“Solo due cose si trovano con abbondanza
infinita nell’universo: Idrogeno & Idiozia!
E dell’idrogeno non siamo del tutto sicuri.”
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Tra il luglio e l’ottobre dell’anno del Signore (del Terzo Piano) 2009 si tenne, negli spaziosi locali dell’Outback, la prima esposizione artistica della Squadra Cazzate. Opere bizzarre, insolite e cariche di riferimenti esoterici e filosofici, tali da suscitare in ogni visitatore la fatidica domanda: «Ma che caz-?»
Il Catalogo ufficiale della mostra è disponibile in formato cartaceo o in PDF, qui, presso le Edizioni il Minchione
Se avete un attimo di pazienza, il buon vecchio Zio Muco ve lo spiega:
Sin dalla notte dei tempi l’uomo si è sempre proteso. Poi ha smesso di protendersi e ha inventato la SCIENZA.
Luce della razionalità nelle tenebre dell’ignoranza, bussola dell’ingegno nelle nebbie dell’insipienza, strumento dell’uomo dotto nell’affrontare un mondo irto di perigli, la Scienza è la musa ispiratrice di ogni durevole traguardo dell’umanità. Tranne uno: il cavatappi (è una lunga storia).
Ma parliamo di Scienza.
Parliamone.
Ecco. (vuoi parlarne tu? io sarei un po’ stanchino…)
In questo angolo trovate:
La Cecità alle Cazzate: una malattia sempre più diffusa e attualmente incurabile.
Non capite niente? Lo zio Muco vi spiega perché.
La Verità definitiva su una delle più temibili minacce degli Abissi: il Gamberetto Sparatore, killer degli oceani.
Ovvero, come determinare il carattere di una persona esaminando la forma del suo cranio. Cosa c’è di più scientifico?
Zio Muco vi illustra l’avvincente storia di questa pericolosissima piaga del Ventunesimo Secolo.
Frate Cazzaro mette in guardia l’umanità dai pericoli generati dai folli esperimenti condotti al CERN.
Breve riassunto della scoperta e successivo utilizzo dell’alfabeto immaginario nelle arti poetiche.
Ovvero, i segreti della Lingua Più Difficile al Mondo, con Cenni di Grammatica, Esempi e Bibliografia.
Il Kiwi è un frutto delizioso, o un curioso pennuto? E se fossero la stessa cosa?
Gli incredibili retroscena di una scoperta apparentemente banale.
Un rivoluzionario metodo di indagine, e un avvertimento ai lettori sulle insidie della Bibbia
Dove si espone con dovizia di particolari una rivoluzionaria teoria evoluzionistica che ha il pregio, lo avrete già capito, della stupidità.
Louis Armstrong è davvero sbarcato sulla Luna? O è invece un complotto? E se si, di chi? Dei cartografi? Leggete e lo saprete!
Tutti e due hanno la barba! Tutti e due sono personaggi immaginari! Ma solo uno può aver ragione!
Una teoria scientifica destinata a rivoluzionare la nostra visione del cosmo! Cioè, lo sarebbe se fossimo tutti scemi.
Dove si avverte l’umanità ignara di un immane pericolo che proviene dagli abissi marini.
Sesso! Violenza! Blasfemia! Abigeato! Incomprensibili rituali! Preghiere ai Grandi Antichi! Alcune di queste cose si svolgono davvero dietro le inviolabili porte del Conclave Vaticano!
Dove si espone un metodo facile e sicuro per… ehm… farsi dei buchi nella testa. Che poi serva a qualcosa, chi siamo noi per dirlo?
Come vincere un Nobel e non vivere felici.
Dove si espongono per la prima volta le incredibili e misteriose origini di un popolo antico e… ehm… misterioso. Aspetta, “misterioso” l’abbiamo già usato. Oh, beh…
Che tempo farà domani, ad Amsterdam? Questo potete chiederlo al meteo. Ma quanto disterà, domani, Amsterdam da Cuba? Solo noi possiamo dirvelo!
Ovvero, la storia di un ferocissimo e indistruttibile predatore marino la cui stessa esistenza è una minaccia a tutti i popoli civili. Perchè nessuno fa nulla per fermarlo?
Son capaci tutti. Ma usando solo della lacca per capelli e un gomitolo di spago? Qui sì che ci vuole classe!
Si alzò, guardandosi intorno. Fece due passi nella radura, accendendosi una sigaretta.
«Giacché lo vuoi, parliamo pure. Mi preme sapere da te molte cose che m’interessano. Sai dirmi anzitutto dove ci troviamo?»
«Presso le paludi del Zolph-Urplah.»
«Molto lontano dalla foce del Malaug?»
«Mezza giornata di marcia.»
«Hai mai veduto su queste rive un vecchio posto di ristoro diroccato?»
«Eh?»
«Una cosa tipo una pagoda… un autogrill.»
«Cos’è una pagoda?.»
«Lasciamo perdere. Quando ti ho incontrato, dove andavi?»
«Cercavo di raggiungere un grosso villaggio il cui capo è mio amico,» rispose il rettiloide. «Avevo appena lasciato il tracciato della vecchia ferrovia sulla riva della palude per provvedermi di banane. Sono assai ghiotto di banane.»
«Bravo. È lontano?»
«Un mezzo miglio.»
«Bene. No, aspetta un attimo, hai detto ferrovia?»
«Ferrovia. Strada di ferro. Dove passa il grande carro di ferro senza cavalli che fa ciuf ciuf. Cioè, passava. Secoli fa.»
«Si, ma cosa ci fa una ferrovia in questo posto dimenticato dagli dei? No, lascia perdere, non voglio sapere. Appena potrai mi ci condurrai e tenterò di raggiungere una città, anzi, un qualsiasi posto civilizzato.»
«Bòn. Cerchiamoci la colazione, allora, poi raggiungiamo la palude. Qui non siamo troppo sicuri e se Dopoporey mi trova, non mi risparmierà.»
«Chi è costui?»
«Il capo degli Yeek di queste terre, e mi odia terribilmente. L’anno scorso ho mangiato suo fratello.»
«Beh, adesso non vorrei dire, ma… Cazzi tuoi. Cerchiamo la colazione, poi partiamo,» rispose il dottore.
