altri dirigibili, s’incrociavano ancora, giacché il movimento fluviale è sempre vivo fino a Gaglarup, l’antica capitale Fethrund, dove il fiume è ostruito dalla fanga e dalla sporcizia accumulatesi nel corso dei secoli. Più su s’arresta e cessa affatto oltre Orag-Mahld, giacché i Fethrundesi concentravano tutto il loro commercio nel basso corso del fiume. Grosse barche, assai panciute, trainate da enormi dugonghi parlanti, e guidate solamente da battellieri sordi, scendevano per trasportare alla capitale il raccolto dei campi; lunghissime canoe, montate da famiglie intere, cariche di frutta e di tuberi tossici, s’incrociavano con il dirigibile, affrettandosi a cedere il passo alla vista della sua ombra, giacchè gli snotling amavano defecare e gettare rifiuti d’ogni sorta dalle murate, per alleggerire, così dicevano, la nave; gondole somiglianti a quelle Denziane, col rostro di granito anziché di metallo, radevano le rive, dove grossi draghi-tartaruga prendevano il sole. Sulle due rive, lontane l’una dall’altra non meno di due chilometri, delle splendide vedute si offrivano invano agli sguardi annebbiati del dottore.
Gruppetti di capanne, seminascoste fra boschetti di funghi giganti ondeggianti alla brezza; qualche tempio diroccato che emergeva dalla vegetazione come un dente marcio; sconfinate aree brulle e radioattive sulle quali volteggiavano stormi infiniti di avvoltoi e stirge; e poi campi di canne, piantagioni di pietre, gruppi di banani illusori, di palme venefiche, di fangostani, di giganteschi uldoul i cui rami si piegavano sotto il peso delle grossissime frutta, irte di punte d’acciaio, ma contenenti una polpa deliziosa che, anche se puzza d’aglio fradicio, si fonde in bocca come una medusa e ha il sapore di aglio fradicio. Mah.
Di quando in quando, torme di yak di pianura, dallo sguardo torvo e sanguigno e dalla fronte armata di corna enormi, guidati dall’esemplare più grosso e attaccabrighe, s’aprivano il passo fra le alte canne che ingombravano le rive, e andavano a cercar rissa. Oppure si profilava improvvisamente, su quello sfondo verdeggiante, l’imponente massa grigia di qualche enorme uomo-elefante, occupato a saccheggiare le case dei contadini.
Sui sentieri costeggianti il fiume si vedevano invece passare drappelli di mercenari carichi dei raccolti dei contadini, che imprecavano poco distanti; qualche talpone dalle vesti quadrettate, in cerca di tapioca; o qualcuno di quei bettolieri ambulanti di razza incerta che sono così numerosi nelle campagne fantasy, tipi caratteristici e bizzarri, che girano per locande proponendo lavori equivoci e loschi. Già da sei ore il dirigibile aveva lasciato la capitale, ormai scomparsa dietro l’immensa cortina di foschia, e il generale aveva dato ordine di cercare un buon approdo per passarvi la notte, non essendovi in vista alcun villaggio, quando la sua attenzione fu improvvisamente attirata da una decina di cavalieri, che galoppavano sfrenatamente sui loro maiali, costeggiando la riva destra del fiume.
Quantunque essi scomparissero subito dietro gli alberi e i mazzi giganteschi di bambù che crescevano lungo la sponda, egli ebbe però il tempo di osservarli.
«Non sembravano Fethrundesi, costoro,» disse al dottore, che si era alzato per guardarli prima che sparissero.
«Avevano le forme troppo massicce per esserlo,» rispose Eriprando che, senza sapere precisamente perché, aveva provato un’inesplicabile inquietudine.
«Saranno gnoll al servizio di qualche satrapo o valvassino, che si recano fino a Gaglarup a prendere forse qualche bestia strana. Mi hanno detto che quel parco già rigurgita di cocatrici e che il re ha ordinato di venderne una buona parte. Ma nessuno le vuole, e vorrei anche vedere.»
«Vi è un parco immenso nell’antica capitale?»
«Gigantesco, e non vi si trovano mai meno di cinque o seicento mostri erranti.»
«Tutti appartenenti al re?» chiese il dottore.
«Tutti i mostri che vengono catturati in qualunque punto del regno sono di proprietà reale,» rispose Vronch.
«Sicché se io, rischiando la pelle, ne prendessi uno, dovrei consegnarlo agli ufficiali di Woorplah ?»
«Certo, caro il mio dottore.»
«E se ne uccidessi qualcuno?»
«Beh, sono punti. Però non la passereste liscia, anche nella vostra qualità di non-coboldo ignorante e stolto,» rispose Vronch. «Il re è gelosissimo dei suoi diritti sui mostri sacri che si trovano nelle terre del suo regno.»
«Sicché se un povero diavolo venisse assalito da uno di quei cristoni, non avrebbe nemmeno il diritto di difendersi?» chiese il dottore.
«No. Cazzi suoi.»
«Questa è strana; vi assicuro però, generale, che non mi lascerei certamente schiacciare o stritolare o pietrificare o ciucciare il cervello per rispettare i diritti di Woorplah .»
«È molto vero,» rispose il generale.
«E quindi? Che cosa dovrei dunque fare, in simili incontri?»
«Fuggire senza cercare di difendersi o di offendere la creatura.»
«Io lo farò di certo.»
«Nei paesi che dovremo percorrere non vi saranno ufficiali reali incaricati di sorvegliare i mostri erranti che scorrazzano per le immense boscaglie del settentrione,» disse Vronch, con una risatina subdola. «Quindi potrete difendervi e anche… ehm, uccidere senza avere dei fastidi. Non so se mi spiego, dottore. Oh, ecco là una piccola insenatura dove potremo piantare il nostro campo senza essere disturbati e cenare tranquillamente senza spegnere il fuoco nella nostra imbarcazione.»
«Era anche ora,» disse Ukhurra, che ascoltava i loro discorsi, stravaccata sui cuscini come una balenottera. «Non vi pare, dottore?»
«Eh? Ehm.. come no? Un luogo dove, domani mattina, potremo… ehm, cacciare per qualche ora,» rispose Eriprando.
Ad un cenno di Vronch, Fang, il quale teneva il lungo remo uncinato, punzecchiò gli snotling per dirigere il dirigibile verso la riva destra, che formava una curva rientrante, fiancheggiata da meravigliosi gruppi di funghi alti sei metri e da alberi di poponi carichi di enormi frutti. Il penultimo sole calava allora rapidamente in mezzo a una nuvola rossastra, mentre immense bande di trampolieri fantasma scendevano sulle rive del fiume, nascondendosi fra le canne e fra gli ammassi di bambù, e già le tenebre cominciavano ad addensarsi sotto le foreste di alberi della ghisa che si stendevano per miglia e miglia lungo le sconfinate risaie.
«Il luogo è deserto e passeremo una notte tranquilla,» disse Vronch. «Nessuno verrà a disturbarci.»
Ormeggiarono il dirigibile ad un albero, poi mentre Fang, aiutato da un battelliere, preparava la cena, gli altri snotling rizzarono le tende di grosso feltro per i padroni ed improvvisarono con pochi bastoni e poche foglie, delle leggere tettoie. Nel Fethrund e così pure in tutte le altre regioni d’Oriente, o nei dungeon, o in locanda, non è prudente coricarsi senza aver prima innalzato un riparo, specialmente lungo il corso dei fiumi e soprattutto in prossimità delle coste. Le notti sono umidissime, piuttosto fredde a paragone dell’intenso calore che regna di giorno, e si fa presto a prendere un colpo di machete in mezzo alle scapole, o altri malanni stagionali.
Il dottore, Vronch e Ukhurra, in attesa che la cena fosse pronta, fecero una breve esplorazione nei dintorni per sgranchirsi le gambe, raccogliendo qua e là delle banane che erano giunte a perfetta maturazione ma che scomparvero poco dopo, e sparando qualche colpo di fucile contro gli uccelli stigei che non si erano ancora ritirati nei loro nidi; una fucilata del dottore colpì accidentalmente la nonna di Vronch, e solo la sua corazza potè evitare una tragedia; poi tornarono verso l’accampamento, che era stato illuminato da parecchi fuochi fatui, dove Von Basedoff potè medicarsi le numerose ecchimosi e lussazioni che ne aveva ricavato.
Cenarono alla lesta, scambiarono malvolentieri quattro chiacchiere, poi, scelti i turni di guardia, si ritirarono ognuno nella rispettiva tenda, dopo essersi ben accertati che non vi fossero serpenti o scolopendre o piroblatte. Eriprando non chiuse occhio.


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La Città del Re Leucrotta – Cap. VIII

La Spia

 

Il dottor Eriprando Maria Zeppo Von Basedoff, figlio d’un celebre ciarlatano che aveva fatto la sua fortuna col mesmerismo alla corte del Gran Satrapo di Mornona e poi a quella del Tiranno di Meyamptu, aveva ereditato dal padre una intensa passione per la vita avventurosa e per i guadagni facili. Laureatosi in maniera controversa, grazie alle sue doti di falsario, all’università di Cemoria, dopo un paio d’anni di pratica in quell’ospedale, e una breve permanenza in quei bagni penali, aveva dato un addio alla città natia, disgustato anche dall’oppressione straniera e dalle severe leggi sulla circonvenzione di incapaci, e si era imbarcato a Denzia sul primo veliero in partenza per l’Oriente.
Ricchissimo, abilissimo e munito anche di equivoche lettere di raccomandazione per i nobili e i sovrani dell’Est, quattro mesi dopo salutava con gioia le torbide acque del sacro fiume Zaghtru e le immense canne delle prime giungle.
Dopo aver percorso la misteriosa Imar, dal capo Metas alle immense catene del Quingrator, aveva fissato la sua residenza nel feudo di Mornona, dove già suo padre aveva lasciato tanti graditi ricordi ormai caduti in prescrizione e dove il suo nome era ricordato con una specie di astiosa venerazione.
Spirito però irrequieto, non vi si era fermato a lungo e, dopo un anno, aveva ripreso le sue peregrinazioni visitando le grandi isole del mar di Dochuke, ora operando e guarendo, ora cacciando piccoli e grossi animali – soprattutto quelli piccoli – ora studiando quei popoli così interessanti, ora commerciando, truffando, fondando sette religiose e partiti politici, sposando ricche ereditiere, collaborando coi servizi segreti occidentali; insomma, di tutto un po’. A sessant’ anni, ma ne dimostrava ottanta, un po’ stanco di quella vita randagia, minato dalla sifilide e dall’abuso di stupefacenti, era sbarcato a Kuglurg, l’opulenta capitale del Fethrund, per riposarsi alcuni mesi. Voleva conoscere anche i Fethrundesi, prima di tornarsene definitivamente in occidente, e possibilmente anche gli Uruth, popolo in quell’epoca non più conosciuto di quello degli gnomi abissali che abitano le impenetrabili caverne del Quingrator. La pittoresca città, col suo magnifico fiume, le sue alte cupole dorate sfolgoranti al sole, aveva subito conquistato l’anima del medico… così come la febbre gialla, del resto, ed egli si era fermato più del previsto, affittando una graziosa palazzina che si trovava, come abbiamo veduto, di fronte alla casa del generale.
Spacciandosi per conoscitore profondo di tutte le malattie che travagliano e decimano le popolazioni orientali, non aveva tardato a formarsi una numerosa clientela, specialmente fra i ricchi della città e anche fra i grandi della corte, che credevano più alla scienza d’un ciarlatano straniero, che ai ciarlatani di casa propria.
Per parecchi mesi non si era mai occupato del suo vicino, che abitava quella villetta pacchiana; ma una sera verso il tramonto, mentre stava sulla sua veranda leggendo, i suoi occhi per la prima volta si erano incontrati in quelli di Ukhurra. La megera, che stava raccogliendo i resti del pasto notturno delle peonie fra le piante che adornavano la sua ricca veranda, accortasi di essere osservata da quello straniero, si era affrettata a imbracciare la balestra; ma la sera seguente, alla stessa ora, il dottore l’aveva riveduta accudir le peonie, rimanendo ben nascosto dietro un cespuglio. Per la prima volta in vita sua, un sentimento nuovo, inquietante, era penetrato nel cuore dell’eugiliano. Che cos’era? Non sapeva veramente spiegarselo; sapeva solo che quando rivedeva la nonna del prode generale, non riusciva a riposare per tutta la notte. E per molte sere aveva guatato silenziosamente l’arpia, temendo in cuor suo l’eventuale malattia di Vronch che li avrebbe per la prima volta avvicinati.

