Viaggiare nel Tempo

Il Mitico Viaggio. Vedetelo. Il miglior film di Keanu Reeves.

In questo lavoro il Dottor J.R. Gott ci spiega con dovizia di particolari, aneddoti e quisquilie, un sacco di cose, fra le quali il viaggio nel tempo non occupa, sembra, una particolare posizione di rilievo. Si parla di big bang e fondo cosmico di radiazioni, di stringhe, dimensioni, Einstein, viaggi nello spazio, Star Trek, il Taj Mahal, eccetera eccetera eccetera, ma il viaggio nel tempo come lo intendiamo noi, cioè un tizio che entra nella cabina del telefono e va nell’Antica Grecia a rapire Socrate, non compare se non marginalmente. Il Dottor Gott ci spiega che è possibile viaggiare indietro nel tempo volando attorno ad un cilindro infinitamente alto che ruota su sè stesso alla velocità della luce. Naturalmente un cilindro infinitamente alto non si trova dal ferramenta, ma ci stiamo lavorando. Oppure si può usare un cunicolo di tarlo, una distorsione nella struttura dello spazio-tempo che ci permette di arrivare su Alpha Centauri con anni di anticipo rispetto a un normale viaggio spaziale. Peccato che poi siamo su Alpha Centauri. Dà un po’ l’idea, il Dottor Gott, dell’eccentrico genio con poco contatto con la realtà: impressione che viene definitivamente confermata dall’entusiasmo con cui ci comunica che un suo articolo è menzionato accanto al ben più celebre lavoro del signor Spock Implicazioni matematiche delle convergenze non-omogenee paratopologiche tra n-spazi ortogonali non collegati, con misure di campo a convalida in un romanzo di Star Trek. Non voglio dare l’impressione che questo libro non mi sia piaciuto: è che in effetti il tema del viaggio nel tempo non ne viene fuori granchè bene. Noi vogliamo, lo sappiamo benissimo, tornare nel passato per comprare Manhattan dagli indiani prima degli Olandesi, cancellare Jar-jar Binks dal continuum spaziotemporale, depositare un centesimo in banca per vivere di rendita fino alla fine del mondo, vedere l’ultimo concerto dei Marillion con Fish, o tutte quelle cose che da sempre si associano al viaggio nel tempo. Chi se ne frega del cilindro infinitamente alto. Ma, che ci volete fare, questo passa il convento. Comunque, il vero punto di forza del libro è il principio copernicano, che è l’invenzione di cui il Dottor Gott va più fiero: ovvero le conseguenze che si traggono dalla constatazione che non siamo osservatori privilegiati dei fenomeni che avvengono nel cosmo. Copernico, appunto, aveva dimostrato che la nostra posizione nel sistema solare non è nulla di speciale; Gott afferma che, se la nostra posizione nel tempo non è speciale rispetto ad un fenomeno (per esempio non ne osserviamo il momento della nascita), è possibile applicare le leggi della statistica per stimarne con grande precisione la durata. Per esempio: osservato dai giorni nostri, il Cristianesimo, che è nato nel 33 d.C., dovrebbe durare, in base a questo principio, più di 50 anni, e meno di 76713. Che dire? Bravo, ma basta.

 

Questi, comunque, restano i miei viaggiatori nel tempo preferiti.

