Fatelo da voi! Sì, siamo pigri. E allora?
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di Orazio Cacatullo Primo Scipione D’Aquitania (1824-1908)
dall’Aria “L’avvento dell’ortaggio nella terra di Guglielmothep” dell’opera lirica “Openofis” o “La Melanzana del Nilo”
Oh melanzana di bianco vestita,[1]
che dagli alieni sei stata rapita,[2]
ci lasci così, affranti e tapini,[3]
privi di chele e dei tuoi bei semini![4]
Ma un giorno felice ti rivedrò ancora[5]
e garruli e lieti fino all’aurora[6]
insiem danzeremo in letizia e armonia[7]
finché non arriva la polizia.[8]
Segue l’Aria “La Melanzana nell’Ospizio d’Estate” in cui Melanzania e le sue ancelle giungono ad Alessandria d’Egitto.
1- Il Cacatullo fa qui riferimento alla festa dell’Esultazione degli Ortaggi che si teneva 12 giorni dopo il supplizio di primavera sulle rive del Nilo presso le piramidi di Ghisa. Festa in cui le melanzane venivano raffigurate di bianco a ricordare il loro colore originale, quando, ancora pure e immacolate, pascolavano in vasti branchi allo stato brado sotto il benevolo sguardo degli dei nella leggendaria terra Melanziland.
2- Questo verso fa riferimento al noto “ratto della melanzana”, con cui i poveri ortaggi furono fatti ostaggi da ostili selvaggi (la poesia è sopra, non fate confusione) e venduti come schiavi lungo le rive del Nilo.
3- I poveri Melanzani, Pastori di Melanzane, abitanti di Melanziland.
4- Le chele si riferiscono ai Giganti Granchi Pastori di Melanzane, enormi crostacei che venivano usati dai popoli Melanzani per tenere a bada i branchi di melanzane. Conseguenza del ratto delle melanzane fu l’estinzione dei Giganti Granchi Pastori che si nutrivano solo di melanzane. I semini invece si spiegano da sè, specialmente se fumati.
5- A parlare è Liopsido Magno, il sultano di Melanzanzibar, capitale di Melanziland, che nel ratto delle melanzane aveva perso la sua amata Melanzania, principessa dei pascoli delle bianche melanzane.
6- Come è noto Liopsido Magno e Melanzania amavano passare insieme le ore della notte intessendo stufe di ghisa, intrecciando carole, cantando soavi melodie e pogando ai rave party della discoteca L’Aurora. Pertanto l’aurora rappresenta l’alba di un nuovo giorno in cui Liopsido Magno e Melanzania saranno di nuovo uniti.
7- e pogando… alla discoteca.
8- Le serate d’amore di Liopsido Magno e Melanzania erano sovente interrotte dall’avvento delle forze dell’ordine.
Dopo ciò Pipinello Cenci il primo de’ Canonici tenendo con due dita dell’una, e l’altra mano il Sagrosanto Prepuzio, provossi a premerlo per scorgere se fosse arrendevole, o nò. E mentre troppo incauto con troppo vigore il compresse, lo divise in due parti, rimasta l’una della grossezza d’un picciolissimo Cece, l’altra d’un granellino di seme di Canapa: Oh prodigio! Oh stupore! Sembrò sdegnarsi a quel fatto il Cielo, oscurandosi d’improviso l’Aria, sparita, a giorno altrove chiarissimo, da quel sito ogni luce, aggiuntovi l’orrore di tuoni, e folgori, ed accresciuto lo spavento, da cui parevan i Circostanti ridotti all’agonia.