Mangiarono alcune bacche d’incerto aspetto, si dissetarono ad una pozza, poi si misero in cammino, avviandosi verso la palude, che, come si disse, non distava molto.
Mezz’ora dopo il lucertolone si arrestava presso un paio di binari. Arrugginiti e malconci, nascosti qua e là da erbacce e foglie secche, tagliavano in due la foresta. Un cartello coperto di liane e rampicanti lasciava intravedere qualche scritta illeggibile; l’uomo-lucertola indicò al dottore un vecchio carrello da ispezione, con tanto manovella, fermo sui binari.
«Sai guidarlo, uomo bianco?»
«Boh, sì,» rispose Eriprando.
«Allora in marcia..»
«E la tua spalla?»
«Non è un problema. Fuggiamo e presto. Temo gli Yeek.»
«E i portatori di doni. Io credo che vedendoti assieme ad un uomo bianco non oseranno assalirti.»
«See, bravo. Dopoporey ha giurato di vendicare suo fratello e manterrà la parola, quantunque io sappia difendere le squame a lungo, non avendo rivali nel maneggio della sciabola.»
Salirono sul carrello, misero mano alla manovella e si avviarono lungo i binari, accompagnati da un cigolìo sinistro che doveva essere udibile a miglia di distanza. Il selvaggio figlio delle foreste umide dava una prova straordinaria di resistenza e pareva che veramente non sentisse dolore alcuno. Era d’altronde un rettile vigoroso, che doveva possedere una forza poco comune e che, remando, sviluppava dei muscoli enormi.
«Senti un po’», azzardò il dottore. «Che ci fa una ferrovia, da queste parti?»
«Dicono i saggi che molto tempo fa, quando i miei nonni non erano ancora usciti dall’uovo, un re dei coboldi si recasse in viaggio nel lontano occidente. Quando tornò volle ricostruire qui alcune delle meraviglie che ivi aveva veduto. Ma… aspetta!»
Avevano percorso qualche miglio, allontanandosi dalla palude, coperti da alberi immensi che intrecciavano i loro rami al di sopra dei binari, quando Eriprando vide il suo compagno abbandonare la presa e mettersi in ascolto.
«Che cos’hai?» gli chiese.
Il rettile, invece di rispondere, afferrò la leva del freno e fermò il carrello.
«TWOOOOOOOOOOT» si udì gridare in quel momento alla loro destra.
«Questo non è un grande tucano dal becco doppio… Che cosa ne dici, uomo bianco?»
Il dottore ascoltava, tentennando la testa. Aveva udito parecchie volte le grida stridenti dei grossi tucani delle foreste, ma non erano uguali a queste.
«Che c’entra il tucano? » disse finalmente il dottore, che appariva inquieto. «Sono loro!»
«Ecco che ricomincia: twooooot… bizzarro, no?»
«Ma io ti ammazzo. È un segnale», disse Eriprando.
«E fatto da chi?»
«Questi sono quei dannati nani del cazzo con la loro macchina a vapore, il demonio se li porti! Devono essere scampati all’alluvione. Magari mi sbaglio: non ci sono animali che fanno un verso simile, vero?»
L’altro crollò il capo.
«Bah. Finché nessun pericolo ci minaccia, continuiamo a seguire i binari,» rispose. «Intanto preparo le mie frecce, e teniamoci pronti a tutto. Fra poco, se non mi inganno, giungeremo ad un edificio, e, quando vi saremo, vedremo che cosa ci converrà fare.»
Attesero ancora qualche minuto, poi, non udendo più ripetersi quel segnale, ripresero a spingere e continuarono il loro viaggio. Avevano così percorso un altro miglio e cominciavano a intravedere, coperti di rampicanti, cartelli e segnalazioni divorati dalla ruggine, quando ai loro orecchi giunsero nuovamente le strida del mostro meccanico, e questa volta fin troppo vicine.
«Giungono!» esclamò il selvaggio, agitando la coda. «Ci hanno scorti e non tarderanno a comparire. Dannato umano portasfiga!»
Un sibilo lamentevole si udì nell’aria e poco dopo una freccia si piantò nel bordo del carrello, a una spanna da Eriprando.
«Ecco il primo avviso,» disse l’eugiliano, curvandosi per evitare un secondo dardo che gli passava sopra la testa.
«Non rispondiamo, uomo bianco,» disse l’altro, precipitosamente. «Se lasci la manovella un solo istante siamo perduti.»
«No, non la lascerò, e poi non so adoperare il tuo aaaaaaaaaaarrrggh!»
L’urlo del dottore fu coperto da un frastuono assordante: alberi e piante, travolti dalla mole del juggernaut, crollarono in quel momento alla loro sinistra e l’orrenda macchina, in una nube spaventevole di vapore, fuliggine e piume di sfortunati tucani, comparve a meno di quindici passi da loro. Sulla cima del diabolico marchingegno, un manipolo di nani seminudi agitava asce, spingarde e balestre cacciando urla belluine.
«AAAAAH!», gridò l’uomo lucertola. «L’orrendo mostro degli abissi infernali! Siamo spacciati!»
«Zitto e pedala!», lo incalzò il dottore. Alla folle velocità di quindici miglia all’ora (scarse), il carrello arrancava cigolando lungo i binari della ferrovia. Alle sue spalle il mostro meccanico spianava alberi, cespugli e scimmie fra le urla e le schioppettate dei nani.
Fortunatamente la salvezza era vicina: davanti a loro, a un centinaio di passi, il tetto di una casa diroccata sporgeva di tra gli alberi ed il carrello aveva ormai raggiunto quel che restava di un passaggio a livello, dove i binari incrociavano un vecchio sentiero abbandonato.
«Più veloce! Più veloce!», gridava il dottore.
«Finché ho delle frecce, i nani non ci prenderanno.»
«Non ne possiedi più d’una ventina.»
«Potrebbero bastare, se colpissi sempre.»
«Se colpissi cosa? Bada a spingere, piuttosto! Bada che non ci colgano.»
«Li terrò d’occhio. Ancora pochi istanti,» disse l’uomo lucertola. «Ho fretta di giungere alla casa.»
