Testi: Polygen – Disegni: Stripgenerator
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Citazioni tratte da: Gene Wolfe, L’Ombra del Torturatore; Elèmire Zolla, Archetipi; Cesare della Riviera, Il Mondo Magico de gli Heroi; Squadra Cazzate, L’Automa di Cartesio & Altre Storie: Vita, Opinioni e Cazzate di Umberto Della Via Rebelot, Ultimo dei Primi alla Fine dei Tempi (titolo provvisorio, di prossima pubblicazione); Giovanni V. Schiaparelli, La Vita sul Pianeta Marte.
In questo periodo si fa un gran parlare della famigerata “Influenza Suina”, nefasta piaga del Ventunesimo Secolo, pronta a falciare un’umanità inerme già provata dall’aviaria, dal cimurro e da Windows Vista. Come sempre è difficile per il cittadino comune, lo stolido e ignorante “uomo della strada”, discernere la verità tra le tonnellate di fuffa che ci vengono propinate quotidianamente da giornalisti senza scrupoli nè ghette e loschi figuri al soldo della Massoneria o degli Illuminati di Baviera, così come per i cosiddetti luminari della scienza è difficile raccapezzarsi tra questa pletora di bacilli, spirilli, fusilli e cosilli che di giorno in giorno si fanno più virulenti e pugnaci.
Per fortuna, il saggio Zio Muco è qui per spiegarvi l’atroce verità che si nasconde dietro a questa apparentemente innocua pandemia!
Sappiate fin d’ora che lo spirito indomito dell’Uomo sarà messo a dura prova da questa inarrestabile calamità, che nell’indifferenza generale sta per abbattersi sul nostro inerme capo riverso, per fare scempio dei traguardi che nella nostra superbia abbiamo presunto immortali. Pentitevi, peccatori! Ehm… dicevamo.
1. Il virus dell’Influenza Suina: le origini segrete e la Massoneria
Il virus H1N1 (cosa vorrà mai dire quest’oscura sigla, si chiederanno i miei affezionati lettori? Bella domanda. La prima ipotesi, avanzata dall’esimio professor Giangiacomo Bubba dell’Università di Quartoggiaro, coinvolge un’appassionata partita a battaglia navale tra un branco di streptococchi e l’imperatore dei bacilli bavaresi, ma è probabile che sia una cazzata. La seconda ipotesi è che si tratti di un virus robotico creato da George Lucas per trasformare tutti in copie di Jar Jar Binks. Sebbene in questo caso non sia probabilmente vero, è meglio non abbassare la guardia, perché il pericolo è reale e quell’uomo è capace di tutto) è stato individuato e classificato dal famoso dottor Siegfried Ippocampo nel corso dei suoi decennali studi sui Maiali Mannari dei Carpazi.
Fu quasi per caso, mentre combatteva contro la solitudine e il gelo delle interminabili notti carpazie (sì, carpazie, perché?) che iniziò a sospettare che le strane abitudini e l’aspetto rozzo e ripugnante dei villici locali fossero dovuti all’influenza di una perniciosa malattia, così come il cretinismo delle valli, la pellagra o il morbo del palombaro.
I suoi sospetti trovarono atroce conferma in una cupa notte estiva, quando uno dei giovani contadini del luogo venne portato nel suo studio, sanguinante e tumefatto dopo un incontro ravvicinato con il temibile Verro Diabolico del paese. Fu solo grazie alla sua sagacia e alla sua abilità di segaossa, che il dottor Ippocampo riuscì a salvare la vita al giovane fanciullo. Già. Ma tutto questo ci interesserebbe ben poco, se non fosse il preludio a ben più tristi avvenimenti. Non ci riferiamo all’arresto del dottor Ippocampo per una squallida faccenda di scommesse clandestine, quanto piuttosto alla sconvolgente scoperta fatta dal nostro amato luminare di una forma di vita sconosciuta guatante nel sangue della povera vittima. Sì, ho detto guatante, perché? Ignoranti! Scommetto che è la prima volta in vita vostra che leggete una frase contenente questa parola. Ah, quanto devono essere misere le vostre letture! Ma torniamo a noi. Anzi, torniamo al dottor Ippocampo e alla sua sensazionale scoperta.