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Memorie di un nano gnostico

Serapide. O forse Zalmoxis. Oppure Iadalbaoth. O quell'altro là, che ora non mi viene il nome, coso...
Ora,un romanzo con un titolo così potevo lasciarmelo scappare? No, non potevo. E quindi eccoci qui. Fra l’altro, credo che ogni lettore accanito quale io sono prima o poi giunge alla conclusione che non è lui a scegliere i libri che legge, ma sono loro a presentarsi sulla soglia di casa dicendo: “Eccomi qua. Leggimi.” – e a quel punto cosa fai, li cacci in malo modo? E poi pian piano scopri che anche se i libri li leggi a caso un filo sottile li lega, come se potessi disporli in una specie di mosaico e ogni libro nuovo va a colmare una lacuna, a inserirsi perfettamente in un incrocio di rimandi, argomenti, citazioni, quisquilie, pinzillacchere e così via. Ma basta con la filosofia spiccia perchè qui, signori, si parla nientemeno che di gnosticismo. Argomento affascinante, a proposito del quale confesso da subito la mia più totale ignoranza: una dottrina filosofica molto antica e complessa – quel genere di dottrina per cui ai bei tempi dell’Inquisizione si finiva male. A farci da guida alla scoperta di questi misteri è il nano Peppe, un povero popolano cui la natura ha giocato un brutto scherzo, dandogli un corpo deforme, una madre rozza e stolida, un padre sconosciuto e una casa in Trastevere, nel bel mezzo dello squallore e della degradazione della Roma del Cinquecento. Ma proprio per questa catastrofica somma di sfighe il piccolo Peppe arriva all’attenzione di una confraternita di gnostici, i quali vedono in lui un candidato ideale. Perchè il concetto base dello gnosticismo, a quanto apprendiamo, è la fondamentale malvagità del mondo e della vita in generale: il dio creatore è in realtà un diavolo, un perfido demiurgo che, bisognoso di schiavi e adoratori, ha costruito un mondo imperfetto e fallace, una prigione per le anime che, quindi, devono liberarsi del fardello della carne per tornare al Padre Celeste. Glom. Capirete come questo genere di teorie potesse dar fastidio a molta gente, a quei tempi. Comunque sia, per farla breve, seguiamo la storia di Peppe, che dalla scuola segreta degli gnostici finisce dritto nelle prigioni dell’Inquisizione, e poi in un circo di scherzi di natura, e poi alla corte di Papa Leone X, noto mecenate nonchè inveterato sodomita, di cui diventa segretario. Ora, quando si legge un romanzo storico non bisogna dimenticare che è pur sempre un romanzo, e quindi un’opera di fantasia: perchè altrimenti sono pochi i romanzi storici che sopravvivono al fuoco di sbarramento della critica. Non so se Leone X fosse come David Madsen lo dipinge (o come lo dipinge Lawrence Norfolk, visto che è lo stesso pontefice di “Un Rinoceronte per il Papa”) – così come non so se personaggi come Peppe o l’inquisitore Tomaso della Croce o il maestro gnostico Andrea de’ Collini siano immaginari, o ispirati a personaggi reali (per non parlare degli altri personaggi: i freak del circo, o i dignitari e i cardinali della corte di Leone, o i ritratti che l’autore dà di Raffaello e Leonardo da Vinci – un giovane satiro il primo, un vecchio rincretinito il secondo): quello che conta è che la storia regga. E, a mio modesto parere, regge: le memorie di Peppe dipingono una Roma dissoluta e decadente, descrivono un mondo di inganni, depravazione e meschinità, ben lontano dall’insegnamento della Chiesa delle origini, e raccontano una vita difficile (anche nelle dorate stanze vaticane), la vita di un uomo intelligente, ironico e sensibile imprigionato in un corpo devastato – un uomo che trova una via di fuga dalle sue disgrazie nella speculazione filosofica. Qualcuno potrebbe lamentarsi – e immagino l’abbia fatto – dell’eccesso di depravazioni e violenze, vissute, subite o soltanto testimoniate, che costellano la carriera di Peppe: ma forse la cosa è voluta. Un po’ come nel Candido di Voltaire, dove l’eccesso di cattiveria e di assurdità della trama serviva a mettere alla berlina la teoria del “migliore dei mondi possibili”, qui veniamo condotti a porci la domanda chiave dello gnosticismo: “come è possibile che un dio buono e perfetto abbia creato un mondo così imperfetto e malvagio?”. Credo sia proprio questa la chiave del romanzo: il contrasto tra lo squallore e l’inutilità della vita quotidiana, l’ignoranza, la meschinità e la violenza degli uomini; e la luce che, invece, illumina l’interiorità, come una specie di rifugio o di scudo contro l’oscurità che ci circonda – o qualcosa del genere. Che poi funzioni o no, lascio a voi decidere: in ogni caso, questa è la ricetta del nano Peppe.