Per nulla preoccupato dalla disgrazia, che forse in quel momento stava per colpire il generale, il dottore passeggiava pigramente dinanzi alla porta del palazzo reale, chiedendosi come sarebbe terminato quel colloquio col possente monarca e se ci fosse un modo di ricavarne un qualche utile.
Conosceva abbastanza bene i coboldi per non farsi troppe illusioni, ed aveva anche conosciuto più d’un nobile o d’un vassallo, individui capricciosi, testardi, vendicativi, inclini al turpiloquio e all’abigeato, e anche molto superstiziosi.
Cominciava già a considerare Vronch spacciato, quando finalmente lo vide apparire. Con un solo sguardo capì che quel colloquio non doveva essere stato troppo amichevole, a giudicare dal muso rannuvolato dell’ex ministro della corte dei Baldench.
«Cattive nuove, generale?» gli chiese premurosamente.
«Andiamo da me,» rispose Vronch. «Esamineremo insieme la situazione davanti a una bottiglia di vino.»
Un quarto d’ora dopo il generale ed Eriprando si trovavano nella stanza dove per la prima volta si erano veduti e dove il medico aveva compiuto quella sospetta guarigione. Vronch, dopo aver fatto avvertire Ukhurra che avrebbe cenato più tardi, chiuse a chiave la porta della veranda onde nessuno entrasse; poi, dopo stappato una bottiglia, informò minutamente il dottore dell’esito del suo colloquio con Woorplah.
Eriprando lo ascoltò senza interromperlo, non celando però la sua sorpresa per il sapore inusitato del vino, e chiedendosi in cuor suo se quella non fosse una nuova trovata degli occulti nemici del generale, per fregarlo completamente, tanto gli pareva un’idiozia quella storia del Sacro Pungolo di Krustulas.
«È tutto?» chiese finalmente, quando Vronch tacque. «Che cosa ne pensate, voi, di questa missione?»
«Mi pare che il re pensi seriamente a riabilitarmi.»
«O ve lo vuole mettere in quel posto?»
«Non lo credo.»
«Quel famoso aggeggio esiste veramente?» chiese l’eugiliano.
«Sono molti secoli che se ne parla, senza che si sia mai fatto alcun tentativo per cercarlo. I talponi affermano che se il re lo possedesse, i mostri bianchi non mancherebbero mai alla corte reale. Arriverebbero a frotte. Io che ho, diciamo, combattuto per due anni alle frontiere, contro gli Yeek e contro gli stessi Orchi, ho udito sovente parlare di immense città d’una architettura meravigliosa, che si troverebbero nascoste nelle immense foreste del settentrione, ad oriente del lago Zolph-Urplah. Narrano le nostre antiche storie che, molti secoli addietro, in quelle foreste esisteva un regno chiamato Thamorgh, che occupava una estensione immensa, che ebbe centoventi re, tutti assieme, badate, non uno dopo l’altro, intendo, e che poteva disporre di cinque milioni di coboldi combattenti. Come quel regno sia scomparso, ancor oggi è un mistero; ma che sia esistito non si può mettere in dubbio, anzi era celebre fra i grandi stati d’oriente. Di esso sono rimaste rovine imponenti, fra cui una città che gli Yeek chiamano “Buco Infernale” e che sarebbe stata la capitale di quel regno. Altro vino?»
«Volentieri,» disse il dottore, capovolgendo la bottiglia vuota.
«È vino di gufo,» Vronch indicò l’etichetta, «Si ottiene spremendo con cura i gufi.»
«Doveva proprio farmelo notare, eh?»
«Eccome. È il vanto della nostra casata. Alleviamo torme di gufi e barbagianni per produrre questo vino. E non mi direte che non vi piace, voglio sperare.»
«Oh, beh, io bevo anche la trielina, per cui… » e vuotò il bicchiere d’un fiato. «Comunque, tornando a noi. Questa misteriosa città, esiste ancora?»
«Sì, e gl’indigeni, che io ho più volte interrogati, mi hanno raccontato che quella città, che sarebbe stata costruita da un re leucrotta, ha ancora le due immense cinte in ottimo stato, meravigliosi edifizi, torri, gallerie, archi trionfali ed un tempio colossale entro cui sarebbe stato sepolto il pungolo adoperato dal brauusk incaricato di condurre il mostro che incarnava lo spirito di Krustulas.»
«Che sia stato veramente sepolto colà, quel coso?»
«I nostri libri sacri lo affermano.»
«E se non esistesse?» chiese l’eugiliano, che catalogava tutte le leggende sotto la voce “stronzate”.
«Perché gli antichi talponi avrebbero mentito?» chiese Vronch.
«Boh. Chi lo avrebbe sepolto?»
«Il brauusk, per ordine del leucrotta.»
Il dottore non poté trattenere una scomposta risata di incredulità. Già alle cinquecento incarnazioni del dio non prestava alcuna fede, malgrado le affermazioni di tutti i libri sacri dei Fethrundesi e anche degli Uruth, ma questa poi…
«Ditemi, generale,» riprese, asciugandosi le lacrime. «C’è altro vino? Bene. Ecco… ehm… fu fatta una descrizione di quel miracoloso uncino?»
«Sì: ha la punta d’oro, con due cerchi di rubini, ed il manico è formato da uno smeraldo.»
«Uno smeraldo così enorme!»
«Vi stupite? Nella nostro tempio di Dzarr-Dzaurekh si conserva una statuetta di Krustulas, fatta con un solo granato che pesa undici chili.»
«Sì, ne ho udito parlare,» rispose il dottore. «Ma pensavo fosse una cazzata. Ed ora che cosa contate di fare?»
«Ahimè…obbedire,» disse Vronch.
«E stappare un’altra bottiglia, suggerisco. Andrete a cercarlo?»
«Sì. Sono guardato a vista, che altro posso fare? Non posso certo scappare. Conosco troppo bene il re: è infido e taccagno, e vuole essere obbedito. Io, ai suoi occhi, sono colpevole di aver causato la morte dei Baldench e tutti, popolo e grandi, mi accusano, quantunque la mia coscienza nulla abbia da rimproverarmi.»
«E… come si chiama… Ukhurra?»
Il generale stava per rispondere, quando un lieve rumore, come d’un ramo che si spezzi, assieme a un grugnito soffocato, attrasse improvvisamente la sua attenzione. Quel rumore si era udito presso una delle due finestre che erano state lasciate aperte e che guardavano sul giardino, verso il fiume. Vronch si alzò di scatto e si diresse rapidamente verso la finestra, sollevando la leggera tenda tarlata che si gonfiava ai soffi della brezza notturna. Delle piante rampicanti, dalle larghe e foltissime foglie, coprivano quasi l’intera facciata della casa, incorniciando le finestre e spingendosi fino sul tetto. Vronch si curvò sul davanzale: «Un ramo è stato spezzato sotto la finestra,» disse al dottore che si era attardato per riempirsi il bicchiere.
«E da chi?»
«Ma che domande mi fate, o Krustulas?»
«Dice che qualcuno si è arrampicato, per sorprendere i nostri discorsi?»
«Forse mi sarò ingannato, dottore. Chi potrebbe avere interesse ad ascoltarci?», chiese con tono sarcastico, «Sanno tutti che io non ho nemici…»
Stettero qualche minuto alla finestra; poi, non udendo alcun rumore sospetto, rientrarono.
«Stavo dicendo, voi partirete?» riprese il dottore.
«Eh, sì.»
«Quando?»
«Domani, dopo il mezzodì, sul mio balòn.»
«E Ukhurra, dicevo?»
«Verrà con me,» disse il generale, chinando il capo. «È una vecchia indistruttibile, che ha viaggiato molte volte, che mi ha accompagnato anche nelle foreste del settentrione, quando guerreggiavo contro gli Yeek. Può spezzare il collo ad un troll senza scomporsi. Ha deciso di accompagnarmi, e non ci sarà modo di farle cambiare idea.»
«Bene,», disse Eriprando alzandosi a fatica, «Allora è fatta. Vi auguro buon viaggio e tante belle co…»
«Ascoltate,» lo interruppe Vronch, che pareva avesse preso una improvvisa risoluzione. «Se vi facessi la proposta di unirvi a noi? Ho bisogno, oltre che d’un medico, d’un buon fucile e d’un discreto cacciatore, ma anche voi, voglio dire…» e con una mossa improvvisa strinse le mani del dottore.
«Io, seguirvi! Voi volete che io condivida i pericoli d’un così lungo viaggio fra le selvagge tribù del settentrione? », rispose il medico, visibilmente scosso. «Per non parlare di vostra nonna…»
«Ecco, infatti… il punto è proprio questo. Il pensiero di un lungo viaggio in compagnia di quel mostro… capite », borbottò Vronch, «… m’agghiaccia il sangue. Se solo avessi compagnia, qualcuno di più intelligente di Fang, intendo… So che il viaggio è pericoloso… », e così dicendo guardò il vecchio di soppiatto.
«Avete dimenticato Cram-Hupah?»
«Cosa intendete dire, di grazia?»
«Quel coboldo… non aveva chiesto la mano di vostra nonna? Sicuramente sarebbe disposto a seguirvi, e… »
«No, no, meglio di no. Dopo che ho rifiutato la sua proposta i nostri rapporti sono rimasti… ehm… un po’ tesi, non so se mi spiego. Comunque, dicevo… » , proseguì Vronch, fissando le ragnatele sul soffitto, «il viaggio è pericoloso…»
«E credete che questo sia un incentivo? Caro Vronch, ma vi sta dando di volta il cervello?»
«… e se succedesse, Krustulas, non voglia, qualcosa alla cara, preziosissima Ukhurra», proseguì Vronch, dondolandosi sulle punte dei piedi, «… Krustulas la conservi in salute… dovrei proseguire, ehm, da solo…»
Ci fu un attimo di silenzio.
«La dolcissima e veneranda Ukhurra…», chiese Eriprando, accarezzandosi la barba, «Non è che per caso sareste il suo, ehm, unico erede?»
Ci fu un altro attimo di silenzio.
Vronch annuì.
«E, ehm, a quanto ammonta…?»
Vronch fece un gesto eloquente.
«Cinquanta e cinquanta?»
Vronch annuì.
«Domani, dopo il mezzodì», disse il dottore. Vuotò il bicchiere. «Vado a preparare i bagagli.»