Un’analisi approfondita rivelò l’esistenza di un nuovo virus, dalle caratteristiche misteriose e dall’aspetto assai peculiare.
2. L’Influenza Suina: dai primi sintomi alla tragica conclusione
Molti commettono il tragico errore di considerare l’Influenza Suina alla stregua di una banale influenza o di un qualsiasi comune malanno stagionale. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità! Beh, quasi niente. L’Influenza Suina è in realtà un morbo infido e pernicioso, che colpisce indiscriminatamente nel mucchio e di rado lascia scampo alle sue vittime. Sviluppatasi nel corso dei millenni in una enclave protetta e lontana dalla civiltà (stiamo parlando dei Carpazi con la loro popolazione autoctona di Maiali Mannari), vi sarebbe rimasta ancora senza nuocere a nessuno, tranne qualche contadinello carpazio, se non fosse stato per il nostro buon dottor Ippocampo. In nome della scienza infatti, egli inoculò il virus alla sua giovane moglie Zizzania, al suo assistente di laboratorio, al giardiniere e finanche al cane (uno splendido esemplare di Chihuahua Mannaro dei Carpazi di nome Adalberto Sigismondo III). Nel giro di poche ore, la tragedia si era compiuta e il mondo si trovò così sul baratro dell’annichilimento!
Fu ben presto evidente, a tutti tranne che al dottor Ippocampo che dimostrò in questo l’intelligenza media di un lichene, che il principale effetto del virus allora ancora senza nome dell’Influenza Suina era quello di causare una rapida e irreversibile metamorfosi di ogni forma di vita (compreso il povero Adalberto Sigismondo III) in un roseo maiale cicciuto. Nella sua lucida follia, lo scienziato propose di chiamare il virus Gino e la malattia da esso provocata Ginite, ma venne prontamente travolto da una mandria di maiali inferociti e di lui non si seppe più nulla.
3. L’Influenza Suina nella società moderna
Non è la prima volta che l’umanità si trova ad affrontare un pericolo simile. Siamo sopravvissuti, sebbene con perdite dell’ordine dei milioni di vite umane, alla pandemia dell’Influenza Aviaria, che dal 2003 è stata trasmessa all’uomo da miriadi di pennuti come il dodo e alla temibile Influenza Spagnola (1918), trasmessa all’uomo da miriadi di spagnoli.
Per fortuna, la Comunità Internazionale ha stanziato fondi per centinaia di miliardi di euri all’uopo di cercare una soluzione a questo terribile flagello che minaccia la sopravvivenza stessa della razza umana su questo pianeta. Un vaccino è finalmente disponibile in tutte le farmacie, nei negozi di salumi e nella Fortezza della Scienza: sebbene al momento non sia ancora in grado di arrestare completamente la metamorfosi, permette comunque di condurre un’attiva vita sociale come membri produttivi del consorzio umano, dotati di postura eretta, pollici opponibili e un grazioso codino a cavatappi.
Al momento è ancora troppo presto per dichiarare vinta questa guerra contro gli orrori che si annidano nel microscopico mondo dell’invisibile. Riuscirà un’avanguardia di menti eccelse (escludendo qualche povero mentecatto come il compianto dottor Ippocampo) forgiate nel sacro fuoco della Scienza a contrastare l’inesorabile avanzata del Male in tutte le sue forme? Oppure l’Umanità intiera, creata a immagine e somiglianza della Divinità, è destinata a decadere in una oscena barbarie grufolante? Eh?
Quando finalmente i primi albori diradarono a poco a poco le tenebre, Von Basedoff poté rendersi esattamente conto della sua situazione. La corrente del fiume e fors’anche il vento, che non aveva cessato di soffiare dalla parte della riva, l’avevano spinto a tre o quattro miglia al largo, facendolo deviare verso il sud: la foce del Malaug non si scorgeva più. La costa che aveva di fronte non era più quella che aveva osservato il giorno innanzi. Era una terra assai bassa, interrotta da paludi piene di canneti e da boscaglie intricatissime. Il tetto non aveva ceduto: solamente i suoi margini erano stati danneggiati e ridotti a brandelli dagli incessanti attacchi delle onde, tuttavia per il momento non correva alcun pericolo, tanto più che il lago cominciava a calmarsi.