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La Città del Re Leucrotta – Cap. XIII

Attraverso le Foreste

 

Un paio di giorni dopo la carovana di Vronch giungeva a Oragalkh, una borgata che non valeva meglio delle altre, poco abitata, con capanne di canne e di fango e coi tetti di paglia, piantate su pali e disposte lungo la riva di un fiumiciattolo verdastro e limaccioso. La spedizione si stava per inoltrare attraverso i selvaggi territori dell’alto Fethrund, abitati da tribù quasi indipendenti, piuttosto avverse alla dinastia dei re coboldi.
Prima di prendere una decisione, Vronch, il dottore e Fang tennero consiglio coi quattro avventurieri. Il generale aveva proposto di assoldare dei coboldi del luogo come portatori e battitori, ma Baroz e i suoi compari non sembravano apprezzare l’idea, cosa che non mancarono di sottolineare piantando asce e coltelli nel tavolo attorno al quale si erano seduti. La proposta fu accantonata.
Erano le sei pomeridiane quando, prima del pranzo offerto dal governatore, lasciarono in fretta e furia la borgata, prendendo risolutamente la via dei grandi boschi, che dovevano ormai accompagnarli fino al lago di Zolph-Urplah.
Infatti il Fethrund settentrionale non è altro che una immensa foresta, dove i legnami più preziosi e le piante più ricercate crescono senza coltura alcuna, tanto sono fertili quelle terre mai sfruttate da alcuna coltivazione. I toglon crescono accanto agli alberi della carestia; gli alberi dell’olio, dell’aceto e della morte improvvisa insieme ai banani illusori ed ai funghi fluttuanti; gli ipnococchi mescolati ai tamarrindi, ai durz dalle frutta deliziose ma mortali, agli areca, ai sagaci ont contenenti una polpa velenosa che serve a fare un sacco di cose, agli alberi della ghisa e a quelli che dànno la polvere dell’aquila, qualunque cosa sia; ai tonkh dalle cui cortecce si estrae una specie di carta bollata; oltre a tanti altri che sarebbe troppo lungo enumerare.
Il taciturno signor Dinz, che assicurava di conoscere a menadito la regione, anche quella che si estendeva al di là di Oorblu, si era messo alla testa del drappello, mentre Fang si era posto alla retroguardia, per vigilare sui maiali che portavano i viveri, le tende, le coperte e le munizioni nonché le armi di riserva.
Il drappello dopo tre ore si trovò ben presto sui primi pendii di quella lunga catena di monti che serpeggia per il Fethrund centrale, unendosi con quella più massiccia di Kao-Fudog, e che divide il versante del Fulukh da quello più ampio dell’Ugla-Vald.
Foreste immense si estendevano dovunque, formate da una infinita varietà di alberi e popolate da miriadi di creature, che salutavano il passaggio del piccolo drappello con sberleffi, scrosci di risa, urla diaboliche e anche con una pioggia di frutta, rami e bulloni. Tutte le numerose specie che infestano le campagne e i dungeon della immensa penisola sembravano avere colà dei rappresentanti regolarmente eletti.
«Affrettiamoci a lasciare questa foresta,» diceva il dottore. «Ma… che cos’hanno i nostri maiali che continuano a fare degli scarti e ad impennarsi?»
«Si sentono mordere le zampe,» disse Dinz, che da qualche momento guardava attentamente a terra.
«Da chi?»
«Sanguisughe dei boschi.»
Il dottore abbassò gli sguardi e vide pullulare per terra, scivolando e balzando, delle variopinte sanguisughe, più sottili e più piccole di quelle comuni. Ve n’erano centinaia e centinaia, che cercavano di aggrapparsi alle gambe dei maiali con rampini e corde in miniatura.
«È un altro flagello delle nostre foreste,» disse Vronch. «Specialmente dopo la stagione delle piogge si moltiplicano spaventosamente, a segno che certe volte non si può più passare attraverso le selve umide.»
«Che salassi alle nostre gambe, se non fossimo a cavallo!» esclamò Eriprando. «Cioè, insomma, a maiale. Beh, ci siamo capiti.»
«Tra poco scompariranno, » disse Baroz. «Ecco la foresta asciutta che ricompare. Fristan, dove siamo?»
«Scendiamo nella valle di Gluneira,» rispose Dinz. «Là non avremo più da temere le sanguisughe, ma piuttosto le gorgoni.»
«Quasi le preferisco,» rispose il dottore.
«Contento lei.»
Oltrepassata la cima della prima collina, apparve dinanzi ai loro sguardi una valle che si prolungava tra due catene di monti. Era larga parecchi chilometri, disseminata di immensi alberi toglon che lanciavano le loro cime acuminate a sessanta e più metri ed ingombra qua e là di piccole jungle, formate da funghi smisurati e da piante spinose, luoghi favoriti da ogni sorta di mostro errante.
«Il passo che ci condurrà a Oorblu,» disse Baroz.
Fecero una breve fermata per prepararsi la colazione, poi qualche ora dopo cominciarono a scendere nella valle.
Dinz aveva raccomandato di avere le armi pronte e di tenersi lontani dalle macchie, entro le quali poteva celarsi qualche bestia. In mezzo ai toglon e fra le boscaglie che coprivano i due margini della valle, salendo fino alle più alte cime della collina, non si udiva rumore alcuno. Solamente qualche grido stridente, mandato da qualche tucanodonte, rompeva di quando in quando il silenzio.