Chiunque abbia avuto la ventura, come il sottoscritto, di nascere e crescere in una casa piena di libri (salvo poi chiedersi chi diamine ce li ha messi, visto che sei l’unico che legge, in quella casa), li conosce: quei libri strani, austeri, dall’aria terribilmente interessante e impegnativa che ti guardano dall’alto di uno scaffale impolverato con evidente aria di superiorità, come se dicessero “Dài, prova a leggermi. Cos’è, hai paura? Tsk.” – Questo “Nati sotto Saturno” è uno di quei libri: ci siamo guardati in cagnesco per decenni, finchè è diventata una questione di principio. E quindi mi sono rimboccato le maniche e le meningi e ho messo mano a questo ponderoso tomo, che ruota attorno a una domanda: esiste una “personalità artistica”? Un insieme di caratteristiche mentali e caratteriali, costanti nella storia, che definiscano “l’artista” in quanto tale? No. I coniugi Wittkower, con zelo ed entusiasmo tipicamente teutonici, setacciano le biografie di centinaia di artisti, oscuri o famosi, eccelsi o mediocri, bizzarri o banali, per sfatare il mito che vuole l’artista, appunto, “nato sotto Saturno”, ovvero melanconico, geniale, al di fuori delle leggi e delle regole, eccessivo. Un artista è prima di tutto un essere umano, e come tale fa storia a se; ed è un prodotto del suo tempo e del suo ambiente (così come l’immagine che si ha di un artista varia a seconda dell’epoca dalla quale lo si guarda: ne fanno esempio gli assurdi – e comicissimi – giri di parole con cui nell’Inghilterra vittoriana si traducevano le lettere di Dürer, affinchè le dame della buona società non fossero colte dal vago sospetto che si stava parlando di ubriachezza molesta, scherzi da osteria e prostitute di quarta categoria). E questo è quanto, ed è abbastanza rassicurante poichè, essendo anche il sottoscritto “nato sotto Saturno” per vicissitudini astrologiche e caratteriali, avere dell’artista le caratteristiche ma non il talento sarebbe stata una terribile ingiustizia. Di persone di talento, invece, ne è pieno questo libro – che fra l’altro si legge che è un piacere; storie di gentiluomini e farabutti, avari e prodighi, timidi e maneschi, alchimisti e negromanti, santi e bestemmiatori e chi più ne ha più ne metta. Del caratteraccio di Michelangelo, per esempio, se ne è parlato in abbondanza; così come di Dürer; dell’ascetico Leonardo, del tormentato Caravaggio, dell’impeccabile Reynolds… ma non di Franz Xaver Messerschmidt.
Il quale, nella sua stanzetta a Bratislava, mentre il ‘700 volgeva al termine, si dedicava a scolpire pregevoli opere tardo-barocche nonchè una surreale, fantasmagorica, assurda e incomprensibile serie di sessantanove “teste di carattere” – volti umani, tecnicamente impeccabili, contorti in smorfie e boccacce di ogni genere. Perchè? Perchè era matto come un cavallo.
«Il suo peggiore tormentatore era lo spirito della proporzione. Messerschmidt aveva enunciato un’intricatissima teoria sulle proporzioni umane, il cui segreto era contenuto nell’Hermes egiziano. Lo spirito della proporzione, geloso delle strabilianti scoperte dello scultore, gli infliggeva dolori in varie parti del corpo, e il Messerschmidt, conoscendo le misteriose relazioni tra certe parti del corpo e talune parti della faccia, doveva darsi dei pizzicotti qua e là e poi fare la smorfia giusta davanti a uno specchio, per spezzare il potere che lo spirito aveva su di lui.
Soddisfatto di questo sistema egli risolse di rappresentare le proporzioni delle sue smorfie a beneficio della posterità.». E noi, nati sotto Saturno, di questo lo ringraziamo.
L’Incantata Foresta della Gioia e della Soave Letizia è un luogo sereno e pacifico, dove chiunque, siano essi nani, troll, umani o ragionieri, può trovare un angolo di pace e un soffio di tranquillità (qualsiasi cosa significhi).
Nell’Incantata Foresta della Gioia e della Soave Letizia si trovano anche diverse attrazioni. C’è Popi, il troll giocoliere, che fa ruotare nell’aere le mazze chiodate, c’è Confucio, che per soli venti copechi illuminerà la vostra vita con un profondo ancorchè incomprensibile aforisma, c’è financo un baracchino che vende squisiti gelati alla frutta e un signore con un vecchio pony su cui è possibile fare un giro per pochi soldi. E poi sulla strada che porta alla foresta, all’incrocio con via Settembrini, c’è una teca in cristallo. Contenente una fanciulla addormentata e recante un cartello con scritto “Non toccare! E per l’amor di Dio non aprire mai! Ho detto mai!”