«E adesso? Che cosa faccio, cazzo e triplo cazzo?» si chiese il dottore, che si era rizzato in piedi per meglio osservarla. «Ci vorrebbe una vela, un remo, mentre non posseggo che la mia sciabola… Un remo!… Non ne ho forse uno? Quello che stringo fra le mani in questo momento? Proviamo a levarlo.»
Allargò prima colla punta della sciabola le tegole e gli strati di foglie che formavano il culmine del tetto, poi si mise a scuotere vigorosamente il grosso bambù.
Stava già per capovolgere la barca, quando il tetto s’inclinò improvvisamente da un lato affondando più che mezzo. Se il naufrago non avesse tenuto in quel momento il bambù ancora fra le mani, sarebbe certamente caduto in acqua, tanto era stata brusca quella scossa.
«E questo cos’è?» esclamò, voltandosi rapidamente. Una testa orribile, armata di lunghe mascelle irte di denti aguzzi e giallastri, era emersa improvvisamente, allungandosi verso il naufrago.
«Un caimano! Un coccodrillo! Oddìo!» esclamò il dottore impallidendo. «Aaaah!»
Il sauriano aveva già appoggiato le zampe anteriori, che somigliavano molto a vere e proprie mani sull’orlo del tetto e tentava di spingersi verso la preda umana, la quale non aveva notato i gesti, in apparenza amichevoli, che la creatura gli rivolgeva. Il galleggiante, sotto quel peso, continuava ad inclinarsi, minacciando di capovolgersi. Si aggrappò colla sinistra al bambù, afferrò colla destra la pesante sciabola che teneva infissa nella fascia, e menò al sauriano un colpo violento. La grossa scatola ossea del mostro crepitò sotto l’urto dell’acciaio, senza però cedere. Il dottore non si perse d’animo, quantunque credesse d’aver a che fare con un avversario non meno pericoloso dei coccodrilli che infestano le acque dei fiumi d’oriente. Se non fosse stato così in preda al panico, si sarebbe accorto che il rettiloide stava tentando di dire qualcosa: «Aspetta! Ahia! Io amico! Ahia, basta! No sulla testa! Agh!»
«Ah!… Non vuoi lasciarmi, eh?!» gridò il dottore, che sentiva il tetto inclinarsi sempre. «Prendi, maledetto bastardo!…»
Menò un secondo e poi un terzo colpo, non già sulle piastre ossee che corazzavano il rettile, bensì su una delle mani afferrate all’orlo della zattera. Se la sciabola fosse stata affilata, e non un semplice pezzo di ghisa, gliel’avrebbe troncata di netto.
Quasi subito il tetto si raddrizzò, mentre quel pericoloso abitante dei laghi s’inabissava con fragore, mandando una rauca bestemmia.
«Perbacco!… Non tagliano un cazzo, queste sciabole!» esclamò Von Basedoff. «E io speravo che dei selvaggi potessero dare al loro ferro una simile tempra. See, come no. Speriamo che quel mostro mi lasci ora tranquillo.»
Pulì la sciabola rimettendosela nella fascia, poi con uno strappo violento levò il bambù. Era una bella canna, grossa quanto il braccio d’un uomo, lunga due metri. Certamente non poteva servire gran che a dirigere una zattera, per quanto piccola e leggera fosse. Il dottore seppe trarne egualmente partito.
«Se non sarà precisamente un remo, me ne servirò egualmente, disse. «La riva non è che a tre miglia e sono certo di poterla raggiungere fra un paio d’ore.». Ne impiegò undici.
Poco prima del tramonto poté finalmente toccare la sponda. Era talmente esausto che, appena salita la riva, si lasciò cadere di peso al suolo, all’ombra d’un albero imprecisato che stendeva per un vasto tratto le sue immense foglie acuminate.
Dove era sbarcato? Per il momento non gliene poteva fregare di meno, troppo contento di aver raggiunto la terra e lasciato quella pericolosa zattera che poteva da un momento all’altro sfasciarsi. Appoggiato col dorso contro il tronco della pianta, guardava con viva curiosità la sponda, che era cosparsa di sabbia e di penne di tucanodonti e di stirge.
