Diceva Don Juan che la paura è il primo dei quattro avversari dell’Uomo di Conoscenza. Almeno questo è quanto ci racconta Castaneda in “A Scuola dallo Stregone” – l’unico dei suoi libri, a quanto ci dicono, che valga la pena leggere. In effetti la paura è una faccenda complessa e interessante. Non parlo di quella reazione biologica che, di fronte a un ovvio ed immediato pericolo (una tigre affamata, un ultrà della Lazio, il Burzum dei vecchi tempi) manda in vena adrenalina e altre sostanze per prepararci alla fuga o all’attacco; nè di quel vago senso di apprensione che ci coglie e ci accompagna un po’ tutti in questi tempi oscuri. E nemmeno di quell’orrore cosmico, lovecraftiano, non-euclideo, che travolge la mente e l’animo come un torrente di paperi in fiamme (eh?) e precipita negli abissi della follia l’incauto che si spinge alle soglie della conoscenza; perchè questo è il risultato di esperienze limite: trovarsi in presenza del Grande Cthulhu, rendersi conto che se a Napolitano, Dio lo conservi, gli piglia un colpo, Renato Schifani diventa Presidente della Repubblica… cose di fronte alle quali l’unica via d’uscita è la pazzia. Ci sono però forme di paura più sottili, che paradossalmente richiedono un certo allenamento intellettuale: per esempio, Borges menziona, in “Tlon, Uqbar, Orbis Tertius“, lo specchio che “inquietava il fondo di un corridoio“, aggiungendo la constatazione, “a notte fonda inevitabile“, che “gli specchi hanno qualche cosa di mostruoso“. E come dargli torto.
Oppure gli inglesissimi racconti di M. R. James. James era, se non ricordo male, un bibliotecario, e scriveva per una ristretta cerchia di amici: «La sera prestabilita – dice un conoscente – il gruppo si ritrovava ad aspettare a lungo, finchè, generalmente verso le undici, Monty non appariva con l’inchiostro ancora umido sull’ultimo foglio. Tutti i lumi, meno uno, venivano spenti, e si dava inizio alla lettura». Erano storie di studiosi, di gentiluomini di campagna, di sagrestani, gente insomma pacata e tranquilla, che però si immischia, volente o nolente, per caso o volontariamente, in faccende a dir poco oscure.
Non aspettatevi serial killers, omicidi a catena, marziani e lupi mannari: i demoni di James sono «implacabili e straordinariamente pazienti», e i suoi racconti sono sottili, allusivi, quel genere di cose dove all’apparenza succede poco o nulla, ma se ti fermi a riflettere, dopo che hai chiuso il libro, e ti chiedi “e se capitasse a me?”, non puoi fare a meno di provare un brivido. E non si tratta di un brivido esotico, di spettri sumeri e demoni orientali: la maggior parte dei suoi racconti è ambientata nella campagna inglese, luoghi tranquilli, paciosi e sonnolenti; ma al calar della sera sembra che si aprano delle porte, dei passaggi per qualcosa, o qualcuno: quel genere di creature di cui parlano le leggende e le storie di tutti i paesi. “Sussistono qua e là luoghi isolati, tuttora bazzicati da creature singolari alle quali, una volta, chiunque poteva rivolgersi nello svolgimento delle faccende quotidiane, mentre ormai solo in rare occasioni, ogni tanti anni, ci si trova sulla loro strada e ci si accorge di loro; il che magari farà stare la gente semplice con l’animo in pace.” Già, perchè queste creature bisogna saperle trattare, e soprattutto, bisogna sapere come non farsi notare da loro. Come il signor Parkins, per esempio, che trova un vecchissimo fischietto sul quale, assieme a vari simboli misteriosi, è scritto QUIS EST ISTE QUI VENIT – chi è costui che viene? – e commette la leggerezza di suonarlo. Se poi la notte, in camera da letto, si accorge di non essere da solo, beh, peggio per lui.
O i signori Somerton e Brown, che scendono nel pozzo di una chiesa di campagna alla ricerca del tesoro di un abate medievale, incuranti dell’iscrizione che avverte: «vi ho posto un custode. Guai a chi la tocca.»
O il signor Burton, nel racconto che dà il titolo a questo post, che, dopo aver commesso un delitto, inciampa in un cartello pubblicitario strappato: dello slogan originario, “Full Particulars“, rimangono leggibili solo tre lettere: I.C.U.: I see You: io ti vedo.
Sono racconti strani, dal tono pacato e così terribilmente british; ma dietro questa patina di ironia e di apparente leggerezza, si nasconde la consapevolezza di un altro mondo, oscuro e affascinante al tempo stesso; e non sono racconti per tutti, perchè trattano di orrori suggeriti, accennati, còlti con la coda dell’occhio – anzi, di un occhio interiore la cui vista è, nel migliore dei casi, assai offuscata. «Vi sono forme profonde, organiche, di paura, forme da dirsi esistenziali perchè non esaurientisi in stati psicologici del singolo ma procedenti da sensazioni abissali. Essere incapaci di sentir paura, in tal caso, può essere perfino segno di inspessimento e di piattezza spirituale.» Nonostante sia di quel diavolaccio di Evola, questa citazione sembra assai pertinente e meritevole di ulteriori riflessioni, così come le parole con cui James conclude la postfazione al suo volume:
«Nella tarda serata di lunedì un rospo è penetrato nel mio studio; e anche se finora non c’è stato nulla, a quanto pare, che avesse a che fare con l’apparizione, ho l’impressione che non sia troppo prudente lasciarsi andare a pensieri che potrebbero schiudere l’occhio interiore alla presenza di ospiti ben più spaventosi.
Perciò, basta così.»
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Le opere di M.R. James sono disponibili aggràtis, ma in inglese, qui su Project Gutenberg.
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