Avevano già percorso un paio di miglia, tenendosi sempre in mezzo alla valle, quando improvvisamente udirono risuonare, fra i boschi che coprivano i fianchi della montagna più prossima, un grido strano, quasi metallico, che pareva fosse uscito più da qualche enorme strumento di ottone che dalla gola d’un animale.
Ullogh, udendolo, trasalì.
«Che grido è questo?» chiese il dottore. «Non è né il barrito d’una manticora in furore, né quel grido acuto che manda la bulette quando viene colpita a morte, né l’urlo del catoblepa quando, per motivi anche futili, avverte un certo fastidio.»
«Non saprei dirvelo,» disse Vronch, che appariva un po’ sorpreso. «Hai mai udito un grido simile, Fang?»
«No, padrone,» rispose questi, che ascoltava attentamente.
«E voi signori?»
«Solo un troll furibondo può averlo mandato,» rispose il nano.
«Ne ho cacciato più d’uno, eppure anche nelle loro cariche irresistibili mai li ho uditi lanciare un tale grido,» disse Fetedhras.
«Non so che cosa dire,» puntualizzò Salnighiel.
Si fermarono qualche minuto, sperando di riudire quella nota strana; poi ripresero il cammino.
La marcia nella valle, che diventava sempre più selvaggia, continuò fino a che il sole scomparve e le tenebre cominciarono a calare. Verso le nove Dinz diede il segnale della fermata, assicurando che in quei dintorni si trovava una fonte. Il luogo scelto per l’accampamento era ottimo, non essendovi che pochi alberi e nessun cespuglio dove si potesse nascondere qualche animale pericoloso: la vera foresta non cominciava che a quattro o cinquecento passi di distanza e si estendeva su uno spazio immenso, essendo la valle diventata larghissima.
Prima di alzare le tende, Salnighiel, armatosi d’una specie di sfera di cristallo, esplorò il suolo tutt’intorno al campo in cerca di trappole, serpenti e spiriti maligni; poi accese due fuochi e mise la pentola di rame – ormai priva dello spirito che conteneva – a bollire.
Mentre lui e Dinz preparavano la cena, il dottore con Fang e Vronch, andò a fare raccolta di banane illusorie e di pistacchi, avendo scorto parecchie di quelle piante sul margine della foresta.
«Io credo che abbiano esagerato,» disse Eriprando mentre tornavano carichi di frutta. «Non si ode alcun animale qui, ed in quanto alle gorgoni, le credo ben lontane.»
«Io però non oserei cacciarmi da solo in queste foreste,» rispose Vronch, «e specialmente di notte. Quando meno la si aspetta, la gorgone compare. Sono animali astuti, dottore, che assaltano solo a colpo sicuro.»
«Eppure non rinuncio all’idea di recarmi a visitare la foresta assieme agli altri. Salnighiel mi ha parlato di una sorgente qui vicino, dove si possono trovare erbe particolari e funghi dalle proprietà straordinarie.»
«Non penserete che vi accompagni anch’io, dottore?» chiese Ukhurra.
«No, certo che no,» disse il generale. «Una… ehm, donna si trova troppo impacciata nelle folte foreste e nelle jungle.»
«Non sarebbe prudente, è vero, generale?» disse Eriprando. «La caccia notturna è ben più pericolosa di quella diurna. Le occasioni non mancheranno per far roteare la vostra mazza da cricket.»
«Ne avremo forse perfino troppe,» disse Vronch.
Quando tornarono, la cena era già pronta. Il dottore mangiò in fretta qualche pistacchio (anche perché le banane illusorie erano puntualmente svanite), cambiò carica alla carabina, si passò nella fascia un lungo coltellaccio e s’alzò, dicendo agli avventurieri: «Signori, quando volete io sono pronto.»
«E la signora?» chiese Baroz.
«Rimarrà al campo.»
Il nano fece un segno d’assenso, poi disse: «Seguitemi, signore.»
«Siate prudente, dottore,» disse Vronch. «Se non vi fossero i maiali da guardare, vi accompagnerei, ma ci tengo a non perderli. Desiderate che Fang vi segua?»
«È inutile, generale; d’altronde la nostra assenza non sarà lunga.»
«In caso di pericolo, sparate tre colpi a brevi intervalli.»
«Siamo d’accordo: buon riposo.»

