«- Le ha rubato dei denari, quell’uomo? – No, amico mio. – E che, dunque? – Il segreto del principio d’inversione della forza di gravità. – Fulmini! – Di più: un intero fascicolo di planimetria e tutti i disegni dettagliati dell’aerosfera. – Schiumaccia da galera!»
Per quanto possa sembrare strano, ci fu un’epoca in cui era effettivamente possibile scrivere un racconto che terminasse con “e poi si sveglia e si accorge che era tutto un sogno” senza essere sommersi da lanci di ortaggi e gatti morti. Era un’epoca ingenua e felice, e neppure così lontana come può sembrare; un’epoca in cui la narrativa fantastica muoveva i suoi primi passi: in Inghilterra o negli Stati Uniti (o in Francia, per dire). E pure in Italia: lo dimostra questa spettacolare antologia, curata dall’ubiquo De Turris, di “protofantascienza italiana”, che raccoglie racconti di marziani, astronavi e favolose invenzioni pubblicati nel Bel Paese tra il 1891 e il 1952.
Sono pagine assai piacevoli, sebbene più per il loro fascino retro’ che non per gli effettivi meriti artistici. A parte l’effetto di straniamento nel leggere di viaggi su Venere – a incontrare dinosauri e “veneriani” – compiuti da gente con nomi tipo ingegner Moriani, dottor Lucci e compagnia bella, per noi abituati ai John Carter di Marte, spesso il vero fascino di questi racconti sta proprio nella contrapposizione tra un’Italietta borghese e casalinga e i grandi misteri del Cosmo: come per esempio nel racconto «Ciò che accadde a noi tutti il 19 settembre 19…», dove un tranquillo signore milanese assiste a una catastrofe planetaria (la distruzione della Luna e relativa caduta di giganteschi meteoriti, con arresto della rotazione terrestre) leggendone i resoconti in Galleria o davanti a Sant’Ambrogio… Ma ce n’è per tutti i gusti: dalle parodie tecnologiche dell’ «Autocasa» (In quest’epoca elastica, chi perde il tempo nel pensare al mangiare? – E’ vero: necessario non è vivere. Necessario è andare in automobile!) e del «Chiesofono» (un apparecchio telefononico che, nel 1891, permette di confessarsi da casa, costringendo i sacerdoti a lunghe notti insonni spese ad ascoltare le paturnie di vedove e beghine), alle minchiate (ehm) pseudo-spiritiste di Salgari («Il mio terribile Segreto», storia di un tizio che senza spiegazione alcuna viene teletrasportato in Galles o giù di lì per impedire il rapimento di una fanciulla – mah) o di Gozzano («Dopo il voto tragico» – che in realtà è un racconto volutamente ironico di fachiri, divinità funeste e valigie perdute), per finire poi con gli esperimenti di storia parallela di «Non votò la famiglia De Paolis», in cui il mancato adempimento del proprio dovere elettorale da parte di ignari elettori provoca una vera e propria catastrofe: l’ascesa al potere dei comunisti, con relativa polizia politica e campi di concentramento. Brrrr!
Alcuni di questi racconti, comunque, sono davvero notevoli: «La Fine di Venezia» è esattamente questo: il resoconto della distruzione di Venezia dopo un bombardamento atomico (!) su Marghera; è una storia praticamente senza dialoghi nè personaggi, dove, anzi, protagonisti sono i palazzi e le chiese, che sembrano quasi prendere vita per un istante prima di scomparire in un mare di fuoco; oppure «la Morte di Re Salibù», che, con prosa roboante e tragica, descrive le vicende di un popolo di Titani minacciati dagli oscuri complotti del Nano Necroforo e di altri loschi figuri. Come pure «La Vita di Domani», di Fillìa (quello del Manuale di Cucina Futurista), il cui stile è incredibilmente particolare, quel genere di prosa futurista al contempo vecchia e nuova:
« – confusione, urla, calore, dinamismo dei sensi; contrasti feroci – immediatamente i guardiani civili entrarono in azione: una pompa a imbuto solidificò l’aria per molti metri cubi – quasi tutti i rissanti furono immobilizzati – quelli rimasti fuori dallo spazio solidificato attaccarono i guardiani con fulminanti elettrici – un pauroso lampeggiare di fiamme violette saettò il chiarore verticale della sala – confusione, grida, fuga vertiginosa.»
Stupiscono poi certi atteggiamenti nei confronti della scienza, e della cultura. La vita su altri mondi era semplicemente un dato di fatto; così come la realtà scientifica dello spiritismo, della fisiognomica, della frenologia; e anche di certe opinioni razziali – che quasi ci si aspetta se dirette a neri, orientali o indiani; molto meno nei confronti dei tedeschi: «L’avido istinto della razza, che fa d’ogni tedesco lo sfruttatore rigido e senza scrupoli di ogni nuova conquista della scienza, frutto il più delle volte di un ingegno estraneo al suo, aveva spinto Rodolfo Von Shalke a lasciare Jena e la sua università.».
Da un certo punto di vista questo volume sembra uno studio biologico su un qualche vicolo cieco evolutivo, tipo l’echidna o quegli assurdi animali precambriani: in più di un’occasione vien da chiedersi come si sarebbe potuta evolvere la letteratura italiana (e quindi molte, moltissime altre cose) se la fantascienza avesse attecchito anche qui da noi. In altri Paesi ha anticipato i tempi e le tematiche sociali, ha esplorato le possibilità della scienza e della tecnologia; e ha divertito un bel po’ di gente. Invece la fantascienza italiana ha sempre goduto di pessima fama: snobbata dai critici e considerata letteratura di serie Z, è cresciuta stenta e miserella, e in effetti è difficile, se non si è più che addetti ai lavori, citare qualche autore o titolo. Ma vabbè. Sta di fatto che, a leggere questi vecchi racconti, e a confrontarli con racconti di SF estera dello stesso periodo (c’è un’interessante raccolta curata da Sam Moskovitz, «il Futuro era appena cominciato»), si notano pochissime differenze: stesse trame farlocche, stessi personaggi tagliati con l’accetta, stessi finali inverosimili, stessi dialoghi surreali, stessi stereotipi razziali: insomma, eravamo partiti ad armi pari. Il che ci porta alla constatazione che, se la fantascienza italiana fosse stata un po’ più coccolata e vezzeggiata durante la sua infanzia, magari avremmo avuto anche noi i nostri Asimov o Henlein o Farmer o le Guin. Al che bisogna essere abbastanza pronti da schivare le inevitabili Grandi Domande: è colpa del neorealismo? E’ colpa della destra o della sinistra? E’ colpa del Sessantotto? Non lo sappiamo e ci frega assai poco, a dire il vero: ci basta poter passare di tanto in tanto un po’ di tempo tra questi cimeli e fotografie ingiallite, farci due risate e sperare che i corsi e ricorsi della Storia facciano tornar di moda i baffoni, i dirigibili e Cesare Lombroso.
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