«E poi? Se anche vi arrivassimo in tempo, cosa impedirebbe loro di raderla al suolo?» chiese Eriprando.
«Ha! L’uomo bianco non si fida della mia sagacia? Guarda avanti! I binari attraversano un ponticello, poco avanti a noi! Sebbene il torrente sia ormai in secca, il carro dei nani non potrà attraversarlo! E’ troppo grande e pesante!»
«Spero tu non ti sbagli.»
«Fidati di me, uomo bianco.»
Ripresero a spingere con rinnovato vigore, cercando di mantenersi più bassi possibile, poiché i Dwergar, occupando una posizione elevata sul tetto della macchina, potevano salutarli con una nuvola di dardi, mitraglia, sassi e contumelie.
Giunti al ponte, sbucarono in una radura. Una volta doveva essere stata il piazzale della stazione: ora le erbacce crescevano tra le pietre del selciato, alte come un nano, ma non abbastanza per fornire un valido riparo. I due fuggiaschi raddoppiarono la velocità per raggiungere la stazione abbandonata.
«Dove saranno quei dannati coboldi?» si chiedeva con angoscia il dottore. «Che Ukhurra e Vronch siano stati sorpresi e fatti prigionieri nei pressi dell’accampamento? E non poter saper nulla! Non bastava il tradimento di quei tre mascalzoni; anche i nani dovevano mettersi della partita! E noi, come ce la caveremo?» chiese, rivolgendosi al suo compagno.
«Meno parlare, più spingere!»
Con un vigoroso colpo di freno arrestò il carrello, mandando il dottore a ruzzolare fra le foglie e il fango.
«Guarda, uomo bianco!», gridò il rettile, indicando alle loro spalle.
Il juggernaut aveva bruscamente frenato a pochi passi dal ponte. Per una macchina così grande e pesante, avventurarsi su quel ponticello traballante avrebbe avuto coseguenze disastrose: e, sebbene la riva del ruscello non fosse profonda più di un cinque o sei piedi, non sarebbe bastato un esercito di Nani a tirarla fuori di lì.
«Ha! Idioti!», gridò il dottore. «Vi abbiamo fregato! Tiè! Tiè!», puntualizzò, sottolineando con gesti espliciti la sua soddisfazione. «E adesso cosa fate, eh, nani del cazzo?»
I Dwergar scesero dalla macchina e attraversarono il ponte a piedi.
Vedendoli rifugiarsi i due all’interno della stazione abbandonata, mandarono il loro urlo di guerra, poi fecero scattare archi, balestre, schioppi e fionde, precipitosamente. Una gragnuola di colpi giunse fino alla porta, però Eriprando e il suo squamoso compagno avevano avuto il tempo di chiuderla e di lasciarsi cadere dietro una panchina, sicché non furono colpiti.
Vedendoli scomparire ancora incolumi, i nani mandarono urla feroci, percuotendo contemporaneamente le loro sciabole l’una contro l’altra. Le trombe di Guendalina rombavano e soffiavano, in segno di sfida.
«Sono furibondi,» disse il dottore.
«Che crepino,» rispose l’altro, «e che il genio malvagio li polverizzi.»
«Sostiamo un momento,» gli disse Von Basedoff. «Non ne posso più.»
Il selvaggio, vedendo che il compagno era completamente sfinito, fu pronto ad obbedire. Là d’altronde non correvano ormai più alcun pericolo, essendo sufficientemente riparati.
Eriprando si gettò contro il più vicino, poi alzò lentamente la testa, per sbirciare dalla finestra.
I nani, nel frattempo, non avevano abbandonato il posto. Andavano e ritornavano fra le piante, gesticolando rabbiosamente, cercando di scoprire i fuggiaschi. Alcuni si erano collocati di fronte ai passi delle rocce per impedire che i due fuggiaschi ritornassero verso la ferrovia.
«Non hanno alcuna intenzione di andarsene,» mormorò il dottore. «Che vogliano proprio tenerci assediati?»
«Non lo so.»
«Non costruiscono qualche cosa? Un ponte per la loro bestia? Un ariete? Una catapulta?»
«Non mi pare.»
«Che attendano dei rinforzi o che abbiano mandato qualcuno a cercare qualcosa? Tipo una pizza?»
«Guardati!» disse invece il dottore. «Là! ci prendono di mira.»
Entrambi si lasciarono cadere a terra nel medesimo tempo, mentre una sassata spezzava un vetro con secco rumore. Una pioggia di bulloni, pezzi di vetro, sassi, denti e ghiaia inondò la saletta.
Due figure rincagnate erano improvvisamente comparse a una distanza di quaranta o cinquanta passi, colla speranza di sorprendere i fuggiaschi e di colpirli con la fionda o lo schioppo. Senza l’avvertimento precipitoso del dottore, vi sarebbero certamente riusciti, essendo quei selvaggi, generalmente, abilissimi nel maneggio delle loro armi.
Il rettile si rialzò prontamente, coll’arco in mano: pronto come un fulmine, lasciò andare la corda.
Si udì un leggero sibilo che si allontanava veloce, poi un grido.
Un nano balzò più che mezzo metro in aria, portandosi una mano alla fronte, poi fece un capitombolo, agitando le gambe in aria, mentre il suo compagno batteva in ritirata.
«Va’! sei finito! Nessuno è più abile di me nell’uso dell’arco e nel maneggio della sciabola. E nel ramino. L’inferno ti aspetta.»
«Ecco un bel colpo che t’invidio,» disse il dottore. «Sei un terribile arciere.»
«Dove miro, tocco sempre,» rispose quello, sorridendo. «A cinquanta passi attraverso un ananas piantato su un bastone verniciato di nero in una stanza buia. Di notte.»
I nani non avevano più mandato nessuno in avanscoperta, temendo di sacrificare inutilmente altri uomini. Cioè, nani.
Saliti in tutta fretta al primo piano, intanto, i due assediati si coricarono fra sassi, cartacce e foglie secche in quella che doveva essere stata la sala d’aspetto, dopo aver eretto una specie di barriera con vecchie panche e pezzi di legno. In tal modo da non potevano essere scorti dai nemici, che vigilavano sempre sul piazzale della stazione, sfogando la loro rabbia impotente con grida feroci, bestemmie, pernacchie e con un inutile spreco di proiettili.