Pochi minuti dopo, i cacciatori si trovavano nella foresta, la quale non era, almeno sul principio, così folta come l’avevano creduta, poiché le piante crescevano a gruppi staccati. Dinz, che doveva conoscere quei luoghi a menadito e che, come la maggior parte dei raminghi, aveva l’istinto dell’orientamento, si diresse verso la montagna, quantunque, trovandosi sotto quelle altissime piante, non potesse scorgerla.
Si era messo dinanzi al dottore, tenendo il fucile sotto il braccio e la sinistra sulla lunga impugnatura del suo coltellaccio a lama larga e quadra, tagliente come un rasoio. Camminava senza parlare, come se fosse assorto in un profondo pensiero; e si capiva che si teneva in guardia, perché di quando in quando girava il capo a destra ed a sinistra, curvandosi ora da una parte e ora dall’altra per meglio raccogliere i più lievi rumori, impresa del resto impossibile visto il baccano prodotto dagli altri.
La foresta invece era silenziosa, come se nessun essere vivente la popolasse. Non si udivano né grida di bestie notturne, né sibili di serpenti, né stridore di lucertole volanti, che pur sono così numerose nelle selve d’Oriente.
Avanzarono così per circa mezz’ora, girando attorno a macchioni di brung e di toglon, finché giunsero su un terreno umidissimo, ingombro di enormi funghi.
Il gruppetto si arrestò.
«È questa la famosa sorgente?» chiese il dottore.
«Non direi proprio,» rispose il nano. «Ma non importa. In realtà il motivo della sosta è un altro.»
Fetedhras afferrò il dottore per la collottola, mentre gli altri si avvicinavano con aria alquanto minacciosa.
«Allora, dottore. Di che cosa voleva parlarci?» chiese il nano, con voce melliflua.
«Io? Ehm… beh, si, in effetti…» annaspò. «Non volevo che i tre coboldi ci sentissero… ehm… il fatto è che ho una proposta da farvi.»
«Siamo tutt’orecchi.»
«Vedete… ehm… il fatto è che c’è stato un terribile equivoco.»
«Ma pensa.»
«Ehm… si. Per quanto sembri strano, i soldi non stanno davanti a noi, ma dietro.»
«Ah, si?»
«Esatto. Noi non – e sottolineo non – abbiamo nessuna intenzione di arrivare fino alla leggendaria città perduta. In realtà non volevamo neanche partire.»
«A costo di ripetermi: ah, si?»
«Si. E per favore, mettete giù quell’ascia. Ci siamo imbarcati in questa spedizione nella speranza che la vecchia ci schiattasse. Capite, una banale questione di eredità.»
«Capisco perfettamente. E quindi, di grazia, che cosa ci proponete?»
«Beh, è semplicissimo. Non possiamo, cioè potete, eliminare la vecchia come da precedente accordo e tornare con noi tutti insieme a Kuglurg a riscuotere? Eh?»
«No.»
«Come no? Suvvia, ragazzi, pensateci bene. Da una parte un viaggio nella foresta verso una meta incerta e perigliosa. Dall’altra un lavoretto semplice semplice come rubare le caramelle a un coboldo.»
«Beh, Baroz,» disse Salnighiel, «Messa così non è neanche poi male.». Fetedhras e Dinz annuirono convinti.
«Gente, mi meraviglio di voi,» stava dicendo Baroz. «E così vorreste dar ragione a questo spaventapasseri? A questo ci siamo ridotti? Rapinare una vecchia?»
«Beh, non sarebbe la prima volta,» fece notare Fetedhras.
«Ma che c’entra? Stiamo parlando di avventura! Esplorare, trovare, conquistare… massacrare. È ben più che una semplice rapina! È questo, ciò che siamo? Rapinatori?»
«Uh, Baroz, dobbiamo sempre finire a parlare di questo?»
«Avventurieri! Ecco ciò che siamo! Noi non lo facciamo per i soldi! Noi non lo facciamo per la gloria! »
«Scusa se interrompo,» disse Dinz, alzandosi. «Vado a dare un’occhiata in giro. C’è qualche bestia, qui attorno, e non vorrei che interrompesse il tuo monologo.» Si allontanò.
«Va bene, va bene,» acconsentì il nano. «Parliamone. Ma prima, Mamuc, metti a dormire il vecchietto.»
«Come vuoi. Buona notte, dottore.» Salnighiel puntò le dita verso Eriprando e borbottò una parola. Il dottore cadde a terra come un ciocco.