Si erano appena ritirati, quando un’ombra sbilenca si alzò in mezzo ad una folta aiola di peonie, arrancando faticosamente verso la cancellata che cingeva il giardino. Era un coboldo scarmigliato e ansimante, quasi interamente nudo, non avendo che pochi stracci addosso; tutto il resto era stato ridotto a brandelli dalle peonie carnivore.
Sospeso ad una sottile cintura, portava uno di quei coltellacci dalla lama larga e dalla punta quadra usati dagli Uruth e dagli Yeek, arma terribile, che d’un sol colpo tronca la testa sia ad un coboldo che ad una belva, non troppo grande.
Quell’individuo, che pareva in preda ad un terrore sovrumano, si inoltrò tenendosi sotto l’ombra proiettata dagli alberi, che crescevano numerosi nel giardino, raggiunse la cancellata, vi si inerpicò freneticamente scavalcando le punte e con un goffo volteggio si lasciò cadere sulla riva del Fulukh.
«Fottute peonie del cazzo,» mormorò. «Ora inseguitemi, se ne siete capaci. Ullogh ha i garretti solidi e sfida i cervi.»
Si slanciò a corsa sfrenata, continuando a borbottare frasi sconnesse, tenendosi curvo verso terra e seguendo la riva del fiume, che in quel luogo era ombreggiata da una doppia fila di alberi di poponi, dalle immense foglie piumate.
Continuò a correre per una decina di minuti, poi, quando si credette sufficientemente lontano dalla palazzina del generale, accostò alle labbra un piccolo fischietto, traendone alcune note stridenti e acutissime.
Da una capanna semidiroccata, che un tempo doveva aver servito d’asilo a qualche pescatore, giunse un altro fischio in risposta. Da altre capanne e dalle case galleggianti, invece, giunsero imprecazioni e bestemmie.
Un coboldo solo, corpulento, le spalle avvolte in una larga sciarpa di lana nera che gli nascondeva parte del muso, uscì sulla riva: era Cram-Hupah, il possente, politicanente parlando, ministro del re.
«Sei riuscito?» chiese a Ullogh che gli era mosso incontro.
«Sì, mio signore,» rispose il losco individuo.
«Hai udito tutto?»
«Tutto, ma per poco non sono stato sorpreso; le piante che coprono la facciata della villa per due volte hanno ceduto sotto il mio peso, e sono sfuggito alla morte per un vero miracolo, visto che poi hanno tentato di uccidermi.»
«Vabbè, vabbè, non farla tanto tragica. Ti pago, per questo. Che cos’hai udito?» chiese il ministro con vivacità.
«Partono domani, dopo il mezzodì.»
«Chi partono?»
«Il generale e anche Ukhurra.»
Una rauca bestemmia sfuggì dalle labbra contratte del ministro.
«Anche Ukhurra, hai detto?» chiese con voce sibilante. «Evvài. Ne sei certo?»
«Ha detto anche, mio signore, che tu volevi sposarla.»
Il ministro era diventato prima pallido, poi violetto.
«Che COSA?»
«E che lui non ha voluto,» aggiunse Ullogh con malcelato disgusto, «ma avrebbe voluto che tu lo accompagnassi per amore di Ukhurra.»
«Che bastardo. Non ha proprio un briciolo di dignità?»
«Di ciò non ha parlato.»
«Era una domanda retorica. Hai altro da dirmi?» gli chiese.
«Sì, padrone,» rispose Ullogh.
«Parla.»
«Ora parlo.»
«Bene.»
«Ecco.»
«Sto aspettando.»
«Un umano bianco, un occidentale, accompagnerà Vronch.»
«E chi cazzo è, quest’altro rompicoglioni?» chiese Cram-Hupah, volgendo gli occhi al cielo.
«Quel dottore di cui ti ho parlato,» rispose Ullogh.
Il viso del ministro assunse un’espressione dispiaciuta.
«Ecco un umano che bisogna salvare. Per quanto detesti la sua genia,» disse sputando a terra, «Non c’entra nulla in questa faccenda. Un viaggio in compagnia di Ukhurra… bleah.» e sputò di nuovo.
«Vuoi che lo avverta?», chiese Ullogh, prima di sputare a sua volta.
« È la cosa più giusta da fare. » e sputò. «Fosse anche un drow, od un demonio, o un uomo-cactus, quel tizio non seguirà Ukhurra, né Vronch nell’alto Fulukh. È rientrato nella sua palazzina?»
«Non ancora, padrone.», rispose Ullogh, dopo aver sputato.
«Basta sputare. Seguilo di soppiatto»
«Lascia fare a me, ministro; ho il mio progetto,» disse il mezzo-yeek, sorridendo. «Non mi sfuggirà.»
Cram-Hupah si accostò alla capanna e chiamò a bassa voce. Quattro coboldi balzarono fuori, cacciandosi entro le fasce dei coltellacci simili a quello che aveva con sé Ullogh. Erano robusti, tarchiati, dalla tinta fosca, gli occhi obliqui e la coda tatuata, e indossavano una semplice camicia di cotone grossolano che scendeva fino alle ginocchia.
Ullogh li guardò attentamente ad uno ad uno, poi, soddisfatto da quell’esame disse: «Addio, padrone, e conta su di me,»
Risalì la riva seguito dai quattro tagliagole e si diresse con passo rapido verso la villa del generale. Quando giunse nella via che separava le due palazzine, si volse verso i quattro, dicendo loro:
«Andate a nascondervi dietro quel muricciolo e, quando mi vedrete assieme all’uomo bianco, mi seguirete senza farvi scorgere. Non fate nulla se prima non udite il mio fischietto. Vi sono cento nichelini da guadagnare, che il padrone pagherà senza battere ciglio.»
I quattro banditi scomparvero dietro il muricciolo.
Ullogh si collocò presso un angolo della palazzina del dottore e si mise a guardare attentamente le finestre della casa di Vronch, le quali erano ancora illuminate.
«L’umano è ancora lì dentro,» mormorò. «Il ministro sarà contento! Io un giorno sarò camerlengo, e poi, col tempo, chissà, ministro del re anch’io. Gli affari vanno a meraviglia. Che figata.»
Il briccone si trovava nascosto dietro l’angolo della palazzina da una buona mezz’ora, e cominciava già ad impazientirsi, quando vide la porta della villetta di Vronch aprirsi ed uscire l’umano, palesemente ubriaco.
Il mezzo-yeek voleva attendere che attraversasse la via, che a quell’ora era deserta, per poi raggiungerlo uscendo rapidamente dall’ombra, prima che avesse il tempo di salire i tre gradini di casa sua e di percuotere il gong. Ma quando si rese conto che, invece, il dottore si stava dirigendo, a zig zag, verso la riva del fiume, gli corse dietro.
«Ehi! Aspetta! Medico bianco!» gridò Ullogh, con tono allarmato.
I quattro tagliagole, dal loro nascondiglio, videro Ullogh raggiungere il vecchio e afferrarlo per una manica. I due sembrarono parlare animatamente per qualche istante, poi l’umano, barcollando, assestò uno spintone al mezzo-yeek, che, per quanto robusto, gli arrivava all’ombelico, e lo mandò a ruzzolare per terra. Ullogh si rialzò con uno scatto da mangusta e gli azzannò una coscia. Cominciarono ad accapigliarsi, sotto lo sguardo perplesso dei quattro coboldi, finchè non persero entrambi l’equilibrio e caddero nel fiume.

«Ah… Volete assassinarmi! Accorruomo!» gridava il dottore, tossendo e sputacchiando. Mani scagliose lo avevano afferrato. Appartenevano a Fang e agli altri servitori.
«Dottore? State bene? Dottore!»
«Chi è? Sono già le sette?»
«Dalla veranda vi avevo veduto parlare con un coboldo, poi allontanarvi. La cosa mi è parsa, ehm, strana.»
«Non dire così, giovanotto» rispose l’uomo, ridacchiando. «Me la sono cavata bene. Scegli una carta… hic… una qualunque.»
I coboldi avevano finalmente trascinato il vecchio sulla riva. Per un attimo rimasero a riprendere fiato, mentre Von Basedoff borbottava e ghignava tra sé e sé. Poi Fang si rivolse di nuovo a lui.
«Chi era quel tizio?»
«Quale tizio?»
«Quello con cui stavate parlando. Un battelliere?»
«No, hic, generale.»
«Non sono il generale. Sono Fang, mi riconoscete?»
«Lo suppongo. Ma, giovanotto, ti consiglio di non usare quel tono… hic… con me. Lei non sa chi sono io!»
«Va bene. Ora si aggrappi a noi, la riaccompagnamo a casa.»
«A quale scopo? Non ho bisogno del vostro aiuto! Fottuti coboldi del… del… del cazzo! Ecco!»
«Va bene, va bene, ecco, mi dia la mano.»
Trascinarono il vecchio fino a casa sua. Le sue grida di «Aiuto! Mi rapiscono!», e «Avvertite l’ambasciata!» avevano svegliato tutto il circondario e dovettero fare il percorso sotto una pioggia di insulti, rifiuti, cocci di bottiglie e gatti morti che i coboldi tengono abitualmente in un secchio sotto la finestra per simili occasioni.
Eriprando von Basedoff si svegliò la mattina dopo, coricato sulla panca della sua veranda; era fradicio, intontito, pieno di lividi, puzzava come una capra delle caverne e aveva dimenticato tutto.