«Questa notte verranno qui,» disse l’uomo lucertola. «Vedo là alcuni di loro che stanno abbattendo degli alberi per costruire un ponte di fortuna.»
«Toccherà loro una brutta sorpresa se entreranno nella stazione,» rispose il dottore, battendogli la spalla. «Avranno a che fare col pitone.»
«???»
«Il pitone della stazione. Ehm. Scherzavo.»
«Saliranno quassù,» rispose l’uomo lucertola, la cui faccia si era fatta scura. «Poi ci prenderanno. Io so ormai che sono votato alla morte e sono rassegnato a subirla; è per te che mi rincresce, uomo bianco, che mi hai salvato la vita e che non potrò ricondurre presso gli amici che ti aspettano.»
A quel ricordo il dottore mandò un profondo sospiro.
«Quei coboldi del cavolo. Amici, adesso, non esageriamo. Però… Potrò un giorno rivedere la civiltà? Bere di nuovo dell’assenzio decente?» si chiese con angoscia. «Tu credi che mi risparmieranno?»
«Ne ho la convinzione. Non hanno alcun odio contro di te, e preferiranno venderti come schiavo a qualcuno.»
«Miserabili!» esclamò il dottore, con indignazione. «Io schiavo!…»
«E ti lamenti pure. Con me ci faranno un set di valigie. Armiamoci di pazienza, uomo bianco, e aspettiamo che il sole tramonti.»
Si coricarono all’ombra d’una panca e attesero che il sole compisse il suo giro.
Quando le tenebre scesero, furono veduti radunarsi sulla riva del ruscelletto e accendere parecchi falò, i cui riflessi tinsero le acque di vermiglio fino sul versante opposto della rupe.
«Che facciano dei segnali?» chiese Eriprando al suo compagno.
«Tentano d’ingannarci,» rispose questi. «Fingono di prepararsi l’accampamento notturno.»
«E li vedo anche cacciarsi sotto i boschi, come se cercassero delle frutta. Poponi, banane o financo qualche scimmia-»
«Ti dico che si preparano ad assalirci.»
«Quale resistenza potremo opporre?»
«Finché avrò una freccia, non mi arrenderò.»
«Ed io cercherò d’aiutarti.»
«Preferirei che tu non ti compromettessi, onde evitare il pericolo di farti poi uccidere.»
«Non credevo che tu fossi tanto magnanimo e tanto generoso, mio bravo amico,» disse il dottore, con voce commossa, aggiungendo a bassa voce: «’mbecille.»
La notte era intanto calata. Dalla parte opposta del piazzale si udivano le voci dei nani: «Chi vuole due spaghetti per cena? – Uuh, che buona questa pizza! – Birra! Chi vuole altra birra!»
«Maledette canaglie!», borbottava il dottore, attanagliato dalla fame. «Ti ho detto, mio squamoso compagno, che io avevo un progetto?»
«Non me l’hai ancora spiegato.»
«Io conosco il valore di quei nanetti – poco, in verità – e vedrai che non respingeranno la tua sfida. Potresti morire nella lotta, certo, ma potresti anche riuscire vincitore e salvare me e te.»
«Chi vorresti – cosa? Io? Sfidare quei mentecatti?» chiese il rettile.
«Mica tutti. Il loro capo.»
«Ad un combattimento corpo a corpo?»
«Sì…»
«Accetterà?»
«Non ne dubito.»
«Tu ti dimentichi che ho la spalla ferita.»
«Non ti darà alcun fastidio,» rispose l’umano.«E poi ti sei bullato fin’ora: posso tirar d’arco, posso spingere il carrello, posso di qua, posso di là…»
«Metterai delle condizioni?»
«Certo: se lo ucciderai, dovranno lasciarci liberi.»
«Uhm! Ti fidi tu?»
«Assolutamente, anzi… Eh?… Taci, uomo lucertola. Per ora lascia fare a me e vedrai, caro il mio coccodrillone, come io giocherò quegli ostinati che si sono ficcati in testa di uccidermi.»
Si alzò, si curvò sul davanzale e gridò con voce acuta, in modo da dominare i fragori di baldora che venivano dall’accampamento:
«Che il capo dei Dwergar mi ascolti. Chi parla è Eriprando Maria Zeppo Von Basedoff, medico, scienziato e valoroso esploratore!»
Gli assalitori udendo quelle parole si azzittirono (a parte uno, cui era andata di traverso la pizza), alzando le torce resinose e preparando le armi. Per alcuni momenti rimasero silenziosi, cercando di discernere l’uomo che si teneva sull’orlo della finestra; poi mandarono un urlo feroce, che durò un buon minuto, accompagnato da colpi di spingarda e dalle assordanti trombe di Guendalina. Quando il silenzio tornò, si udì una voce gridare:
«O vecchio babbione! Io sono Faribûz, uno dei più famosi juggernauti dell’Est, e ora comando questo gruppo, che per valore non ha l’uguale. Che cosa vuole, ora, il vecchio pazzo?… Arrendersi o combattere?»
«Non io! Ehi! Il mio campione, qui, vuole misurarsi con te per evitare un inutile spargimento di sangue,» rispose il dottore. E attento! Noi occupiamo la cima della grande casa di pietra e abbiamo grandi macumbe e maledizioni che lasceremo cadere sulle vostre teste se non accetti quanto ti ho proposto. Se Faribûz, che si vanta famoso, vincerà il mio campione, noi ci arrenderemo e taglierai la sua testa; se sarà lui il più valoroso, ci lascerete andare e ritornare tranquilli agli affaracci nostri.»
«Come: taglierai la sua testa?», sibilò l’uomo lucertola. «Non si era parlato di — »
Eriprando lo zittì con un gesto. «E’ tutto sotto controllo. Fai come dico. Sono un uomo bianco, no?»
«Un Dwergar non rifiuta mai un combattimento,» rispose Faribûz. «Io ti spaccherò tutte le ossa, sospenderò alla mia capanna una collana dei tuoi denti e venderò come schiavo l’uomo lucertola che hai con te.»
«Ti hanno veduto,» mormorò Eriprando.