Un giorno per l’Incantata Foresta della Gioia e della Soave Letizia si trovava a vagare Asfonzo, Principe di Danimozia. Egli era scontento del fatto che Procopio, suo cugino, aveva chesto in isposa Babbozia, la fanciulla più bella di Danimozia. In preda a tale irreparabile scontentezza aveva chiesto consulta e conforto alla vecchia maga Fallacia la quale lo aveva ammonito con le parole “Se è una sposa che cerchi, va nell’Incantata Foresta della Gioia e della Soave Letizia, ma poi non venir a rompere il cazzo alla sottoscritta”.
-E come ci arrivo?
Aveva chiesto perplesso Asfonzo.
-Puoi prendere la 94 e poi il 33, mi pare.
Aveva risposto la maga prima di svanire in una nuvola di fumo (il giorno seguente si scoprì che la nuvola di fumo era in effetti una fuga di gas della cucina della maga, la quale era perita quella sera stessa nell’esplosione che distrusse il suo condominio.)
Vagando per l’Incantata Foresta della Gioia e della Soave Letizia, Asfonzo si fermò da Confucio, pagò i venti copechi e ricevette in cambio un piccolo talloncino recante la scritta “Non mi pare una buona idea”.
Ciononostante Asfonzo, che non era noto per la sua sagacia, si addentrò vieppiù nella foresta e si smarrì.
Camminò per ore, poi ciondolò per giorni, infine errò per settimane finchè incontrò una donna nana che passeggiava con espressione vacua sul volto e cantava “Finchè la vaga va” con voce stonata.
– Chi tu sei? – le chiese.
– Io sono la vaga Vagò! – rispose ella interrompendo il suo orribil canto.
– Ohibò! Piacere d’incontrarla signorina, io sarei Asfonzo, principe di Danimozia.
– Sticazzi. – rispose la donna.
– Oh che tu ci fai in codesta foresta? – le chiese Asfonzo.
– Boh, cose, sai com’è…
– E donde ti rechi?
– Mah… di là, credo… boh…
– Perdiana! Vaga sei vaga mia cara Vaga.
– Eh, sai com’è…
– Ascoltami dama! E’ che mi son smarrito, maremma maiala, e non so più come uscire da siffatto bosco. Puoi tu forse aiutarmi?
– Mah, forse… cioè, non saprei… magari…
– Da che parte devo andare? Orsù tu dimmi.
– Boh… di qua o di là, che differenza fa?
– Vabbè. Grazie, davvero. Allora noi si va. Arrivederci. – concluse Asfonzo facendo per andarsene.
– Solo una cosa ancora ti devo dire! – lo fermò la Vaga.
– Ossignora! Fa che sia cosa precisa, però, per favore.
– Mah… non so.. ci provo, cioé… ma non sono sicura… sai…
– E va bene Vaga, sii vaga.
– Ecco… è che… cioè boh… ma a un certo punto, mi sa che non va un cazzo bene.
– Ah! Beh! Tutto chiaro. Grazie. I nostri omaggi.
Asfonzo salutò e se ne andò perplesso e dubbioso. La donna si disse tra sè e sè “Boh… cioè, io gliel’ho detto.. poi boh” e tornò a vagare per il bosco cantando.
Asfonzo camminò ancora a lungo finchè, stanco e stremato, raggiunse il baracchino dei gelati. Comprò un cono al tamarindo e si sedette su una panchina a riposare un poco. Stava giusto finendo il gelato quando l’uomo col pony comparve da dietro un albero.
– Ehi! Voilà! – lo chiamò Asfonzo.
L’uomo col pony si fermò perplesso, si guardò attorno, non vide nessuno e quindi si rivolse ad Asfonzo con espressione interrogativa.
– Mi?
– Ohibò! Sì voi! Eccheddiamine! Perdonate l’ardire uomo col pony ma ci saremmo persi in questo fitto bosco e non sappiamo più donde menar lo naso.
– Eh?
– Orsù tu dimmi, come si esce dalla foresta, buon uomo?
– Ah! Ti ghe vuol sapere come uscir dal parco, ne?
– Bravo. L’hai detto uomo.
– Eh! Ma mi non lo so minga come si fa. Son vissuto sempre qui. Ma il Brambilla qui, il Brambilla l’ghe il mio pony, lui lo sa. Sì, sì.