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La Città del Re Leucrotta – Cap. VII

La Cremazione del Sacro Leucrotta

 

I tam-tam del palazzo reale avevano appunto battuto le quattro del pomeriggio, quando il medico entrò barcollando nella elegante casetta di Vronch. Aveva l’aspetto d’un uomo assai confuso, e la sua ampia fronte era solcata da profonde rughe, indizio che un profondo pensiero lo turbava e che non dormiva abbastanza. Sul pianerottolo della scala Ukhurra, più inquietante del solito, con un giubbettino di pelle di caimano nero tutto borchie e ricami d’oro, i calzoni ampi di stoffa azzurra che le scendevano fino sotto il ginocchio, e una superba peonia carnivora piantata sul pettine d’oro che le reggeva la chioma da medusa, lo aspettava. Dalla veranda lo aveva veduto uscire dalla sua palazzina e si era affrettata a muovergli incontro con la sua mazza da cricket.
Il vecchio, scorgendola, trasalì, e fissò sulla vecchia megera uno sguardo vacuo. Era troppo tardi per darsela a gambe. La ruga era improvvisamente scomparsa dalla sua fronte e anche la preoccupazione dal suo animo.
«Mi aspettavate, Ukhurra?» chiese il dottore, con una certa ansietà.
«Sì, signor straniero,» rispose la vecchia con voce rude, mentre un rapido fremito agitava le sue mani, che già il dottore immaginava attorno al suo collo.
«Vostro padre?»
«È già alzato. Quanto vi credete abili voi, uomini dell’occidente: nulla vi è impossibile, eh?»
«Bah! Un gioco da ragazzi. Ehm…», abbozzò il dottore.
«Venite, signor umano bianco.», disse Ukhurra con tono perentorio.
Attraversarono la veranda ed entrarono nella stanza del generale.
Vronch, che pareva ormai completamente guarito, se ne stava seduto su un divanetto di finta pelle, chiacchierando con l’infido Fang, che cercava in tutti i modi di portare il discorso sull’ubicazione dell’eredità.
«Buone nuove, dottore?» chiese l’ex-generale, spingendo Fang da parte.
«Ho finito or ora di esaminare il sangue vomitato da quel povero leucrotta.»
«Avete potuto vederlo?»
«Il re me ne ha accordato il permesso. Voi sapete che Re Woorplah nulla nega agli eugiliani che sono nei suoi stati.»
«È vero,» rispose il generale. «Egli li apprezza come si meritano. È molto vero.»
Il dottore fissò attonito il generale, poi disse con voce grave:
«I vostri sospetti non erano infondati: il Baldench è stato ucciso da un potente veleno, somministratogli da qualche vostro nemico.»
«Come avete potuto accertarvene?»
«Esaminando ed analizzando un po’ di sangue che mi avevano concesso di raccogliere. Vi ho trovato delle tracce di veleni potenti.»
«Siete ben sicuro, dottore, di non esservi ingannato?»
«No. Ho esaminato il sangue.»
«E…?»
«Veleni! C’erano dei veleni nel sangue! Veleni! SANGUE! VELENI! Avete capito? Oh cazzo.»
«Capisco. E il re? Avete appreso nulla delle intenzioni del re a mio riguardo? Cosa dice il re?»
«Brutte nuove,» disse il dottore. «Voi dovete avere dei nemici potenti che esigono la vostra completa rovina. Il re è furibondo per la morte dell’ultimo Baldench.»
«Che cosa mi consigliate di fare?» chiese Vronch, con voce cupa. «Una denuncia al re sull’avvelenamento del Baldench?»
«Chi vi crederebbe? Io no di certo. E anche se appoggiassi la vostra denuncia, e non lo farò, vi tratterebbero da pazzo o da mentecatto.»
«Che cosa farà il re?»
«Lo ignoro, ma temo che la vostra disgrazia, per ora, sia completa. Anche il popolo v’incolpa della morte del Baldench.»
«Fanculo il popolo. Sarebbe stato meglio che voi mi aveste lasciato dormire,» disse Vronch, facendo un gesto di sconforto supremo.
«E Ukhurra?»
«Mi avrebbe tirato il collo come un tacchino. Sì, è vero; perdonate, signore; sono stato ingrato, pronunciando quelle parole in vostra presenza.»
Il quel momento un colpo di tam-tam echeggiò nella via, ripercuotendosi sulla veranda.
Qualcuno, certo qualche personaggio importante a giudicarlo dalla violenza del colpo, aveva percosso la lastra di bronzo sospesa sulla porta della villetta. Vronch trasalì.
«Chi cazzo scassa la minchia a quest’ora, gli pigliasse lo scorbuto?»
«Un paggio del re,» disse in quel momento Fang, entrando. «Ha recato per voi, mio signore, questo messaggio.»
Nelle mani teneva un cartone di dimensioni enormi, d’un metro quadrato per lo meno, come usano i Fethrundesi, con delle lettere monumentali tracciate rozzamente. Ai due lati superiori erano disegnati due leucrotta ed a quelli inferiori due figure che probabilmente rappresentavano Krustulas.
«Un messaggio del re!» esclamò il generale, facendosi scuro in viso. «Annuncia la mia disgrazia?»
«E leggete, no?» disse il dottore.
«Uhm… È un invito per assistere alla cremazione del Baldench,» disse Vronch.
«Che la collera del re si sia calmata?» chiese il medico.
«Comincio a crederlo, giacché m’invita a prendere posto nella tribuna reale, assieme a mia nonna ed al portatore della mia scatola per il fango. Dottore, verrete con me, è vero? Ukhurra non ama assistere alle cremazioni. Potrebbero venirle brutte idee.»
«Quando si farà?»
«Fra due ore, al tramonto del sole.»
«È uno spettacolo che merita di essere veduto,» rispose l’eugiliano. «Accetto il vostro gentile invito. Che il re voglia parlarvi?»
«Vedremo, signore. Questo messaggio reale mi pare di buon augurio,» disse Vronch, il cui muso si era rasserenato. «Dottore, andate a prendere il tè con Ukhurra. Almeno la terrete buona per un po’. E forse riuscirete a convincerla che io non ho nulla a che fare con lo strano malessere che la colse ieri sera. Andate, su.»
Un’ora dopo, Vronch, che aveva indossato il costume di gala tutto in tela gialla a fiori e figure allegoriche, ricamata in oro, stretto alla cintura da una larga fascia che reggeva la scimitarra, e l’umano, visibilmente provato, lasciavano la villetta su due palanchini portati da otto rumorosi schiavi snotling, preceduti da due servi che portavano l’uno la scatola d’oro, contenente il fango del generale, e l’altro un ombrello rosso, con borchie d’olivina, distintivo che il re concede solamente ai grandi del regno. I ricchi Fethrundesi e così pure gli Uruth, non escono mai senza il portatore della scatola contenente il fango, del cui miscuglio sono avidissimi, e neppure senza il portatore d’ombrello. Sono distintivi di nobiltà, che dànno loro il diritto di farsi largo dovunque, eventualmente a ombrellate.
Procedendo di corsa, gli schiavi giunsero ben presto nei pressi del palazzo reale, dinanzi a cui, su una piazza immensa che si stendeva fino alla riva del Fulukh, doveva essere cremato il corpaccio del sacro leucrotta.
Una folla enorme aveva già occupato la piazza, pigiandosi contro le logge destinate ai grandi dello stato e alla corte reale che erano state costruite alla meno peggio durante la notte da migliaia e migliaia d’operai.
Nel mezzo era già stata eretta la pira, una gigantesca piramide quadrilatera, mozza alla cima, che si alzava per ben dieci metri, formata da enormi tronchi d’albero di popone, congiunti fra loro da anelli di ferro. Da ogni lato della piramide si staccava un’ala lunga tre metri e diretta verso uno dei quattro punti cardinali, che si congiungeva ad un’altra torre, eguale nella forma a quella centrale, ma di più modeste proporzioni.
Vronch, un po’ commosso, salì la gradinata, seguito dal dottore e dai due portatori, e prese posto dietro le file dei dignitari. La sua comparsa produsse però un profondo effetto fra quegli orgogliosi cortigiani, che lo credevano ormai completamente liquidato. Vi furono esclamazioni di stupore, sussurrii poco benevoli, sputi e gestacci osceni e nessun saluto. Vronch, assai incazzato ed immerso in ferali pensieri di vendetta, finse di non accorgersi di quelle dimostrazioni ostili. Egli aveva subito fissato gli occhi sulla loggia reale, dove, sotto un baldacchino giallo dalle lunghe frange rosicchiate, circondato da ombrelli altissimi colle aste storte, se ne stava seduto il re, fra i principi e le principesse di sangue reale.
Il potente monarca non indossava, come il giorno innanzi, l’incomodo costume delle grandi occasioni; anzi, mentre i principi ed i dignitari facevano sfoggio di vesti ricamate d’argento e di perle e di decorazioni sfolgoranti di lapislazzuli e topazi, portava una semplice veste di tela di sacco, senza guarnizioni, stretta alla cintura da una corda annodata, sostenente una corta sciabola. Woorplah pareva di cattivo umore e rimaneva immobile sulla sua poltrona dorata, senza porgere orecchio a ciò che gli dicevano i ministri ed i principi. Solamente, di quando in quando, allungava la destra verso la grande e ricchissima scatola d’oro che aveva sul coperchio lo stemma reale in rubini, per prendere qualche manciata di fango.
Ad un tratto però Vronch, che lo spiava ansiosamente, lo vide volgersi con una certa vivacità a guardare verso la loggia. I suoi occhi si fissarono per un momento sul generale, poi si volsero altrove.
«Vi ha notato,» disse il dottore.
«Sì, mi ha guardato,» rispose il generale.
«Mi sembra un po’ incazzato, per usare un eufemismo.»
«Lo è sempre: non l’ho veduto sorridere che due o tre volte, in tanti anni che lo avvicino.»
«Ecco i talponi che giungono: la carnevalata comincia. E dov’è la bestia morta?»