«Vieni a misurarti con me dunque!» gridò il nano. «Noi lotteremo colla sciabola, col coltello o con la bottiglia rotta, purché tu ti faccia sotto adesso.»
«Vada per la sciabola,» rispose il dottore.
«Scendete, ordunque: il passo è libero.»
I due fuggiaschi si avviarono per le scale.
«Non si getteranno addosso a noi a tradimento, quando saremo fuori?» chiese Eriprando, che non era molto tranquillo.
«Non avere questo timore,» rispose l’uomo lucertola. «Nelle sfide qui tutti sono leali. Al massimo una schioppettata…»
Uscirono all’aperto, circondati da nani che portavano i rami resinosi. Per mostrare che gli assediati nulla avevano da temere da loro, avevano gettato archi e spingarde a bandoliera e si erano appese le sciabole alla cintura. Quando giunsero sul piccolo altipiano, solo il loro capo si fece innanzi, tenendo in mano due sciabole, che parevano eguali sia per peso che per lunghezza.
Era un nano robusto, di trentacinque o quarant’anni, assai alto e dalle braccia assai muscolose.
Infisse nei capelli, che erano lunghi e nerissimi, portava due penne gialle di tucano ed il becco d’un volatile. Indossava soltanto un gonnellino d’erba e un paio di stivaloni.
«Sei tu il… “campione!?» chiese, muovendo verso l’uomo lucertola.
«Sì, io sono colui che ti prenderà a calci,» rispose l’altro con voce minacciosa.
«Faribûz ti mostrerà il contrario, e avrà la tua testa e la tua coda. E anche l’uomo bianco, che venderà al mandarino dei coboldi. Sei tu quello che lci è sfuggito durante la tempesta. Sai che il nostro vecchio capo non ha retto alla vergogna? Egli si è rasato i capelli e ha dato a me i suoi stivali del comando, per poi rifugiarsi nella foresta come eremita.»
«Non me ne può fregar di meno,» rispose altezzosamente l’uomo lucertola.
«Siamo discesi nei boschi umidi per vendicarlo.»
«Io ho solo tagliato la corda, come avrebbe fatto qualunque prigioniero: ero quindi nel mio diritto.», disse Von Basedoff.
«Abbiamo giurato di fronte al motore di Guendalina di non ritornare ai suoi monti senza la tua testa.»
«Vieni a prenderla dunque,» tagliò corto il rettile. «Tu però mi prometterai di risparmiare l’uomo bianco.»
«Non sono così sciocco da ucciderlo, mentre posso venderlo a prezzo altissimo al gran khan dei coboldi. Scegli la sciabola, ed accompagnami là dove potrai mostrare il tuo valore.»
Sciabole in mano, avanzarono fino sul piazzale e prese posizione, volgendo le spalle alla ferrovia.
I Dwergar, silenziosamente, formarono circolo intorno ai due combattenti, mantenendosi ad una certa distanza, onde non impedire le loro mosse.
«Non avranno la mia testa. Addio, uomo bianco; se io muoio, ricordati di me.»
L’uomo-rettile afferrò la sciabola e si avanzò verso il capo del drappello, che lo aspettava colle braccia conserte ed il petto sporgente, in atto di sfida, dicendogli con voce formidabile: «Io sono il più famoso guerriero della mia tribù ed ho ucciso l’anno scorso ben quattordici tra Yeek e uomini-cane. Nessuno mi ha mai vinto ed ora te ne darò la prova spaccandoti il culo.»
Il capo dei Dwergar a sua volta si fece innanzi, facendo scintillare al fuoco delle torce la lama della sua sciabola e gridando con voce stentorea: «Io sono Faribûz, il più forte lottatore della mia tribù, ed ho ucciso tanta gente da non ricordarmene più numero, classe e livello. Tutte le baffute fanciulle delle mie montagne cantano le mie lodi e bevono birra alla mia salute.»
Ognuno fece risuonare il suo urlo di guerra, che somigliava all’ululato d’un dingo inferocito, e indietreggiò poi di qualche passo mettendosi in guardia.
Il rettiloide, che pareva avesse molta premura di condurre a termine il combattimento, fu il primo ad assalire, vibrando all’avversario un tale colpo che qualora l’avesse preso gli avrebbe spaccato la testa; ma il nano, che doveva essere molto esperto, fece un salto di fianco e parò il colpo colla sciabola che risuonò rumorosamente, mandando sprazzi di scintille.
«Ha ha! Non sai adoperare le nostre armi?» disse con accento ironico. «Le nostre donne farebbero di meglio.»
«La lotta è appena cominciata,» rispose l’altro, furiosamente. «Mi saprai dire che cosa ne penserai, se ne avrai il tempo, quando la mia sciabola ti spaccherà il cranio come una scure di guerra.»
«Resisti a questa dunque!…»
Il nano fece un salto innanzi, poi si gettò a corpo perduto sull’avversario, vibrando con rapidità prodigiosa quattro o cinque colpi, l’uno più formidabile dell’altro. Invece di pararli, l’uomo-rettilesi gettò indietro come se temesse che la sciabola non potesse resistere a quei colpi, sfuggendo così a quell’impetuoso attacco.
«Il ramarro fugge!» gridarono i Dwergar, che assistevano a quel terribile duello.
«Tacete, tucani!» urlò. «Non mi conoscete ancora e vedrete quanto resisterà il vostro capo.»
«Da’ addosso… come cazzo ti chiami, coso!» gridò il dottore.
Faribûz, vedendo l’avversario sfuggirgli, mandò un urlo selvaggio e si slanciò innanzi provocandolo ferocemente.
«Tu non sei un guerriero, sei una donna! Se tu fossi il gran lottatore che ti vanti di essere, non scapperesti come una scimmia dalle chiappe rosse.»
«Aspetta l’ultimo colpo! Poi mi dirai se la mia sciabola taglia.»
«Ti ritiri sempre!…»
«Per accopparti meglio e scaraventarti nel fiume, brutto coccodrillo.»
«A me coccodrillo?!», disse Faribûz.
Il capo dei nani si avventò furiosamente, tempestando l’avversario di colpi formidabili che grandinavano fitti facendo scintillare l’acciaio, ma l’altro, che doveva essere realmente un famoso lottatore, li parò tutti con un’abilità che strappò grida di meraviglia ai suoi stessi nemici, poi fece un ultimo salto indietro.
