[…] furono accolti dai furibondi latrati d’un bastardaccio di cui quasi non si vedevan gli occhi, ma i denti radi e canini con paura, tant’era sannuto ed irsuto, mezzo spinone mezzo maremmano e mezzo fottut’in gulo (questo l’ideogramma del Cocullo), ma per buona sorte a catena. Una vecchia apparve, contro ogni credibile ipotesi in quel panorama di ferrovia sconsacrata, la si provò a rabbonirlo, a chetarlo, la si fece indi presso la barra: che interrompeva la strada, a significare, se non proprio l’imminenza, di certo l’aspettazione d’uno straordinario fenomeno: e cioè il tra venire nero del convoglio, il sottosoffiare e soprasoffiare del vapore, fluido meraviglioso, che conferisce virtù ed attitudine locomotoria al merci, anche in salita, nonché al misto 181 : il quale difatti, già in ansimo, annunciava il lùbrico gioco de’ manovellismi su su su fu fu fu da ‘e Fattocchie, vincendo la implorazione lontana der cuccù: e al casello Km 20,25 sarebbe altresì vittorioso della livelletta: un prodigio dell’arte, una interminata livelletta 4% ma tutta curve e contro-curve, del secondo ottocento. Al casello, detto da taluni di Casal Bruciato, lo si attendeva ogni giorno, una volta al giorno, con l’algebrica certezza e la trepidazione d’animo con cui alla specola di Arcetri o all’osservatorio di Monte Palomar, ogni settantacinque anni, il ricorrere della cometa di Halley.
Il modo migliore per gustarsi questo libro, credo, è aprirlo a caso, di tanto in tanto, e leggerne cinque o dieci pagine, possibilmente ad alta voce. Allora si riescono a cogliere le pirotecniche invenzioni linguistiche del Gadda, i suoi labirinti grammaticali, le precisissime descrizioni di tutti quei gesti che accompagnano – spesso senza che ce ne rendiamo conto – le nostre parole. Se invece si cerca di leggerlo come un romanzo, seguendo la trama, è una brutta gatta da pelare (o come dicono con notevole finezza gli anglosassoni, “a pain in the ass”). Soprattutto perchè in fondo è un giallo, una storia in cui viene commesso un crimine e bisogna risolvere un mistero, cogliere indizi, trovare un colpevole. Ma la trama è talmente soffocata, sopraffatta, schiacciata da una montagna di parole da rendere impossibile o quasi starle dietro. E’ un’agonia, quando ti rendi conto che hai letto cinquanta, sessanta pagine di deliri sugli alluci dei santi o sulle opinioni del dottor Fumi a proposito delle abitudini delle ragazze straniere, e la storia è sempre lì, nella stessa stanza, e non ha fatto un passo. Per carità, ci piacciono le divagazioni, le prose tortuose, gli aneddoti e le stradine laterali, ma un minimo di equilibrio ci vuole, vivaddio. Un conto è leggere un romanzo come Tre Uomini in Barca, che è fatto, appunto, solo di aneddoti e divagazioni: ma proprio perchè non ha bisogno di una trama non hai problemi; un altro è leggere una storia così, se si può dire, sbilanciata: perchè quando la trama emerge, in questo caso, dà quasi fastidio. “Aspetta un attimo, chi è questo brigadiere Pestalozzi?”, ti chiedi, perchè l’ultima volta che lo hai sentito nominare è stato un centinaio di pagine fa e nel frattempo l’Autore ti ha strapazzato in una centrifuga verbale fino a farti perdere il senso dell’orientamento. Così devi tornare indietro e ripigliare il filo; ma dopo due pagine sei di nuovo sull’ottovolante. La sagace introduzione pone l’accento sulla parodia, sul voler stravolgere i canoni del romanzo giallo, e ci possiamo stare; tira in ballo il Don Chisciotte, e qui ci permettiamo di far notare che il Don Chisciotte sarà pure una parodia del romanzo cavalleresco ma una trama ce l’ha eccome. O magari è una faccenda metaforica, e l’intricata prosa del romanzo è simbolica, indicativa del groviglio infinito di cause, controcause, relazioni e influenze che compone le nostre vite, dove spesso si ha l’impressione che non ci sia nè capo nè coda. C’è qualcosa di molto zen, in tutto questo. Chiunque abbia una minima infarinatura di zen, infatti, di yoga o di cineserie assortite, ben sa come il continuo discorrere della mente (come un criceto nella ruota) sia più spesso un fastidio che un vantaggio, e nel momento in cui si impara a farla tacere si sperimenta una calma, un silenzio in cui tutto appare più chiaro e definito – fin quasi ovvio. Magari era questa, l’idea dell’Autore. Al che, però, non si può fare a meno di notare che se il Gadda se ne fosse stato un po’ zitto, in effetti, Don Ciccio il caso lo avrebbe risolto in dieci pagine. Mah.
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