«Si trova già entro la piramide,» rispose Vronch.
«Che cosa ne faranno poi delle sue ceneri?»
«Le getteranno nel Fulukh, che è il nostro maggior fiume sacro e principale fogna. Le ossa che rimarranno si metteranno in un pentolone d’oro, che verrà poi conservato con gli avanzi dei re del Fethrund e di tutti gli altri mostri bianchi.»
Uno stuolo di talponi e di talponesse, vestiti tutti di tela bianca a quadrettoni viola, il colore usato nelle cerimonie funebri, s’avanzava verso la piramide, salmodiando massime morali nella lingua incomprensibile degli uomini-talpa, fiancheggiato da gruppi di suonatori che soffiavano disperatamente entro i dorgh, specie di lunghissime buccine dal suono assai aspro, percuotevano furiosamente degli enormi tamburi dalla forma e della grossezza d’un barile, e sbatacchiavano i bastoni-granchio, certe specie di bastoni di legno su cui vengono legati grossi crostacei furibondi che fungono da nacchere e servono d’accompagnamento alle voci.
Seguivano poi gruppi di ballerini e di ballerine, che avevano alle dita certi unghioni di rame giallo e portavano sul capo degli altissimi berretti conici ornati di pietre false; poi squadre di schiavi che reggevano dei canestri pieni di resine, di polvere di sandalo e di fango; quindi dieci o dodici carri, scortati da suonatori di kurrd, quegli strani strumenti musicali fatti a forma di bottiglia contenente un criceto urlatore che si batte col pugno.
Su tutti quei carri vi erano statue enormi ed antichissime di legno dorato, rappresentanti basilischi, draghileoni, elefanti bodendruker, mostri favolosi e serpenti inverosimili.
La processione fece due volte il giro dell’enorme piramide, gettando fango, fiori e materie resinose, sempre urlando, salmodiando e suonando, poi un talpone ad un cenno del re annodò ad un angolo della costruzione un largo nastro di stoffa bianca, legando l’altro capo ad un mucchio di libri sacri: era il mistico legame tra il defunto Baldench ed i libri di Krustulas. Quando il nastro fu teso, successe un profondo silenzio: talponi, talponesse e suonatori non fiatavano più. Allora il re scese dal palco reale, tenendo in mano una fiaccola accesa, mentre alcuni soldati spargevano al suolo della polvere da sparo, formando una lunga striscia.
Woorplah, visibilmente commosso, diede fuoco alla polvere, poi si voltò urlando «Tutti a terra!!» e si mise a correre.
Una striscia di fuoco serpeggiò per la piazza, comunicandosi alle materie resinose che circondavano l’immensa pira. L’esplosione fu assordante. Per alcuni istanti non si vide che una nuvola immensa di fumo nero avvolgere la piramide, poi fra quelle ondate di fumo guizzarono gigantesche lingue di fuoco, proiettando sulla folla pezzi di legno e di metallo, schegge, lapilli e bagliori sinistri. L’immensa mole che racchiudeva il corpaccio del Baldench, formata quasi tutta di tronchi incatramati, bruciava con rapidità incredibile, lanciando in aria fasci di scintille.
Tutti i principi, le principesse e i grandi dignitari dello stato accorrevano da ogni parte a gettare sul rogo torce e benzina, mentre i talponi e le talponesse mandavano grida acutissime, e rombavano con un fracasso infernale i tamburi e i granchi. I ballerini e le ballerine intanto saltellavano e piroettavano in mezzo ai piedi di chiunque, eseguendo la celeberrima Danza del Cordoglio. I tronchi cadevano al suolo con sinistri fragori, mentre si espandeva per l’aria un acre odore di carne bruciata: l’enorme animale rosolava entro quella immane fornace, tuonando e scoppiettando, perchè nel suo corpaccio avevano messo, come da tradizione, dei petardi. Le torri laterali, crollavano fragorosamente, lanciando in alto turbini di fumo acre e di scintille; le gallerie delle quattro ali si sfasciavano, ma la piramide resisteva ancora. Le tenebre erano calate, eppure sulla piazza ci si vedeva meglio che se fosse mezzodì. Perché il cielo pareva tutto in fiamme. Ad un tratto l’enorme edificio oscillò, come se una poderosa scossa di terremoto avesse sollevato il suolo, poi quelle centinaia di tronchi fiammeggianti si sfasciarono e l’intera massa crollò con un fracasso spaventevole, formando un immenso braciere alto parecchi metri.
Il corpo del Baldench, sepolto sotto quell’ammasso di tronchi già carbonizzati, si inceneriva rapidamente.
«È finita?» disse il dottore. «Possiamo andarcene, generale?»
Vronch, che era più commosso di quanto sembrasse, si era già alzato, quando un paggio del re lo accostò, sussurrandogli all’orecchio.
«Il re mi chiama!» esclamò il generale. «Sono un coboldo finito.». Il paggio annuì.
«Voi non sapete ancora che cosa desidera,» disse il dottore, quantunque in fondo all’animo condividesse le angosce del disgraziato generale.
«Non sarà certo per mantenermi in carica o per annunciarmi la cattura di qualche altro leucrotta,» rispose Vronch con voce rotta. «Il meglio che mi possa toccare sarà l’esilio in qualche lontana provincia paludosa.»
Il dottore soffocò un grido di giubilo: il suo pensiero corse a Ukhurra, a quella mostruosa arpia che già tante volte aveva popolato i suoi incubi e verso la quale già da tempo nutriva un profondo disgusto.
«Ebbene,» diss’egli con voce risoluta dopo un breve silenzio, «qualcuno vi seguirà anche nell’esilio. Ukhurra, per esempio.»
«Mi seguirebbe nell’esilio?» chiese il generale, con malcelato terrore.
«Come no,» rispose l’eugiliano, «e, sono certo, per lavorare alla vostra riabilitazione. Politica, intendo. Non mi riferivo ad incidenti gravi e invalidanti. No, certo che no…»
Vronch, profondamente sconvolto, artigliò la mano del bizzarro vecchio.
«Ah! Questo è troppo!» mormorò. «Qui non vivono che l’intrigo e la vigliaccheria, e questo lo posso sopportare… ma l’esilio con Ukhurra…»
Il rogo intanto stava per estinguersi e il re si era ritirato colla sua corte, rientrando nella cinta dell’immenso palazzo reale. Fare attendere quel potente monarca era troppo pericoloso.
«Andiamo,» disse Vronch, con voce risoluta. «Mi aspetterete davanti alla porta, è vero, dottore?»
«Non vi lascerò solo,» rispose l’eugiliano. «Casomai vi prendano a nerbate.»
Scesero dalla loggia, che a poco a poco si era vuotata, e si diressero verso la porta d’occidente che s’apriva sulla vasta piazza e che era guardata da una compagnia d’arcieri della guardia reale, vestiti di flanella rossa, con ampi calzoni alla zuava e coi cappelli di legno a forma di piramide.
Con grande sorpresa di Vronch, le guardie gli presentarono le armi e fecero squillare le buccine. Ciò era di buon augurio, poiché se la sua disgrazia fosse stata ormai decretata, nessun onore gli sarebbe stato più reso.
Un po’ incoraggiato da quell’accoglienza, fece cenno al dottore di attenderlo ed entrò nel vasto cortile d’onore, alla cui estremità s’apriva il salone delle udienze. Quando salì la gradinata, vide Woorplah passeggiare con una certa agitazione fra le splendide colonne che reggevano il soffitto di mosaico d’oro, ancora vestito di tela grigia, colla corta scimitarra appesa al fianco. Il viso del monarca non si era ancora rasserenato, anzi profonde rughe solcavano il suo muso ed un brutto lampo illuminava i suoi occhi nerissimi e leggermente obliqui.
Vedendo Vronch si arrestò di colpo, fissando sul generale uno sguardo acuto come la punta d’uno spillo.
«Eccomi, maestà,» disse il generale, dopo essersi inchinato fino a terra.
«Tu hai combattuto anche alle frontiere Uruth, contro gli Yeek e gli Orchi, è vero?» gli chiese il monarca senza rispondere al suo saluto.
«Sì, maestà, e mercé la protezione di Krustulas, anche quella volta ho salvato il regno da una invasione,» rispose Vronch, con voce untuosa.
«Tu allora, che sei rimasto in quei posti lungo tempo, c’è una leggenda che devi conoscere.»
«Quale, maestà?»
« Il Sacro Pungolo di Krustulas, te n’hanno mai parlato?»
Vronch guardò il re con una certa sorpresa, chiedendosi che cosa potesse significare quella strana domanda, poi rispose:
«Sì, ne ho udito parlare.»
«Sai dov’è che è stato sepolto?»
«In un tempio d’una vecchia città, a quanto mi hanno narrato. Lo sanno cani e porci, a quanto sembra.»
«Che sorge presso il lago misterioso di Zolph-Urplah.»
«Così mi hanno detto.»
«Ebbene, sappi ora che Krustulas, che l’hanno interrogato i talponi, ha fatto comprendere che senza quell’arnese più nessun bianco abominio non si fa vedere né catturare per niente. L’uncino che si serviva il brauusk, quando Krustulas era incarnato in un bianco leucrotta, è necessario per evitare le spaventevoli calamità che presto o tardi piombano sul mio regno non più protetto da alcun Baldench che è colpa tua. Vuoi che ti perdono e facciamo che non è successo nulla? Vuoi evitare a tua nonna la schiavitù? Va’ a pigliarlo.»
«Ma, maestà… se non esistesse?»
«Krustulas ha parlato ai talponi, e tu dici che son minchiate? Ma ti pare? Oseresti mettere in dubbio le parole del dio?» chiese il re con collera. «Sono trecent’anni che si parla di quel pungolo. Quindi esiste.»
«Potrò io scoprirlo?»
«Questi son cazzi tuoi: ti concedo tre giorni per fare i tuoi bagagli. Va’, Vronch: ti ho dato il mezzo per riabilitarti.»