Ma ad un tratto incespicò in una radice che non aveva scorto in tempo, cadendo così sul dorso. Il capo dei Nani, travolto dal suo stesso impeto, gli ruzzolò sopra, e i due, abbandonate le sciabole, cominciarono ad accapigliarsi a terra, tentando di strangolarsi l’un l’altro.
«Non vali più d’un vile sciacallo.»
«Para questa!…»
«Fatti sotto dunque e provati, se ne hai il coraggio.»
«Ti taglierò in due.»
«Femmina! Io ti disprezzo.»
«Muori, immondo sciacallo!…»
Il dottore mandò un grido a cui rispose un urlo sconnesso tra le fila dei Dwergar. Uno dei nani che formavano il cerchio attorno ai duellanti era ruzzolato a terra. Attraverso il varco si poteva intravedere, nell’oscurità quasi impenetrabile della giungla, una figura che correva come un fulmine verso gli alberi. Ci fu un attimo di imbarazzata confusione, prima che gli astanti si rendessero conto che Faribûz stava lottando furiosamente a terra, stringendo la coda dell’uomo lucertola… e nient’altro. I presenti, paralizzati dallo stupore, non pensarono neanche a sparare un colpo. Quando il capo finalmente si accorse degli sguardi attoniti, si fermò. Osservò la coda troncata, che si dibatteva negli ultimi spasmi nervosi. Osservò il dottore. Poi i suoi compagni. Poi di nuovo la coda. «Oddìo che schifo!», gridò, gettandola lontano. Si alzò, pulendosi le mani sui fianchi. Ci fu un attimo di imbarazzato silenzio. Poi, da lontano, in mezzo agli alberi, si udì la voce dell’uomo-lucertola: «Ha ha ha! Addìo, imbecilli! Baciatemi le mie chiappe squamose! E addio, uomo bianco! Spiacente, ma trovati un altro campione!»
«Beh», azzardò il dottore. «Direi a questo punto che il duello non è valido. Propongo di aggiornarci a nuov-»
«Zitto, spaventapasseri!», gridò Faribûz. «Mi avete fatto venire le palpitazioni, con questo scherzo, tu e il tuo compare! Legatelo e portatelo a bordo!», disse ai suoi nani. «Abbiamo perso fin troppo tempo.»
E così Eriprando Von Basedoff, per la seconda volta, fu fatto salire a spinte e calcagnate sul juggernaut. Due dei nani, prima di allontanarsi, gettarono un ultimo sguardo alla coda mozza. «Ma tu guarda se son scherzi da fare,» disse uno.
«Già,» assentì l’altro.
«La lasciamo qui?»
«Boh. Magari, alla griglia…»
«Andata», concluse il secondo, caricandosela in spalla.
Visto che di recente si è parlato (ma che stiamo a fare i fighi, se ne è parlato nel post precedente), su queste pagine, di ideologie reali o immaginarie, casca a faggiuòlo questo librettino, giunto nella nostra sconfinata biblioteca come colomba dal disìo chiamata o qualcosa del genere, grazie ad Azzurra, anobiiana genovese, cui rivolgiamo un saluto affettuoso & un sentitissimo GRAZIE! E dunque: Sparta! Ora, quando uno dice Sparta, la prima cosa cui si pensa è «Sparta, l’avversaria storica di Atene, durante, boh, le guerre del Peloponneso-». Anzi no, la prima cosa cui si pensa è un energumeno barbuto ma perfettamente depilato che grida «This is Spartaaaaa!». E giù mazzate. Cosa fu Sparta ce lo dice la storia: un esperimento sociale, una società perennemente in guerra, un tentativo destinato al fallimento di isolarsi dal mondo. Si, ma poi? Poi Sparta è uscita dalla storia ed è entrata nel mito.
Gli Apophtegmata Laconica di Plutarco sono una raccolta assai succosa di detti, aforismi e pinzillacchere, appunto sugli spartani, in genere composti sulla falsariga di “ma quanto sono fighi gli Spartani” (il nostro preferito? «Vedendo uno che faceva una colletta per le divinità, uno spartano disse che non aveva nessuna stima per un dio che fosse più povero di lui.». Applausi.). Il mito di Sparta ha avuto vita lunga, ben prima di Frank Miller ne parlarono Napoleone, Bismarck, i nazisti e compagnia bella (oddìo, bella – forse sarebbe più adatta l’espressione «cani & porci»). Come dar loro torto? L’idea di una società di Uguali, valorosi e fieri, avvezzi a sopportare ogni privazione e soprattutto certi di esser sempre nel giusto – chi non sentirebbe il fascino di tale mito?
Lo dice bene la succosa introduzione di Dario Del Corno, di cui riportiamo un brano che sembra scritto apposta per i nostri tempi:
«Il governo dei “migliori” contro quello dei mestieranti della politica; un reciproco controllo delle funzioni che era garanzia di equilibrio, contro la cronica instabilità delle democrazie; la sovranità della legge, contro la passionalità dei collegi giudicanti. Soprattutto, Sparta rappresentava la nostalgia della sobrietà: tanto nello strenuo controllo dei consumi […], quanto nell’economia della parola. Altrove la comunicazione era pervasa da fiumi di incontrollata emotività che intorbidavano la vita collettiva, sostituivano ai concetti le opinioni e le passioni, impostavano scelte affidate alla retorica anzichè alla persuasione, sollecitavano perversi protagonisti. Ma gli Spartani amavano tacere e, quando parlavno le loro frasi erano scabre e rade, come oracoli: andavano al cuore delle cose, e come questo erano talvolta indecifrabili».
Poi, ovviamente, come in ogni mito, ognuno ci vede quel che vuole, ed evita accuratamente quello che meno si adatta alla propria visione del mondo (che spesso col mito in questione c’entra assai poco). Per dire: il guerriero spartano è l’emblema della marzialità maschia e tracotante? Sì, ma a Sparta l’omosessualità era tollerata e praticata – anzi, uomini e donne, pur sposati non potevano dormire assieme. Gli Spartani, popolo sobrio e sdegnoso di lussi e comodità? Va bene, ma a) non si lavavano, b) non si tagliavano nè barba nè capelli, c) avevano diritto a un solo abito. Sai che pacchia (e mi limito a citare di sfuggita il piatto tipico spartano, il sinistro Brodo Nero).