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Tito di Gormenghast

il signor Lisca, suppongo.
La Rocca di Gormenghast è un immenso castello; e quando dico “immenso” intendo una vera e propria città di pietra: chilometri e chilometri di corridoi, migliaia di sale, cantine, gallerie, torri, scalinate, ripostigli, biblioteche, un luogo talmente smisurato che nemmeno i suoi abitanti lo conoscono fino in fondo. Gormenghast è un regno totalmente isolato dal mondo esterno: la sua stessa mole lo rende autosufficiente, e la foresta che lo circonda lo fa somigliare a un’isola in mezzo al mare. Tutto questo isolamento ha degli svantaggi, però: il principale dei quali è il grigiore, la vecchiaia, la polvere e le ragnatele di secoli di autarchia. Le consuetudini diventano regole, e poi leggi; e, stravolte da generazioni di passaparola, se ne perde completamente il significato originario. Il Conte, per esempio, un dato giorno dell’anno, deve salire quattro volte in cima a una torre e incidere una tacca sul fondo di un vecchio armadio. Perchè? Chi lo sa? Ma si è sempre fatto così: e un gesto che qualcuno fece per chissà quale motivo, è ora divenuto legge immutabile. Il Conte di Gormenghast non può fare altro che piegarsi alla legge, e cercare nella sua polverosa biblioteca un qualche scampo da questa tetra pantomima. E’ molto teatrale, infatti, l’impianto della Trilogia di Gormenghast (una trilogia, fra l’altro, in due volumi – il terzo non è mai uscito in italiano ma è a tutti gli effetti una storia a parte): sul cupo palcoscenico del castello si alternano bizzarri personaggi: dal Conte Sepulcrio alla sua immensa consorte Gertrude, sempre circondata da un fluffoso esercito di gatti bianchi; al loro scheletrico maggiordomo Lisca; e poi lo stralunato Dottor Floristrazio, il giovane e perfido Ferraguzzo, la Contessina Fucsia e altri ancora. Chiusi in questa immensa gabbia di pietra vivono secondo regole secolari e incomprensibili, dettate dal maestro di cerimonia, il vecchissimo Agrimonio, per il quale la fedeltà al rituale è tutto. Ma la nascita dell’erede al trono, il piccolo Tito, sembra mettere a repentaglio la secolare immobilità del castello. “Tito di Gormenghast” e il suo seguito, “Gormenghast”, sono due romanzi strani. Intanto perchè il piccolo Tito, nel romanzo cui dà il titolo, praticamente non compare: la storia narra di eventi che accadono durante il suo primo anno di vita. E poi perchè non si può dire che abbiano una trama intensa e piena di colpi di scena, o che siano particolarmente “fantasy” nel senso di strane razze, popoli esotici, mondi fantastici: tutt’altro. Il mondo di Gormenghast è tetro e sonnolento, opprimente, polveroso, fatto di sottoscala dimenticati, vetri rotti, tappezzerie scrostate, vecchi maggiordomi rincretiniti, rituali incomprensibili, giochi di potere e antichi rancori che incancreniscono fino ad esplodere. Eppure è proprio questo il fascino di questi romanzi, un fascino muffoso, per carità, che magari non piace a tutti. A me si. In realtà par di capire che nel Regno Unito questi romanzi di Mervyn Peake abbiano riscosso un discreto successo, dall’epoca della Gormenghast - visto da Ian Millerloro prima uscita – negli anni ’50 – visto che la BBC ne ha realizzato una miniserie in 4 episodi (con Cristopher Lee nella parte del maggiordomo Lisca); e ne è anche stata realizzata una versione teatrale che sarei curioso di vedere. Ma a parte questo: se volete un fantasy diverso dalle solite minchiate da giochi di ruolo, fate un tentativo. A parte l’ambientazione (il castello di Gormenghast è in effetti il personaggio principale della storia), i personaggi sono memorabili, dal primo all’ultimo (il perfido Ferraguzzo è il cattivo più cattivo più perfidamente e totalmente cattivo che abbiate mai incontrato, ve lo assicuro): ma è soprattutto l’atmosfera che pervade tutta la storia ad essere unica. Gormenghast vi aspetta.