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La Città del Re Leucrotta – Cap. VI

Il Ministro del Re

L’ ultimo dei Baldench era appena spirato e Vronch era appena uscito per recare al re la triste notizia, quando un coboldo, approfittando della commozione generale che regnava nella sala del leucrotta, usciva inosservato per una porticina che metteva dietro le mura della cinta reale. Quel tale era uno dei servi incaricati di vegliare l’ultimo Baldench, e che nel momento in cui Vronch manifestava al brauusk favorito i suoi sospetti, si era trovato così vicino a loro da non perdere una sola parola. Camminava rapidamente lungo la cinta, guardandosi di frequente alle spalle, come se temesse di essere seguito da qualcuno, e pareva in preda ad una profonda ansia: i suoi occhi bulbosi, che tradivano in lui sangue yeek, scrutavano i viali, e la sua pelle giallastra diventava livida al minimo rumore.
Giunto presso una delle tante porte della cinta, trasse dalla sua larga fascia una chiave e l’aperse con precauzione.
Al di fuori un giovane coboldo dalle scaglie scurissime pareva lo attendesse, tenendo per la briglia uno di quei piccoli e ardenti maiali del paese, bardati all’orientale, con staffe corte e larghe e gualdrappa rossa e infioccata, trapunta in oro.
«Il padrone ti attende,» disse al mezzo-yeek.
Con un salto quest’ultimo fu in sella e raccolse le briglie, dicendo:
«Yeeeh! Giddap, bestiaccia!».
Il maiale, sentendosi libero, partì di carriera, sollevando un nembo di polvere: seguì per qualche chilometro la cinta del palazzo reale, poi si slanciò fra le tortuose e fangose vie della vecchia città, atterrando tre o quattro passanti che non avevano avuto il tempo di evitarlo, finché sbucò sul gran viale costeggiante il Fulukh, fiancheggiato da bellissime case ormai fatiscenti colle verande illuminate da enormi lanterne di carta oliata variopinta.
Il mezzo-yeek lo lasciò galoppare per alcune centinaia di metri, poi con una violenta strappata lo arrestò dinanzi ad una villa grandiosa, d’architettura esotica, coi tetti arcuati ed irti di punte e di comignoletti scintillanti d’oro. Alcuni servi, sfarzosamente vestiti di stoffe gialla a fiorami di colori pacchiani, stavano chiacchierando e masticando fango sulla gradinata della palazzina.
«Il vostro padrone?» chiese il mezzo-yeek, balzando a terra con un’agilità da cavallerizzo perfetto.
«È nel suo gabinetto,» rispose un valletto, «la sai la strada o devo annunziarti?»
«Non occorre.»
Entrò, salendo una gradinata di legno traballante, coperta da tappeti infeltriti e disseminati di blatte morte, colle ringhiere di metallo arrugginito e, senza nemmeno bussare, aperse una porta di legno con laminette di calcedonio e opali azzurri. In un elegante salotto, tappezzato tutto in stoffa goblin ricamata con disegni di nani ed elfi intenti in atti innominabili, un coboldo stava sopra un immenso cuscino rattoppato, fumando una pipa formata da una conchiglia, dal cui camino si sprigionavano nuvolette di fumo untuoso e puzzolente.
Era un coboldo obeso, interamente calvo, fra i quarantacinque ed i cinquant’anni, dalla fronte bassa, le zanne assai sporgenti, gli occhi obliqui e la pelle giallastra, dalle scaglie flaccide. In tutta la sua persona c’era quel non so che di falso e di ripugnante tipico dei suoi consanguinei, ma molto più evidente, malgrado la ricchezza delle sue vesti di flanella azzurra cosparse di specchietti e di frammenti di pecblenda, le collane che dovevano costare dei tesori, ed il sorriso che non abbandonava mai le sue labbra.
Vedendo entrare il servo del Leucrotta Bianco, si levò di colpo, esclamando:
«Tu, Ullogh!…»
«Io, signore.»
«Il Baldench?»
«Morto or ora.»
Un sorriso di gioia feroce comparve sulle labbra del grasso coboldo.
«Sono finalmente vendicato!» esclamò con voce giuliva. «Ah! Vronch ha cercato di incastrare Cram-Hupah, il possente ministro del re! Mi conosceva troppo male quell’imbecille. Credeva di essere invulnerabile, ed è caduto come un colosso d’argilla. Non si offende impunemente un uomo par mio! Mi ha offerto la mano di Ukhurra; un giorno, dovessi travolgere nella rovina tutto il Fethrund, me la pagherà!». Si interruppe per lanciarsi in una risata diabolica. «Folle! Sfidare la mia collera! Non basta il coraggio per sposare quel mostro: ed ecco la mia salute compromessa, la mia tranquillità perduta, il mio onore fatto a pezzi, mentre avrei potuto vivere tranquillo! Me la sogno di notte! La vedo in ogni ombra! Quel mostruoso profilo mi perseguita! Solo l’oppio la tiene lontana! L’offesa che m’ha fatto la pagherà cara! Ukhurra, Ukhurra, tuo nipote piangerà lacrime di sangue, strega infernale! Ehm…», si interruppe per riprendere fiato, «dicevamo…Come era, quando è uscito per recarsi dal re?»
«Irriconoscibile, mio signore,» rispose il losco Ullogh.
«Chissà il re, che incazzatura!» disse Cram-Hupah, con un sorriso sbilenco. «Me la immagino la scena. Il mio veleno non doveva fallire nemmeno contro l’ultimo dei Baldench.»
«Un veleno terribile, signore.»
«Ho chiuso io stesso, entro un bambù del mio giardino, il più alto ed il più grosso, il baffo d’una pantera distorcente, ed ho spremuto colle mie dita il liquido del verme che era nato. Non mi sono però accontentato di questo, e vi ho unito una forte dose d’un veleno vegetale che avevo raccolto nei nostri boschi della Cambogia. E poi della polvere da sparo e del chili scaduto da sei anni. Nessuno avrà avuto alcun sospetto, è vero, Ullogh?»
A quelle parole il viso del coboldo si rannuvolò, e il suo turbamento non sfuggì allo sguardo acuto del ministro del re.
«Mi sembri inquieto,» gli disse il gran giustiziere, con voce aspra. «Che cos’hai?»
«Vronch non mi parve convinto che la morte dei Baldench fosse naturale,» rispose Ullogh, con voce esitante.
«Che cosa ti ha detto?» chiese il ministro, aggrottando la fronte.
«A me, nulla, ma ha manifestato dei sospetti parlando col brauusk del leucrotta bianco.»
«Sospetta di me?»
«Oh no, signore: del re di Uruth.»
Cram-Hupah scoppiò in una risata.
«Che babbione! Tutti i coboldi sono babbioni! Tranne me! Ah ah ah ah! Il re di Uruth! E a quale scopo avrebbe fatto avvelenare i Baldench del re del Fethrund?»
«Per gelosia.»
«Ciò è cosa che non ci riguarda, vero, Ullogh? Sono fedeli i tuoi complici?»
«Sono tutti mezzi-yeek, e non credono alle trasmigrazioni di Krustulas. Per noi sono tutte cazzate.»
Il ministro del re s’avvicinò ad un pesante mobile in legno borchiato, una specie di forziere tutto intagliato e laminato in piombo, aperse uno sportello e ne estrasse un sacchetto di pelle di gnoll, che pareva pesantissimo.
Levò quattro verghe d’oro e le porse al Cambogiano, i cui occhi bulbosi erano diventati ardenti, al veder scintillare nelle mani del ministro il fulvo metallo.
«Ecco qui mille nichelini che dividerai coi tuoi complici,» disse. «A più tardi il resto, giacché la vostra impresa non è ancora terminata. Un giorno tu sarai Gran Conestabile. O Balivo. O Valvassino, scegli tu.»
«Non vi sono più Baldench da uccidere, mio signore!» disse Ullogh.
«Ma vi è Ukhurra da sistemare,» rispose Cram-Hupah. «Credi tu che io non voglia raccogliere i frutti della mia vendetta?»
«Vuoi che uccida la vecchia?»
«Non ce la faresti. La sola visione… brrr. Mi basta allontanarla. Tipo nel Piano Astrale.»
«Che cosa devo fare?»
«Recarti al Tempio di Quor-Ixul e avvertire Pepetu di recarsi qui all’istante. Prenderai una lettiga con otto servi. Faremo fare della strada a quel bravo talpone, giacché ambisce di diventare il capo della comunità! Fa’ presto: quel prete mi preme.»
Ullogh mi mise nella cintura le verghe d’oro, fece un profondo inchino e uscì correndo.
Non erano trascorsi venti minuti, quando Cram-Hupah, che si era ricoricato sul largo cuscino polveroso, riaccendendo la sua pipa carica d’oppio e sorseggiando una tazza di grolla bollente, udì il gong sospeso alla porta risuonare fragorosamente.
