… e intanto il sistema solare prosegue la sua folle corsa nell’infinito, mentre sulla terra carrettate di assessori del pd vengono arrestati ogni mattina, Bettie Page ci ha lasciato e migliaia di persone ci scrivono ogni giorno (attenzione! una di queste affermazioni potrebbe non essere vera!) per chiederci quali sono, a parte Tutti a Zanzibar, i Sommi Capolavori della Fantascienza. Beh, uno su tutti: Hyperion (l’altro è Dune). Dunque: Hyperion, di Dan Simmons, racconta le vicende di un gruppo di personaggi, vicende che ruotano attorno a un misterioso pianeta che guardacaso da il titolo al romanzo. Detta così non sembra granchè, ma possiamo fare di meglio. Intanto perchè l’ambientazione che Simmons mette in piedi è spettacolare per ampiezza, originalità e dettaglio: un universo futuro in cui la razza umana ha colonizzato centinaia di pianeti, con l’aiuto di onnipotenti Intelligenze Artificiali… ehm, anche questo, a ben vedere, non sembra il massimo dell’originalità. Però ognuno dei personaggi a un bel momento si siede e ci racconta la sua storia (a questo punto, chiunque recensisca Hyperion – anche se sembra che non sappia di cosa sta parlando – deve citare i Racconti di Canterbury), e questo è il primo punto di forza del romanzo: dal thriller cyberpunk dell’investigatrice, al dramma scèxpiriano del poeta, al commovente racconto filosofico del professore, alla storia di guerra, sesso e mazzate del colonnello, ognuna di queste storie-nella-storia starebbe in piedi perfettamente da sè, ma nell’insieme contribuiscono a descrivere l’universo dell’Egemonia (il nome dello spazio colonizzato dagli umani – è tradizione che ogni scrittore di space opera dia un nome buffo al suo impero galattico, tipo la Cultura di Banks) e a dare un senso di ampiezza alla trama che più che a una linea comincia ad assomigliare a una ragnatela. Comunque sia, poi, il secondo e vero punto di forza di Hyperion, quello per cui Simmons sarà ricordato negli annali della fantascienza, è lo Shrike: il mostruoso incubo biomeccanico che si aggira su Hyperion, una cosa che non sapremmo neanche da che parte cominciare a descrivere, se non dicendo che farebbe venire le convulsioni anche a HR Giger; in un modo o nell’altro, le vite dei personaggi ruotano attorno a Hyperion, ciascuno coi suoi segreti e le sue speranze, i suoi amici e nemici, e tutti insieme dovranno affrontare lo Shrike e svelare il mistero che Hyperion nasconde. Ok. Avremmo potuto scrivere di più e meglio, ma oggi va così. Possiamo dire però che questo è davvero uno dei Capolavori della Fantascienza. L’ampiezza, l’originalità, i personaggi, la trama, l’idea stessa che sta alla base di tutta la storia e che si riesce a intravedere soltanto alla fine del seguito (la Caduta di Hyperion) – beh, dateci retta, provate e poi verrete a ringraziarci. Senza contare il fatto che il finale del primo volume è uno dei più belli che la storia ricordi (opinione personale). Qui, qui , qui e qui e financo qui altre recensioni entusiastiche e più approfondite; qui, invece, una un po’ più critica che però loda la copertina dell’edizione Mondadori (a nostro avviso banale e con un lettering da terza media, così, per dire).
E fin qui.
In realtà la cosa è andata più o meno così. Ci è venuto in mente Hyperion proprio ora (a parte il discorso che è uno dei SCDF e quindi era giusto menzionarlo in queste pagine) per una faccenda che nel libro riveste una parte assai importante ma che se vi raccontiamo non roviniamo nulla, per cui non ci sentiamo in colpa. Ci troviamo dunque a leggere i diari di un prete cattolico, Paul Durè, che viene mandato in missione proprio su Hyperion e scopre una minuscola popolazione di aborigeni che – miracolo! – adorano la croce. Gesù Cristo li ha forse visitati? Indagando, padre Durè scopre che la croce che i Bikura – questo il nome degli abulici e non troppo svegli aborigeni – adorano rappresenta un orrendo parassita, il Crucimorfo, che ogni Bikura porta incollato al proprio petto e che lo stesso prete finisce volente o nolente per trovarsi attaccato addosso. Questo Crucimorfo ha una proprietà assai interessante: rende il proprio ospite immortale. Ogni ferita o malattia, per quanto grave, guarisce – più o meno – e persino la morte, per una caduta, un’aggressione, un incidente, è una condizione temporanea: i Bikura vivono in eterno. Poi, sarà l’inesorabile accumularsi dell’entropia, sarà che il Crucimorfo non è onnipotente, sarà per gli stessi motivi che Borges ha descritto nell’ “Immortale”, sta di fatto che dopo millenni quella dei Bikura non sembra affatto una condizione invidiabile; anzi, è un’atroce tortura. Ora, in questi giorni si parla molto del caso di Eluana Englaro, e questa atroce impossibilità a morire ci ha fatto tornare in mente l’orrendo Crucimorfo, e ci si chiede: perchè quest’accanimento? Perchè questo difendere la vita a qualunque costo a prescindere dal valore, dal modo in cui la si può vivere, da un sacco di altre considerazioni che vanno al di là del semplice dato biologico? Ebbene – non lo sappiamo. Ed è questa la cosa che più ci fa girare i cosiddetti – il fatto che da qualunque parte lo si guardi l’atteggiamento dei porporati che vogliono difendere la vita ad ogni costo, per noi, non ha senso. L’impressione che se ne ricava è che per la Chiesa la vita sia semplicemente una questione biologica, di pulsazioni e circolazione e reazioni chimiche – e che essere vivi sia meglio, a prescindere, che essere morti. Mah. E’ questo quello che vogliono? Una vita eterna quantitativamente ma qualitativamente uguale a zero – tutti con il loro bel Crucimorfo al collo. Un pensiero che dà i brividi.
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