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Il Calendario di Frate Cazzaro – Dicembre 2007

0712mese Dalle memorie di Frate Cazzaro
Fu nell’estate del ’22 che mi accorsi per la prima volta di avere sei gambe. Di rana. Si trovavano nel comodino della stanza di mia nonna, probabilmente dimenticate dalla vecchiaccia al ritorno dalla campagna di Russia. Sì, mia nonna aveva fatto la campagna di Russia, era partita piena di entusiasmo un luminoso mattino di primavera ed era tornata mezz’ora dopo con una medaglia al valore e sei gambe di rana.
0712calendario Il Fantasma delle Minchiate Future
arriva la notte portando una scure incute timore e mette paure financo nel cuor delle genti più pure. A sguardo inesperto pare nemico, eppure a volerlo guardare senza timore risulta evidente: Non mangia verdure

Mazzate.com
Ingredienti:
mazzate (minimo 25%), zucchero di canna, sciroppo di Gustavo, cazzate di noci, polvere di cazzate, cazzate intere, lecitina di folaga, ammorbanti, emollienti e coadiuvanti E4, E5, Evvai, sambuco. Conservare in luogo fresco, asciutto e temperato. da consumarsi preferibilmente entroterra.

Le Babbucce di Zinco
Romanzo in 2648 puntate di 11 parole ciascuna
– cap. 9 –

Ciccio Ciccinovic Rintintinsky, Mimo dell’Inferno, col suo corteo di criceti mannari

La Zia della Blatta Parlante
cerca di disinfestare la casa dagli umani senza riuscirci. Qualcuno la chiami per consolarla che io ora ho da fare.

Il Gran Parco Nazionale De’ Minchioni
non è molto noto, sebbene sia l’unico luogo al mondo dove è possibile ammirare i rarissimi Saltimbecchi abbeverarsi alle acque del fiume senza timore del feroce quandecco predatore. Oramai vietata ovunque, la caccia al saltimbecco ha avuto come conseguenza un forte depauperimento delle risorse culinarie della Cucumbria. Infatti non si trovano più nei ristoranti i gustosissimi Saltimbecchi alle erbe di Provenza, o il Saltimbecco coi poponi freschi (per non parlare degli ovvi saltimbecchi alla romana).