«Deve essere quel bravo talpone. Riceviamolo degnamente, quantunque lo ritenga un briccone mio pari.»
Un uomo-talpa magrissimo, col muso incartapecorito e rugoso, entrò, facendo un profondo inchino e dicendo con una voce fessa e lamentosa, punto piacevole:
«Che Krustulas guardi il ministro del re.»
Quell’uomo-talpa aveva il capo scoperto e privo di capelli, i piedi nudi, il corpo rasato e grigino; era avvolto in tre pezzi di stoffa a quadrettoni marroni e viola, il colore riservato al re: il primo gli avviluppava il braccio sinistro e metà del corpo fino alla cintura, lasciando nudo il braccio destro: il secondo dalla cintura gli scendeva fino ai polpacci delle gambe: il terzo invece gli avvolgeva le reni come una larga fascia e sosteneva una lunga corona formata di cento e tredici globetti di zirconio, di cui si servono tutti i talponi per recitare le loro preghiere senza addormentarsi.
Oltre ad aver il capo rasato, aveva così anche il muso e perfino le sopracciglia, ma portava enormi baffoni asburgici.
I talponi sono monaci fedeli a Krustulas e, soprattutto nel Fethrund, formano delle corporazioni potentissime e assai rispettate non solo dal popolino e dai nobili, ma anche dallo stesso re: posseggono un numero infinito di monasteri, tutti sotterranei, che racchiudono dei tesori favolosi. Ve ne sono di parecchi ordini, e tutti devono vivere di carità e mendicare ogni giorno alle porte dei ricchi e anche dei poveri; e non tornano mai alle loro gallerie a mani vuote, anzi sempre carichi come muli, giacché nessuno oserebbe rifiutare a così santi uomini una moneta o una scodella di tapioca o dei poponi o altro.
Ricevono poi offerte dai grandi e dallo stesso re, il quale anzi tutti i giorni accoglie i monaci della pagoda di Quor-Ixul, che formano fra i talponi una specie di aristocrazia, e che devono venire nutriti a spese della corte, e spesso se ne approfittano. Il talpone che era entrato nel salotto di Cram-Hupah non era un monaco qualunque, anzi per i suoi meriti e per le sue virtù era stato innalzato alla dignità di vescovo, e ne portava le insegne dorate sul talapio che teneva in mano, una specie di ombrello di seta gialla, che quei religiosi portano sempre con sé, onde coprirsi il viso ogni volta che incontrano delle donne, oppure picchiarle. Quest’oggetto, assieme alla corona e agli occhiali scuri, formano il corredo irrinunciabile di qualunque talpone che si rispetti.
«Che cosa desideri da me, ministro?» chiese il monaco, dopo essersi seduto su un seggiolone di bambù, offertogli premurosamente da Cram-Hupah.
«Sai, talpone, che il Baldench è morto?»
«L’ho appreso or ora e non puoi immaginarti, ministro, il dolore immenso che mi ha cagionato quella notizia.»
«Ed a me del pari,» disse il ministro strizzando gli occhi, «e prevedo che gravi disgrazie colpiranno il nostro povero paese, se non si troverà qualche altro Baldench che incarni l’anima di Krustulas.»
«Possibile che non ne esista più alcuno nelle folte foreste del settentrione? Che il nostro paese sia stato maledetto?»
«Tutte le spedizioni organizzate dal re sono tornate a mani vuote, e temo anch’io che qualche possente stregone o qualche genio malvagio abbia gettato la jettatura sul regno.»
«Qualche necrospettro o vampiro? Un Lich? »
«O una di quelle terribili lamie e streghe volanti di cui parlano le nostre storie e i nostri libri sacri; a meno che…»
«Parla, ministro,» disse il talpone.
«La notte di ieri io l’ho trascorsa pregando dinanzi alla statua di Krustulas, nel tempio di Quor-Scepulon, affinché il dio m’indicasse il luogo dove potessi trovare un altro Baldench e salvare così il regno dai disastri che non tarderanno a colpirlo.»
«Ma bravo. E te lo ha indicato?» chiese il talpone, con ansietà.
«Tornando a casa verso l’alba, mi sono sentito cogliere da un sonno irresistibile e poco dopo m’è apparso in sogno Krustulas.»
«Il dio?»
«No. J. Krustulas Esposito, idraulico. Il dio! Certo! Quanti Krustulas conosci, cazzo?»
«Scusa, scusa, è che mi emoziono a sentir parlare di visioni mistiche», farfugliò il talpone nascondendosi dietro l’ombrello. «E ti ha parlato?»
«Certo che mi ha parlato,» rispose il ministro imperturbabile. «Egli montava una gigantesca viverna dalle penne d’oro, col rostro e gli artigli di apatite e gli occhi di quarzo; recava sui fianchi la scritta “Ahi Cocalorum”. M’invitò a salirvi, dicendomi: “Ti voglio condurre, giacché mi hai tanto pregato, in un luogo ove tu troverai il Sacro Pungolo che io ho sepolto prima di abbandonare la terra, e senza il quale non si potrà trovare alcun Mostro Bianco che si rispetti.” Poi la viverna riprese il volo con rapidità prodigiosa; seguendo il corso del Fulukh, finché si librò sopra una città semidiroccata, con alte cupole e porticati immensi, popolata solamente da pipistrelli e uccelli stigei. “Ecco dove si trova il Sacro Pungolo”, mi disse allora il dio. “Cercalo, perché senza quello il Fethrund non avrà mai alcun Baldench.” Poi scomparve, senz’altro aggiungere, con un sonoro pop.»
Cram-Hupah tacque un momento, poi, volgendosi verso il monaco, che pareva lo ascoltasse ancora, gli chiese:
«Tu che sei fra tutti i talponi il più istruito e che conosci tutti i libri antichi hai mai udito parlare di una città simile?»
«Sì, i libri fanno menzione di quattro grandi città, cadute in rovina da secoli e secoli, e che sarebbero state popolate un giorno da un popolo immenso, e narrano che in una di esse sarebbe stato veramente sepolto il Sacro Pungolo di Krustulas, dopo la sua ultima incarnazione.»
«Anch’io ho udito, nella mia gioventù (quando non ero ancora sceso nel Fethrund, perché sono in parte Goblin, per parte di madre, che aveva sposato un fattorino; ma mio nonno era nato nell’alto Vorrz, ed era arrivato con i mercenari della Regina Priraz… ma non divaghiamo), parlare di rovine imponenti e soprattutto d’una immensa città, che si dice fosse stata eretta da un re leucrotta. Quante ne so, eh?»
«Dove si troverebbe quella città?» chiese il Talpone.
«Ho udito parlare del lago misterioso di Zolph-Urplah,» disse l’untuoso ministro.
«Se Krustulas ti ha ispirato, tu devi parlare subito al re, onde si organizzi una spedizione che vada a cercare nella città del re leucrotta il Sacro Pungolo.»
Il ministro scosse la testa, poi fissando sul monaco, che lo guardava con stupore, i suoi occhi obliqui dal lampo giallastro, gli disse:
«Tu che sei uomo-talpa di religione, credi che Krustulas mi sia apparso in sogno per indicarmi veramente il modo con cui il Fethrund potrà riavere i Baldench?»
«Sì, giacché tu lo avevi pregato una notte intera.»
«Ebbene, io dò a te l’incarico di recarti dal re e di dirgli che Krustulas ti è comparso in sogno. Tu, ministro della religione, sarai meglio creduto di me.»
«Ma tu, ministro, rinunci agli onori che ti spetterebbero se il Pungolo Benedetto si trovasse.»
«Li cedo a te, quegli onori; io ne ho avuti abbastanza. Sono troppo buono, vero?»
Il monaco cadde in ginocchio dinanzi al ministro, esclamando:
«Tu sei il coboldo più generoso che io abbia conosciuto sulla terra. Che cosa potrò fare per te?»
«Salvare Vronch e stornare dal suo capo la collera del re. Non voglio che quel prode cada in disgrazia,» disse il ministro, fingendo una profonda commozione.
«In qual modo?»
«Consigliare il re a mandare Vronch in cerca del Sacro Pungolo. Se egli lo trova, come spero, perché anch’io non dubito che Krustulas m’abbia indicato il luogo dove è sepolto, la sua riabilitazione sarà completa.»
«Oh, coboldo generoso! Oh fontana di saggezza! Tu sei il più leale e il più cavalleresco ministro del regno!» esclamò il talpone.
«Si, certo, certo. Ora va’, un palanchino t’aspetta alla porta della mia casa ed il re a quest’ora non deve essersi ancora coricato. Conto su di te e sulla tua segretezza, uomo-talpa.»