Non vi erano né barche, né capanne, né verso nord, né verso sud. Forse quella parte del lago non era mai stata visitata nemmeno dai coboldi, i quali peraltro escono di rado dalle loro città fetide ed affollate.
«Procuriamoci la colazione,» disse Von Basedoff, dopo essersi riposato una mezz’ora. «Poi cercherò di orientarmi per raggiungere l’accampamento. Vronch e la vecchia non l’avranno certo lasciato e mi aspetteranno ancora. Morti di sonno! Scommetto che manco si sono accorti della mia assenza! Ma non finisce qui: noi ci rivedremo ancora, a dispetto di quei misteriosi nemici che mi perseguitano con tanta ostinazione. Ora infatti sono ben convinto che si tratta sempre degli stessi misteriosi individui: coloro che ci hanno fregato il dirigibile e quelli che mi hanno teso un agguato durante la caccia all’elefante. Bastardi.»
Si alzò e discese la riva, dove si scorgevano numerose buche coperte da ramoscelli e da foglie secche.
«Devono essere nidi di cormorani,» mormorò.
Dopo averne visitati parecchi senza risultato, riuscì finalmente a scoprirne uno che conteneva una mezza dozzina d’uova, un po’ più grosse di quelle dei piccioni e col guscio leggermente rugoso.
«Per il momento basteranno,» disse. E le vuotò una dietro l’altra, senza nemmeno accorgersi che avevano un certo gusto di pesce poco gradevole.
Un po’ riconfortato da quella modesta colazione, tagliò un ramo per servirsene di bastone e si mise a costeggiare il lago, dirigendosi verso il sud. Poi, piegato in due dalle coliche, cadde a terra rantolando.
Alcune ore dopo, avendo voltato le spalle alla foce del Malaug, era certo di poter rintracciare, se non l’accampamento dei coboldi, almeno il vecchio autogrill, quantunque ignorasse a quale distanza si trovava. La sua marcia non durò a lungo, perché dopo qualche ora si vide chiuso il passo da una vastissima palude, che pareva dovesse avere una estensione immensa.
«Merda nera! Non avevo pensato a questi ostacoli,» disse, facendo un gesto di malumore. «Se dovrò fare il giro di questa palude, raddoppierò e forse anche triplicherò il mio cammino, e corro il pericolo di non ritrovare mai più Vronch. A meno che non mi spinga fino alla città del Re Leucrotta, se saprò trovarla.»
Rimase parecchi minuti immobile, cercando invano la soluzione di quel difficile problema, poi prese ad un tratto il suo partito.
«Aggiriamola,» disse. «Raddoppierò le marce e non dormirò che qualche ora.»
E si cacciò senz’altro nella boscaglia che contornava la palude.
Era una di quelle foreste umide che sono preferite dalle tribù degli Uomini-lucertola, perché li pongono al coperto dalle invasioni dei loro nemici, i coboldi e gli infidi Yeek. Foreste orribili, sature di umidità, sorte su terreni paludosi, pullulanti di sanguisughe, di uomini-scorpioni, di tafani predatori, di scolopendre e di tacchini velenosi, e che celano sotto la loro ombra quella terribile febbre dei boschi, così micidiale per gli uomini, non solo, ma perfino per i nani, gli elfi e i minotauri.
Il dottore, animato dal desiderio non tanto di ritrovare il generale e Ukhurra, che ormai detestava intensamente, ma una via d’uscita da questa situazione insostenibile, proseguiva lentamente la sua marcia, sciabolando i rami e le liane che gli ostacolavano il passaggio, inoltrandosi sempre più in quella gigantesca foresta.
Aveva lasciato la riva paludosa a causa della poca consistenza del suolo, e badava di non allontanarsi troppo per paura di smarrirsi fra quelle migliaia e migliaia di piante, cosa non improbabile, non avendo alcun mezzo per dirigersi, nemmeno il sole, il quale non si lasciava vedere fra quelle foglie mostruose che formavano una volta assolutamente impenetrabile.