 

0712semina

Il Santo del mese.

 

S. Briciolino: tutti conoscono la leggenda di S. Briciolino, per cui possiamo discutere qui dei fatti meno noti riguardanti gli anni trascorsi dal santo nelle carceri del pianeta Sedia, dove i feroci Sediani, guidati dal re Sgabellotron il Magniloquente, lo avevano rinchiuso invidiosi delle sue forme aggraziate. Il soave S. Briciolino sopravvisse alla terribile prigionia cibandosi dei suoi compagni di cella (dopo averli battezzati, ovviamente) e fuggì scavando un tunnel che lo portò direttamente in Lapponia.

0712santo Ordini dall’alto

 

Il pigro è simile a una pietra imbrattata,
ognuno fischia in suo disprezzo.
Il pigro è simile a una palla di sterco,
chi la raccoglie scuote la mano.

Siracide 22, 1


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Il Dilemma di Benedetto Sedicesimo

benedettoIl recente arrivo in Italia del Dalai Lama, e il fatto che nessun rappresentante politico e religioso sembra aver intenzione di filarselo anche solo un pochettino, mi ha fatto tornare in mente – chissà perchè – questo vetusto numero 745 di Urania, pubblicato nell’ormai dimenticato 1978. Si tratta di una collezione di racconti di vari autori, dei quali ce ne frega poco o nulla, diciamolo, sebbene ci sia anche Asimov, perchè quello che ci preme è quello che dà il titolo alla raccolta: “il Dilemma di Benedetto XVI”. Ora, se molta gente, il giorno della nomina di Ratzinger a Sommo Pontefice ha provato un vago brivido di inquietudine immaginando (ma solo immaginando, eh?) la svolta oltranzista che la Chiesa avrebbe potuto (ma solo potuto, eh?) intraprendere, molti appassionati di SF, alla notizia che proprio Ratzinger era stato nominato Papa e proprio col nome di Benedetto XVI devono essersi esibiti in gesti scaramantici tipo corna e toccate di sacri ammennicoli degni di cause migliori. Si, perchè in questo racconto il Papa è a capo di una chiesa intransigente e severa e soprattutto dotata di armi atomiche. Proprio per evitare che il Vaticano scateni una catastrofe mondiale, dichiarando guerra allo stato nazista di Anderstraad, il dottor Steinmann, psichiatra, viene invitato ad eseguire una serie di esami sul cervello dell’anziano Pontefice per rispondere a questa domanda: Benedetto XVI è sano di mente? Ma nel passato di Steinmann si nascondono tragici segreti che lo legano a doppio filo proprio al regime di Anderstraad: perchè è stato scelto proprio lui? Sarà in grado di mostrarsi imparziale, o dietro alla sua scelta c’è un secondo fine? Trent’anni fa questo racconto era soltanto uno di quei tanti racconti di SF che si ispiravano alla Chiesa Cattolica più che altro come esotica ambientazione, tipo “Buone Notizie dal Vaticano”, in cui viene eletto un Papa robot (!)… oggi questo racconto assume tutta un’altra colorazione, che immagino al suo autore, Herbie Brennan, non sarebbe mai passata per la testa. Fa sorridere la nota in quarta di copertina, che recita “nel 1978 crediamo di poterlo presentare senza il rischio di offendere minimamente nessuno”. Ho come l’impressione che i tempi siano un po’ cambiati. Oggi Ruini e Bagnasco raderebbero al suolo la redazione di Urania a colpi di kick-boxing. Eh si, la realtà supera sempre la fantasia. E con questa perla di saggezza degna dell’Asceta Balsamico, vi saluto.

PS: gli altri racconti sono più o meno innocui. Ce n’è uno di Asimov, sui Vedovi Neri se non ricordo male, uno sui viaggi nel tempo e così via. Bello “Il Posto senza Nome”, di Raylin Moore.
PPS: “Il Dilemma” eccetera è postato per intero qui. Così potete leggervelo anche voi.


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