Noi abbiamo abbandonato da tempo l’idea che i fatti storici possano avere un’interpretazione univoca, e poco ci stupisce che Sparta venga vista da alcuni come un’utopia e da altri come un covo di mentecatti guerrafondai. Sparta è diventata un simbolo, e come ogni simbolo ha molti significati, spesso contraddittori (chiedete a un indù cosa rappresenta la svastica, vi dirà che è un simbolo di buon augurio; chiedetelo a Calderoli – ma anche no). E’ assai probabile che gli Spartani fossero, alla fin fine, soltanto dei tizi, che avevano cercato un modo decente per vivere in questa valle di lacrime, come han sempre fatto tutti sin dall’alba dei tempi – senza trovarlo, peraltro, perchè la società perfetta non esiste, nè può esistere – visto che è fatta di uomini e gli uomini, per primi, non sono perfetti.
Resta, piuttosto, il valore, per così dire, «personale» di una simile raccolta. Perchè questo è uno dei classici “libri da comodino”, da sfogliar di tanto in tanto quando lo sdegno per la rilassatezza dei costumi e per la decadenza dei nostri tempi barbari & incivili rischiano di sopraffarci; e perchè la propria interiorità è l’unico posto dove si possa tentare di tradurre in realtà un mito senza far disastri; e, in effetti, senza arrivare al Brodo Nero of Doom, da questi austeri signori c’è ancora molto da imparare.
aprawoulf si svegliò dopo un breve sonnellino.
TAT-TAT-TAT
Stufo dello stallo stagnante stabilitosi sulla statica situazione si alzò ed uscì da dietro il tavolo.
“Allora?”
TAT
Un fagiolo lo colpì sulla fronte.
Kaprawoulf guardò il fagiolo, poi guardò il pinguino che lo aveva sparato.
“Allora?” ripetè.
Il pinguino guardò perplesso la cerbottana che aveva da poco preso il posto della fionda, poi lesto ricaricò e sparò nuovamente.
TAT
Il secondo fagiolo cadde a terra poco distante dal primo.
“Adesso vengo lì e la facciamo finita.”
Kaprawoulf si mosse verso il volatile i quale, resosi subitaneamente conto del pericolo, si involò a tutta velocità.
“Squeak!”
“Squeak un paio di palle. Se ti agguanto ti faccio arrosto.”
Kaprawoulf si lanciò all’inseguimento del pinguino seguito a ruota dalla compagnia intera (e forse anche seguito a compagnia da una ruota intera, le cronache non sono precise al riguardo).
Segue breve descrizione di quel che restava di Tapinambur dopo il passaggio delle feroci armate del Gorgonzuela:
Tapinambur era ridotta a schifio.
Segue breve descrizione dei tortuosi giri che Kaprawoulf e soci intrapresero tra e rovine della città all’inseguimento dell’implume pennuto incapace di volare:
Kaprawoulf e soci corsero dietro al pinguino per un po’.
Segue definizione della parola catarsi:
Catarsi (dal greco katharsis κἁθαρσις, “purificazione”) è un termine utilizzato per indicare la cerimonia di purificazione che si ritrova in diverse concezioni religiose ed in rituali magici che prescrivevano di solito il sacrificio di un capro espiatorio.
“Billo! Billo! Billissimo! Ne voglio ancora!”
“Ma Piccola Zufola, abbiamo appena raso al suolo un paese, cos’altro desideri per il tuo compleanno?”
Piccola Zufola saltava garrula e allegra tra le macerie di Tapinambur contemplando soddisfatta il suo regalo di compleanno.
Segue breve descrizione di Piccola Zufola:
Piccola Zufola era piccola. E zufola.
Proprio mentre la giovin pulzella stava per esprimere il suo ennesimo desiderio madre e figlia furono investite dalla corsa di un pinguino. Il volatile cadde rovinosamente a terra mostrando, se possibile, ancor meno grazia di quella esibita nel correre. Piccola Zufola e sua madre finirono a terra anch’esse. E sopra di loro precipitarono, nella foga del pinguino inseguimento Kaprawoulf, Flaffenberg, Erinnarinnirahannarica e compagnia danzante.
Non nel senso degli altri membri della compagnia, che pur non essendo danzanti stavano correndo e quindi erano in egual misura affaticati.
Segue un detto popolare di profonda saggezza:
Tanto va la gotta al lardo che ci lascia lo zampone.
“Preso!”
“Squek!”
Kaprawoulf agguantò il pinguino ed immediatamente nella sua testa risuonarono delle parole misteriose:
“La tua mente, nella mia mente. I tuoi pensieri, nei miei pensieri. Il tuo apino, contro il mio apino.”
ZUONK! (Suono di Kaprawoulf che cade in un profondo stato di trance mistico-cosmica).
Erinnarinnirahannarica si issò a sedere mentre la compagnia si rialzava (a parte lo sgabello che più su di tanto non può alzarsi) e mentre Fanfulla Seconda, regina del Gorgonzuela si sincerava del fatto che sua figlia fosse tutta intera. Lo era.
“Ehi! Tu sei il capo di mia sorella!” urlò Erinnarinnirahannarica puntando il dito verso la regina.
“Chi?”
“Tu!”
“Io cosa?”
“Sei il capo di mia sorella. Mi pareva di averlo appena detto.”
“E io ho chiesto chi?”
“Mammina.” si intromise Piccola Zufola.
“Ed io ho risposto tu! Ma ci senti?”
“Mammina.”
“Io lo so chi sono io. La domanda ‘Chi?’ era riferita a tua sorella. E per tua informazione ci sento benissimo, piccola idiota.”
“Mammina! Ho detto ‘mammina’, ma ci senti, cazzo?”
“Non adesso Piccola Zufola non vedi che la mamma è impegnata con una mentecatta?”
“Io lo so chi è mia sorella, che credi? Siamo cresciute insieme, la conosco meglio di te. Ed idiota sarà tua sorella.”
“Che c’entra mia sorella con tua sorella adesso?”