Avanzò così per parecchie ore, raccogliendo qua e là qualche frutto, finché, esausto da quella lunga marcia e semisoffocato dal calore intenso che regnava nella foresta, si fermò sotto un albero di proporzioni enormi, coll’intenzione di passare colà la notte. Mancando ancora qualche ora al tramonto, si mise a frugare i cespugli vicini colla speranza di sorprendere qualche animaletto inerme e commestibile, avendone scorti parecchi fuggire durante la giornata. Era tutto intento nelle sue ricerche, quando udì sopra il suo capo agitarsi le fronde. Alzò gli occhi e scorse, non senza un brivido di terrore, un grosso animale dal pelame bluastro, picchiettato di macchie a forma di mezzaluna, che stava appiattato nella biforcazione d’un grosso ramo e lo fissava con due occhi gialloverdognoli dalla pupilla dilatata. Era dotato non solo di sei zampe lunghe ed artigliate, ma anche di un paio di tentacoli da piovra che spuntavano dal suo dorso e si agitavano sinuosi. La bestia tremolava e scintillava, diventando a tratti trasparente e a tratti addirittura invisibile, a parte il suo sgangherato sorriso che rimaneva fluttuante sopra il ramo.
Il dottore fece tre o quattro salti indietro, alzando la sciabola e mettendosi in guardia, come uno schermitore che si prepara a parare una botta.
«Una pantera distorcente!» esclamò. «Ora si che son cazzi! Cattivo incontro, se è in crisi di astinenza. Se avessi con me la mia provvista di funghi allucinogeni, saprei come farmela amica…»
La pantera pareva però che non avesse fretta di assalirlo. Forse l’aspetto malaticcio del dottore, più che lo scintillio dell’arma tenuta in alto la rendevano prudente. Lo fissava coi suoi occhi verdastri, contraendo le labbra e ondeggiando lievemente i tentacoli, mentre le sue unghie s’affondavano con un sinistro crepitio nella corteccia del ramo.
Il dottore stava per fare un’altra mossa indietro, onde mettersi fuori portata dallo slancio della belva, quando vide i cespugli che crescevano attorno al tronco della pianta aprirsi con precauzione, e comparire un uomo, il quale aveva l’arco già teso con una lunga freccia incoccata.
«E ti pareva! Un uomo-lucertola, ora!» esclamò il dottore. «Non bastava la pantera, no? E adesso cosa manca, il cubo gelatinoso?»
Il selvaggio aveva puntato la freccia sul dottore, alzandola e abbassandola come se cercasse il punto migliore per toccare qualche organo vitale.
Era un uomo-lucertola di bassa statura, dalle scaglie assai scure con riflessi giallastri, i lineamenti duri e angolosi, gli occhi nerissimi e foschi: era quasi nudo, non avendo che uno straccio grossolano attorno ai fianchi. Oltre l’arco e la faretra, portava dietro al dorso una sciabola simile a quella che aveva il dottore. La sua mano destra era gonfia e avvolta in una benda sporca. Pareva non si fosse ancora accorto della presenza della pantera, che gli stava quasi sopra la testa, altrimenti non si sarebbe certo fermato in quel luogo troppo pericoloso. Il dottore, che temeva fosse uno di quelli che lo avevano rapito, o almeno un loro conoscente, con una mossa fulminea si gettò dietro il tronco d’un albero d’aquila (così chiamato perchè dalle sue frutta, secondo i selvaggi di quelle lande dimenticate da dio e dagli uomini, nascono aquile, aquilotti, sparvieri e pegatauri), gridando al selvaggio con voce minacciosa:
«Abbassa quella freccia, canaglia! Non vedi che sono un uomo? Guarda invece sopra la tua testa.»
Il rettiloide, sia che non comprendesse la lingua comune o che fosse deciso ad assalire l’uomo dalla pelle bianca, invece di abbassare la freccia uscì dai cespugli, tenendo l’arco sempre teso, e fece due passi di fianco per prendere una posizione più adatta a scagliare quel pericoloso dardo.
In quell’istante il dottore, che non perdeva d’occhio neanche la pantera, vide la belva alzarsi lentamente sulle sue lunghe e numerose zampe e raccogliersi come i gatti quando si preparano a saltare.
«Guarda!» gridò al selvaggio. «La pantera! Cretino, sta per scagliarsi su di te! Dietro di te! Lì! Lì! O insomma, vaffanculo!»