– Ohibò! Lo cavallo nano saprebbe condurmi quindi?
– Sicuro. Per venti copechi te lo affitto per mezz’ora. Quando sei fora del parco me lo lasci libero che lui torna preciso preciso.
– E sia buon uomo. Eccoti la pecunia, molla il ronzino che s’è fatta una certa ora.
E fu così che Asfonzo si fece condurre dal pony. Il quadrupede sapeva invero il fatto suo poichè in men che non si dica condusse il suo condotto fuori dalla foresta. Il destriero stava per svoltare in via Settembrini per lasciar Asfonzo alla fermata del tram quando un riflesso colpì l’occhio del principe che vide la teca. Di cristallo. Con la dama. E la scritta.
Ahimè lo sventurato non fece caso alla scritta, invece si avvicinò e, abbagliato dal riverbero, aprì la teca.
Sciagurato.
In un attimo la soave donzella (dall’aspetto di foca e del peso approssimativo di 170 chilogrammi), mostrando un’inaspettata agilità, balzo fuori dalla vitrea prigione e si guardò attorno.
– Porcaputtanatroia quanto ho dormito sta volta! E tu chi cazzo saresti?
– Ma… veramente… io sarei il principe As…
– Oh un principe! Perfetto! Vuoi vedere che per una volta fila tutto liscio.
– Ehm… in che senso?
– Lascia perdere, imbecille. E sposami. Adesso!
– Sposarti? Ma non c’è neanche un prete…
– Un prete? E che ce ne facciamo quando possiamo professare il nostro amore davanti a Dio!
– Ma veramente…
– Io lo voglio! – urlò la fanciulla con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
– Ma non credo che basti…
In quel momento una voce potente e baritonale si fece udire dall’alto dei cieli.
– E allora io vi proclamo marito e moglie!
– Ma… – fece per protestare il principe ma la voce profonda e cavernosa si fece sentire di nuovo, stavolta sussurrando.
– Mi spiace, figliolo. L’hai svegliata? Ora son cazzi tuoi.
Asfonzo alzò la testa al cielo con espressione supplichevole e vide che la voce proveniva da un inquilino del secondo piano il quale, dotato di megafono, li osservava dal balcone.
Nel frattempo la principessa si era già avvicinata al bianco destriero del principe, il Brambilla, il quale pareva riluttante a volerla condurre.
– Vieni qui pidocchio!
– Pinocchio? No tu confondi…
– Pezzo di idiota! Aiutami a salire su ‘sto ronzino dei miei coglioni e portami al nostro castello.
– Oh che quello gli’è mica il mi cavallo. Io son venuto a piedi. Il cavallo debbo lasciarlo al signore del parco tra dieci minuti.
– Oh porco cazzo! Ragazzo mio inizi malissimo! Taxi!
La donzella chiamò una carrozza mercedes a 300 cavalli e salì.
– Andiamo al castello di questo imbecille. – intimò al conducente.
E così Asfonzo passò i dieci anni successivi vessato dalle angherie della Belva Addormentata in Via Boscovich (come la chiamavano i sudditi di Danimozia), osservando mesto la lieta storia d’amore tra Procopio e Babbozia, che nel frattempo avevano avuto undici pargoli sani e pasciuti. Procozia, Babbopio, Bacozio, Probozia, Prabbozio, i gemelli Babbozio Primo e Babbozio Secondo, Prabbozia la Svelta, Probbopio, Brabbocozia e Pino.
Ai viandanti che lo vedevano errare afflitto per le contrade della Danimozia e chiedevano chi fosse quel mesto figuro la gente rispondeva:
– Egli è il nostro Principe. Non volle ascoltar i consigli della vecchia Maga Fallacia, di Confucio e financo della Vaga Vagò ed è finito vittima della sua stessa idiozia.
Tuttavia per solito Asfonzo non vagava tanto perché al grido di “Dove cazzo ti sei cacciato cretino!” la sua dolce consorte lo richiamava tosto ai suoi doveri.
E così vissero. In qualche modo. Per qualche tempo. Come tutti d’altronde.
Morale:
Boh… cioé… forse è che… insomma avete capito, no? No? Vabbè, allora per oggi niente morale. Ecco.