“Ah-ha! Vedi che ho ragione?”
“Su cos…”
Un lampo di illuminazione colse Fanfulla Seconda di Gorgonzuela. Solo un’altra volta nella vita aveva visto tanta idiozia concentrata in una persona sola.
“Tua sorella è Lombillarillamarillanina, l’ancella scema!”
“Lo so! Che credi? Che non sappia chi è mia sorella?”
La regina si rivolse raggiante verso la figlia.
“Allora Piccola Zufola, che ne dici, mettiamo anche lei a morire lentamente nelle segrete così il cerchio si chiude, eh?”
“Fa come vuoi mammina. Non mi interessa più. Io voglio quello!”
La pizzola Gufola, la zippola cutola… ehm… la Piccola Zufola stava indicando il platano che cominciava a sentirsi imbarazzato sotto gli occhi di tutti.
“Moi?” pensò l’albero.
“Porqua?”
tavolo.
“Allora?”
TAT
Un fagiolo lo colpì sulla fronte.
Kapreawoulf guardò il fagiolo, poi guardò il pinguino che lo aveva sparato.
“Allora?” ripetè.
Il pinguino guardò perplesso la cerbottana che aveva da poco preso il posto della fionda, poi lesto ricaricò e
sparò nuovamente.
TAT
Il secondo fagiolo cadde a terra poco distante dal primo.
“Adesso vengo lì e la facciamo finita.”
Kaprawoulf si mosse verso il volateile i quale, resosi subitaneamente conto del pericolo, si involò a tutta
velocità.
“Squeak!”
“Squeak un paio di palle. Se ti agguanto ti faccio arrosto.”
Kaprawoulf si lanciò all’inseguimento del pinguino seguito a ruota dalla compagnia intera (e forse anche seguito
a compagnia da una ruota intera, le cronache non sono precise al riguardo).
Segue breve descrizione di quel che restava di Tapinambur dopo il passaggio delle feroci armate del Gorgonzuela:
Tapinambur era ridotta a schifio.
Segue breve descrizione dei tortuosi giri che Kaprawoulf e soci intrapresero tra e rovine della città
all’inseguimento dell’implume pennuto incapace di volare:
Kaprawoulf e soci corsero dietro al pinguino per un po’.
Segue definizione della parola catarsi:
Catarsi (dal greco katharsis κἁθαρσις, “purificazione”) è un termine utilizzato per indicare la cerimonia di
purificazione che si ritrova in diverse concezioni religiose ed in rituali magici che prescrivevano di solito il
sacrificio di un capro espiatorio.
“Billo! Billo! Billissimo! Ne voglio ancora!”
“Ma piccola Zufola, abbiamo appena raso al suolo un paese, cos’altro desideri per il tuo compleanno?”
Piccola Zufola saltava garrula e allegra tra le macerie di Tapinambur contemplando soddisfatta il suo regalo di
compleanno.
Segue breve descrizione di Piccola Zufola:
Piccola Zufola era piccola. E zufola.
Proprio mentre la giovin pulzella stava per esprimere il suo ennesimo desiderio madre e figlia furono investite
dalla corsa di un pinguino. Il volatile cadde rovinosamente a terra mostrando, se possibile, ancor meno grazia
di quella esibita nel correre. Piccola zufola e sua madre finirono a terra anch’esse. E sopra di loro
precipitarono, nella foga del pinguino inseguimento Kaprawoulf, Flaffenberg, Erinnarinnirahannarica e compagnia
danzante.
Non nel senso degli altri membri della compagnia, che pur non essendo danzanti stavano correndo e quindi erano
in egual misura affaticati.
Segue un detto popolare di profonda saggezza:
Tanto va la gotta al lardo che ci lascia lo zampone.
“Preso!”
Kaprawoulf agguantò il pinguino ed immediatamente nella sua testa risuonarono delle parole misteriose:
“La tua mente, nella mia mente. I tuoi pensieri, nei miei pensieri. Il tuo apino, contro il mio apino.”
ZUONK! (Suono di Kaprawoulf che cade in un profondo stato di trance mistico-cosmica).
Erinnarinnirahannarica si issò a sedere mentre la compagnia si rialzava (a parte lo sgabello che più su di tanto
non può alzarsi) e mentre Fanfulla Seconda, regina del Gorgonzuela si sincerava del fatto che sua figlia fosse
tutta intera. Lo era.
“Ehi! Tu sei il capo di mia sorella!” urlò Erinnarinnirahannarica puntando il dito verso la regina.
“Chi?”
“Tu!”
“Io cosa?”
“Sei il capo di mia sorella. Mi pareva di averlo appena detto.”
“E io ho chiesto chi?”
“Mammina.” si intromise Piccola Zufola.
“Ed io ho risposto tu! Ma ci senti?”
“Mammina.”
“Io lo so chi sono io. La domanda ‘Chi?’ era riferita a tua sorella. E per tua informazione ci sento benissimo,
piccola idiota.”
“Mammina! Ho detto ‘mammina’, ma ci senti, cazzo?”
“Non adesso Piccola ZUfola non vedi che la mamma è impegnata con una mentecatta?”
“Io lo so chi è mia sorella, che credi? Siamo cresciute insieme, la conosco meglio di te. Ed idiota sarà tua
sorella.”
“Che c’entra mia sorella con tua sorella adesso?”
“Ah-ha! Vedi che ho ragione.”
“Su cos…”
Un lampo di illuminazione colse Fanfulla Seconda di Gorgonzuela. Solo un’altra volta nella vita aveva visto
tanta idiozia concentrata in una persona sola.
“Tua sorella è Lombillarillamarillanina, l’ancella scema!”
“Lo so! Che credi? Che non sappia chi è mia sorella?”
La regina si rivolse raggiante verso la figlia.
“Allora Piccola Zufola, che ne dici, mettiamo anche lei a morire lentamente nelle segrete così il cerchio si
chiude, eh?”
“Fa come vuoi mammina. Non mi interessa più. Io voglio quello!”
La pizzola Gufola, la zippola cutola… ehm… la Piccola Zufola stava indicando il platano che cominciava a
sentirsi imbarazzato sotto gli occhi di tutti.
“Moi?” pensò.
“Porqua?”