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La Città del Re Leucrotta – Cap. V

Il Dottore Bianco

Fang, il servitore infingardo, nutriva verso l’ex-generale una devozione scarsa e riluttante. Aveva intuito che Vronch maturava nel suo cervello un vile disegno. E infatti lo aveva pedinato, impedendogli di fuggire dalla città, cosa che non avrebbe mancato di metterlo in buona luce a Corte (Fang, non il generale). Quindi, proseguendo in questa sua strategia, appena terminata la cena, si era celato fra i vasi di peonie che abbellivano la veranda, deciso a impedire al padrone (padrone ancora per poco) di fare altre cazzate: e aveva assistito, sbirciando dalla veranda, al segreto che l’inconsapevole Ukhurra era sul punto di rivelare al disgraziato nipote. Se non fosse che, sul più bello, aveva dovuto difendersi dall’improvviso attacco di una zanzara del Fulukh, grande come una pecora ma decisamente più feroce. «Fuori i soldi, bello, » aveva ronzato l’imenottero, piantandogli il pungiglione in mezzo alle costole, «fa’ il bravo e nessuno si farà male. » Fang si era ritrovato in mutande e, soprattutto, aveva perso le fatidiche parole della nonna: il luogo dove era sepolta l’eredità. E poi le peonie lo avevano aggredito. Fang, che era stato raccolto ancora cucciolo sui confini del Vezreen, in un villaggio di selvaggi Yeek devastato dallo scorbuto, conosceva ormai da troppo tempo il suo padrone per non indovinarne i pensieri, peraltro elementari. All’inizio era stato sopraffatto dalla paura e, come avrebbe fatto qualsiasi altro coboldo, aveva tentato la fuga. Ma, costretto a tornare a casa, aveva ceduto all’avidità e, come qualsiasi altro coboldo, aveva deciso di ricavarne il maggior vantaggio possibile. Sicuramente intendeva ripartire al più presto, forse la mattina stessa, ma questa volta carico di tesori. Ci voleva un enorme coraggio per affrontare l’ira di Ukhurra: ma Vronch era un coboldo disperato, pronto a tutto. Tanto che Fang, per essere sicuro che il generale non tentasse la fuga durante la notte, aveva versato, durante la cena, una generosa dose di sonnifero nel vino che teneva in camera sua: un’idea che era sembrata tanto brillante prima di cena quanto disastrosa ora. Sì, perché avidità e paura erano in fondo, e neanche tanto in fondo, le due molle che facevano scattare il cuore e il cervello (quest’ultimo in misura molto minore) di ogni coboldo, Fang compreso. E l’idea di essere vicino a un così gran tesoro, proprio mentre il suo padrone stava per finire sulla forca, e di non poter sapere dove questo tesoro fosse, l’aveva precipitato in una così grande agitazione da non fargli capire più cosa stesse succedendo, se non che le peonie carnivore stavano tentando di strangolarlo.
Quando riuscì, finalmente, a districarsi dalle peonie, Fang attraversò in un lampo la veranda ed entrò come una bomba nel salotto. La casa era in subbuglio: i servi gridavano e piangevano sulle scale, strappandosi le vesti e graffiandosi i volti. Ukhurra, nella camera di Vronch, stringeva il collo del nipote tra le dita adunche e lo scuoteva come un bambolotto. «Cosa hai messo nel mio tè? », gridava la megera. « Parla, bastardo! Non fare finta di dormire! Volevi avvelenarmi, eh! Ma io ti ammazzo! ». «Padrone, padrone!» gridò Fang, entrando, e si gettò sulla vecchia. I tre ruzzolarono a terra in un groviglio. «Lasciatelo, signora! In nome di Krustulas! ». «E tu che cazzo vuoi?! Guarda che ce n’è anche per te! » ringhiava Ukhurra, calciandolo nelle costole. «Un medico, signora… tuo nipote… suicidato… il vino…», farfugliò Fang. «Suicidato? Suicidato un paio di ciufoli! Lo ammazzo io, questo figlio di un verme-iena! ». La vecchia Ukhurra si alzò in piedi, trascinando Fang per un orecchio. «Qui!… di fronte!… dallo straniero dalla pelle bianca… è un medico! Muoversi! »
Fang era già nel vestibolo, urtando i servi che accorrevano da tutte le parti perché avevano udito le grida di Ukhurra, come del resto buona parte della città. Scese a precipizio i gradini e si slanciò nella via. Per il momento, pensava, aveva impedito a Ukhurra di rompere il collo del suo ex-padrone. Finchè c’è vita, c’è speranza.
Di fronte alla casetta del generale, s’alzava una sbilenca palazzina di legno, col tetto pericolante e le grondaie arrugginite, e colla solita veranda coperta di erbacce. Fang salì rapidamente i tre gradini, e percosse fragorosamente la porta, gridando: «Aprite, signor umano bianco! Il mio padrone muore!»
Alla ventesima battuta la porta si aperse e comparve un uomo in camicia da notte, con in capo un bizzarro casco di flanella bianca (cosa ci facesse con un casco di flanella in testa a quell’ora della notte è un mistero che non ci è dato svelare), e con in mano una lanterna coi vetri di alabastro. Era alto e allampanato, di età avanzata o comunque mal portata, di aspetto nervoso e stralunato, dalla pelle fin troppo pallida, cogli occhi spalancati ed i capelli e la barba grigi, lunghi e scarmigliati.
«Chi cazzo è che muore?» chiese in pessimo fethrundese. «E perché sei in mutande?»
«Il mio signore, Vronch! Sta morendo!»
«Il ministro dei Baldench?» esclamò l’uomo con stupore.
« È stato… ehm… si è avvelenato, signore.»
«Attendi un istante.»
L’uomo rientrò nella palazzina, barcollando in preda ad una visibile emozione, o ai fumi dell’alcool, poi ne uscì di nuovo tenendo in mano una cassetta di legno laccato, contenente probabilmente degli antidoti.
«Dài, su, precedimi,» disse brevemente.
Attraversarono velocemente la via e salirono nell’abitazione del ministro, facendosi largo fra i servi sgomenti. Preceduto da Fang, attraversò la veranda ed entrò nella stanza del ministro.
Ukhurra, con le zanne grondanti bile, in preda ad una rabbia incontenibile, vegliava sola sul nipote ancora a terra, anche perché nessun altro avrebbe osato avvicinarsi. Vedendo entrare l’umano, gli si precipitò incontro, gridandogli con voce rabbiosa: «Salvatelo, o saranno cazzacci vostri!»
Il vecchio si limitò a rivolgerle uno sguardo assente ed a grattarsi il capo, figgendo i suoi occhi annacquati in quelli della vecchia cobolda. Poi s’avvicinò alla forma scomposta di Vronch e gli tastò il polso.
«Ehm,» disse. «Per fortuna. La morte non sarebbe giunta prima d’un paio d’ore. O anche qualche annetto. Voglio dire, sta dormendo. Almeno penso.»
«Dormendo? E il veleno?» grugnì Ukhurra, voltandosi verso Fang. «Ehm… non so… è quello…è quello che mi ha detto lui, », farfugliò Fang indicando l’ex-generale, «cioè, che non voleva più vivere per la faccenda del Baldench eccetera… poi non so, avrà sbagliato dosi. Che ne so, io? »
L’umano abbozzò un sorriso sdentato, dicendo con un inchino: «Bene! Anche questa è fatta! E non preoccupatevi per l’onorario. Poi ci mettiamo d’accordo.»
La vecchia ringhiò e sputò per terra.
«Tu non esci di qui, bello. Aspetteremo un quarto d’ora o venti minuti, o tutta la notte, finchè questo porco mannaro non si sveglia. E poi lo ammazzo.»
Ci fu un attimo di imbarazzato silenzio. Poi il medico si schiarì discretamente la gola.
«Dite, signor dottore.»
«No, così, mi chiedevo…Quale dispiacere può aver spinto vostro nipote, ministro potente ed invidiato, favorito del re, a cercare la morte?»
«Ma che cazzo volete che ne sappia, io. Era tornato questa sera assai turbato e triste. Avrà di nuovo perso a ramino. E ha tentato di avvelenarmi. Bastardo.»
«Che sia morto l’ultimo Baldench?» disse il medico, senza darle retta. «Mi hanno detto che ieri mattina era assai ammalato e che alla corte regnava una profonda preoccupazione.»
«Il Baldench morto?» esclamò Ukhurra «Ma stiamo scherzando?».
«Sì… morto…» mormorò una voce presso di lei.
Vronch aveva aperto gli occhi e si era alzato, appoggiandosi sui gomiti.
Ukhurra gettò un grido belluino e afferrò una sedia. «Ah! Canaglia! Ora son cazzi tuoi!»
Il generale rimase immobile, cogli occhi dilatati, guardando ora la nonna ed ora lo straniero, certo stupito di trovarsi ancora vivo, oppure certo di essere già morto e all’inferno.
«Piccolo malefico bastardo!» gridò nuovamente Ukhurra. «Non pensare di cavartela con così poco. Se c’è qualcuno morto, qui, quello sei tu!»
Il muso del generale si contorse in una smorfia; gli occhietti gli si riempirono di lacrime, e con un moto improvviso gettò ambe le braccia attorno alle caviglie scagliose di Ukhurra, strillando:
«Perdono, perdono perdono perdono, mia dolce Ukhurra, più preziosa di tutte le nonne, saggia e benevola antenata! Non ho fatto nulla! Non so di che mi accusi, ma lo giuro, lo stragiuro, non sono stato io! Krustulas mi è testimone! E anche Insensul, Chaferuck e il Divino Lumacone! E se sono stato io, mi ci hanno costretto! Come puoi, come puoi accanirti così sul tuo unico nipote vecchio e malato e caduto in disgrazia! Tu sei tutto ciò che mi rimane, non ho altro che te!»
La vecchia rimase spiazzata da tanta commozione, mentre Fang non poteva che ammirare l’abilità consumata con cui il suo padrone faceva leva su quel poco di istinto materno che ancora risiedeva nell’animo rinsecchito della megera.
«Voi, il più prode guerriero del Fethrund!» esclamò l’umano. «Vi sembra il caso di fare ‘ste scenate? »
«Prode guerriero un cazzo, ormai,» disse Vronch con voce rotta, «e fors’anche un maledetto, dai grandi e dal popolo bue: mi accuseranno di essere stato io l’autore della morte dei Baldench. Dannate bestie del cazzo.»
«Il regno potrà prosperare anche senza leucrotta più o meno bianchi,» rispose l’umano. «Credetelo, generale, sono vecchie superstizioni che un giorno spariranno anche dal Fethrund.»
«Forse avete ragione,» disse Vronch, «ma nessuno potrà persuadere il popolo, e nemmeno i talponi.»
«Ecco un coboldo moderno,» disse il dottore, sorridendo vacuo. «Per noi, perdonerete se parlo franco, i leucrotta, gli occhi fluttuanti, i buoi cingolati e gli ule, di qualunque colore siano, sono tutti animali né superiori né inferiori agli altri. Anzi, diciamo inferiori.»
«E voi ne sapete ben più di noi,» annuì il generale.
«Condividete dunque la mia opinione?»
«Come fethrundese, no. Come generale, neanche. Come coboldo, non ho capito la domanda. Dovrei rinnegare la mia religione e le credenze dei miei avi.»
«E noi crediamo in Krustulas,» grugnì Ukhurra.
«Avete veduto il re?» chiese l’umano.
«Ieri sera, dopo la morte dell’ultimo Baldench.»
«Sapete, generale, che mi sembra per lo meno strana la morte di quei sette mostri in così breve tempo?»
Vronch fissò sull’uomo uno sguardo sospettoso.
«Cosa state insinuando?» chiese, cercando con gli occhi la sua scimitarra.
«Beh, generale, avete qualche nemico potente alla corte?»
«Ah, quello, intendete. Tutti ne hanno: l’invidia ne fa sorgere dovunque.»
«Qualcuno che aspirasse al vostro posto?»
«Ve n’è più d’uno, ma io non credo che costoro abbiano osato sfidare l’ira di Krustulas.»
«Comunque, un sospetto voi l’avete?»
«Boh,» rispose il generale.
«Frugate bene nella vostra memoria: quel nemico può venire a galla.»
«Ukhurra,» disse il generale, «lasciaci soli. La confidenza che devo fare a questo signore deve essere, per ora, ignorata da te.»
La vecchia tese la sua mano callosa verso il medico, che gliela strinse con un sorriso perplesso, e uscì, dicendo: «Non finisce qui.»
«Bene. Parlate, ora», disse il dottore.
«Le vostre domande mi hanno fatto nascere un sospetto, che prima non mi era mai balenato nel cervello. Sì… nella morte dei Sacri Mostri Bianchi deve esserci entrata la mano di Cram-Hupah.»
«Chi è costui?»
«Un coboldo che dal nulla è riuscito a diventare, non so per quali male arti, ministro, ed a guadagnarsi il favore del re.»
«Un avventuriero?»
«Che era stato prima ai servigi del re di Uruth, un coboldo falso, doppio, capace di commettere qualsiasi delitto, assetato d’ambizione e tuttavia temuto.»
«Non sembra molto differente dal 95% della popolazione del regno. Aveva qualche motivo per tentare la vostra perdita?»
«Sì, quello di vendicarsi d’avergli io… ehm… negato la mano di Ukhurra.»
«Ve l’aveva chiesta?» disse l’umano, sbigottito. «Che fegato! »
«Tre mesi or sono. Ho dovuto rifiutare, sapete… per il suo bene», borbottò Vronch, che si guardò bene dal dire come fossero andate davvero le cose. I matrimoni, nel Fethrund, erano sempre combinati e decisi dai maschi. Vronch aveva per un po’ covato la speranza di liberarsi della vecchia dandola in sposa a un qualche suo nemico e, una volta, aveva combinato un incontro con Cram-Hupah, all’insaputa della vecchia. Ma il ministro, scorta la megera sulla veranda, fu preso dal panico e fuggì, cadendo con la portantina nel Fulukh. Vronch non ne aveva fatto parola con nessuno: Ukhurra lo avrebbe ammazzato per molto meno. E poi, ora che non aveva più il favore del re, non poteva rinunciare ai soldi dell’eredità.
«Ed ecco che un mese dopo il primo Baldench moriva,» disse l’umano, che era diventato pensieroso. «Non avete però alcuna prova che possa essere stato lui.»
«Nessuna e poi, anche avendone qualcuna, nemmeno io avrei potuto lottare contro un coboldo così potente.»
«È fedele di Krustulas? O di Shullud?»
«Io credo che sia un adoratore del Sacro Pinnacolo, o della Settuplice Fiammella Ridente, o di Nullul, o altri sciocchi culti senza senso come quelli degli Yeek.»
«Ecco una preziosa informazione,» disse l’uomo. «Un nulluliano se ne impippa di Krustulas, a cui non crede. Deve però aver avuto dei complici.»
«Certo, signore, fra i paggi, i servi od i brauusk dei Baldench.»
«Sono amico di alcuni pezzi grossi della corte,» disse l’uomo, alzandosi. «Spero di ottenere il permesso di visitare il leucrotta bianco che è morto ora. Conosco bene i veleni io: vedremo.»
«Come potrò ricompensarvi per avermi sottratto alle grinfie di mia nonna?» chiese il generale con voce affranta.
«Vedremo. Dopotutto un po’ di soldi per la vecchiaia li avrete messi via, no?»
«No.»
«Io dico di si.»
«No, davvero. Ho perso tutto a ramino. Ho debiti per miliardi.»
«Su, dài, non fate il ritroso. Scommetto che scherzate.»
«No, ve lo giuro.»
«Non ci credo.»
«Massì, cazzo e ricazzo!»
«Ma no.»
Andarono avanti tutto il pomeriggio.


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