Un sordo brontolio fece alzare la testa al rettile. Vedendo il felino, fece l’atto di fuggire, ma gliene mancò il tempo.
La terribile belva con uno slancio fulmineo gli piombò addosso, lo atterrò di colpo con una poderosa zampata sulla spalla sinistra, lo afferrò saldamente con zampe e tentacoli e cominciò ad addentarlo e sbocconcellarlo. Quando si rese conto che si era arrotolato come un pangolino per coprire il collo e il ventre, e che le sue scaglie erano troppo dure, lo lasciò andare e scomparve in mezzo agli alberi, mandando un sordo mugolio di stizza e delusione.
L’assalto era stato così rapido, che il dottore non aveva avuto il tempo di accorrere in aiuto del selvaggio. Ma anche se fosse stato l’assalto di un bradipo, probabilmente non si sarebbe mosso se non per fuggire.
L’uomo lucertola, colla spalla sanguinante, aprì un occhio e si guardò attorno. Resosi conto che la situazione era tornata tranquilla, prese a rotolarsi fra le erbe, mandando urla di dolore, squittendo e sibilando come una mangusta.
«Finiscila,» gli disse il dottore. «Non guarirai certo in quel modo: anzi!»
Gli si avvicinò, gettando via la sciabola.
Il selvaggio si arrestò e riprese l’arco, dardeggiando sull’eugiliano uno sguardo feroce.
«Non ti voglio fare alcun male,» disse il dottore. «Mi comprendi?»
«Sì,» rispose il rettoloide nella stessa lingua.
«Allora lascia in pace l’arco e mostrami la ferita. Io sono un uomo che sa curare gli ammalati.»
Il selvaggio rimase muto. Il suo sguardo però a poco a poco perdeva il suo lampo feroce.
«È vero che non mi ucciderai?» chiese finalmente.
«Gli uomini bianchi non sono cattivi come tu credi.»
«Eppure prima mi hai riempito di legnate quando ho tentato di salire sulla tua barca.»
«Io? No di certo. Mi confondi con qualcun altro. È normale, per voi tutti gli umani sono uguali. Lascia che esamini la tua ferita.»
Il lucertolone si mise a sedere, tergendosi colle mani il sangue che colava in abbondanza dalla spalla, dilaniata dalle terribili unghie della fiera.
«Mi prometti di non uccidermi?» chiese nuovamente.
«See, come no. Ti ho detto che non ti farò alcun male. Parola di lupetto.»
«Ecco la mia spalla,» disse l’altro, che pareva non dubitasse più.
Il dottore gli s’inginocchiò accanto ed esaminò attentamente la ferita. La pantera non aveva avuto il tempo di squarciargli la spalla, però l’aveva rigata piuttosto profondamente colle cinque unghie.
«Credevo di peggio,» disse il dottore. «Se le unghie non erano infette, la ferita potrà rimarginarsi in un paio di giorni. Le scaglie poi ricrescono, no?»
Finalmente sono riuscito a mettere le mie adunche manine sull’ennesimo album dei Marillion – pagandolo 20 euri, che per un doppio ciddì è una cifra più che onesta – e, come sempre, ne sono pienamente soddisfatto. E’ pur sempre vero che i Marillion, per i loro fan, sono più una religione che una band, e quindi le capacità critiche dei suddetti fan (io per primo) sono assai limitate; ma questo “Happiness is the road” si è rivelato a) tecnicamente ineccepibile e suonato da dio; b) ben migliore del precedente “Somewhere Else“; c) 20 euri per un doppio album, non so se l’ho già detto – averne. Quindi, per la gioia di coloro tra voi che non li conoscessero o che al massimo se li ricordano vagamente dalle nebbie degli anni ’80, ecco “The Man from Planet Marzipan”. Segue “Goodbye Sober Day” dei Mr. Bungle (di Mike Patton, quello della Ipecac dei Faith no More) – un video creato da anonimi fan con spezzoni del film “Baraka“, di cui abbiamo parlato qui; e per concludere: “Weapon of Choice”, che è, indiscutibilmente, il miglior videoclip mai realizzato a memoria d’uomo, perchè c’è Cristopher Walken che balla.