Cosa fa un uomo quando scopre di essere l’ultimo essere umano sul pianeta Terra? Si veste come un pascià, si fa crescere una barba da principe assiro, si dedica all’incendio sistematico di tutte le grandi città del mondo e si costruisce un tempio d’oro e gioielli al centro di un lago di vino.
«La Nube Purpurea», di M. P. Shiel, 1901, curioso romanzo di protofantascienza, parla proprio di questo: di come occupare il tempo quando si ha un pianeta tutto per noi. Il signor Jeffson, infatti, di ritorno dal Polo Nord, ha questa sgradita sorpresa. Cosa ci faceva al Polo Nord? Faceva parte di una spedizione cartografica. Ormai il globo terracqueo era completamente mappato, descritto e misurato: tranne il Polo. Doveva esserci qualcosa di sinistro, di vagamente iettatorio, a quei tempi (il romanzo è del 1901), nell’idea di mappare completamente la terra; come se il portare alla luce l’ultimo angolo di mondo ancora inesplorato fosse qualcosa di sacrilego (e infatti nel romanzo non manca il prete che ammonisce gli esploratori contro l’inevitabile castigo divino), una hubris meritevole di una nemesis inevitabile, come diceva, con notevole abbondanza di paroloni, il buon Isaac Asimov. In effetti, al Polo Nord il signor Jeffson non trova orsi bianchi, narvali e foche: trova un lago di occhi dal cui centro si erge un immenso pilastro istoriato. Una visione impressionante e lovecraftiana, che l’esploratore non può condividere con nessuno, visto che per arrivare primo all’agognata meta ha abbandonato alcuni compagni e altri li ha abbattuti a fucilate: proprio una personcina fine, il nostro signor Jeffson. Comunque sia, il rientro alla civiltà comporta per mr. Jeffson la sgradita sorpresa di cui sopra: sono tutti morti. Leggendo i giornali scopre che, in concomitanza con il suo arrivo al polo, dal polo opposto si è liberata una nube di gas venefico, una Nube Purpurea, appunto, che ha sterminato prima tutti gli abitanti dell’emisfero meridionale, uomini, donne, cani, gatti e pecore, per poi risalire verso nord. Jeffson vaga sconvolto tra scene da girone infernale, morti accatastati a centinaia, chi nelle chiese in cerca di salvezza, chi nei ristoranti e nelle sale da ballo per divertirsi fino all’ultimo, chi nelle cantine, nelle soffitte, nelle stazioni della metropolitana. Alla fine l’unica cosa che può fare è recarsi all’ambasciata turca e vestirsi da pascià.
Ovvio, no?
Se fin qui «La Nube Purpurea» è un romanzo fantastico, allucinato e terrificante, da qui in poi Shiel sbarella completamente e si parte per un viaggio psichedelico di vent’anni: il tempo che Jeffson impiega a girare tutto il mondo per dar fuoco alle grandi città – da Parigi a Pechino, con la sua barchetta carica di dinamite, oppure in treno (Jeffson è un macchinista provetto, e la sua locomotiva non ha bisogno di rotaie, no, dico) e per costruirsi un tempio in quanto sovrano assoluto del pianeta (tra parentesi la descrizione di questo capolavoro d’oro, marmi pregiati e gemme preziose è una cosa spettacolare, degna di Ninive la Superba, che diventa ancor più spettacolare quando si fanno due conti sulle misure che il nostro eroe ci fornisce con la massima serietà tipica dei matti e da cui si ricava che questo palazzo è grande sì e no come una cabina del telefono). Fino a quando, vent’anni dopo, un po’ invecchiato e ingrassato, con una barba da ZZ Top, si ricorda di non aver ancora dato fuoco a Istanbul, prende la barchetta e via. E a Istanbul incontra una ragazza, incredibilmente, l’unico altro essere umano ancora in vita, che era nata appena dopo il passaggio della nube maledetta e che aveva passato tutta la vita nella cantina dove la madre aveva cercato inutilmente rifugio. Già. A questo punto c’è solo da farvi notare che Jeffson di nome fa Adam e il resto è storia (più o meno: in realtà per i primi anni Jeffson non ne vuol sapere di ridar vita al genere umano, e come dargli torto, e fugge inseguito dalla ragazza. Poi però mette la testa a posto, scatta l’orologio biologico, si taglia la barba, si veste da persona seria e si sa come va a finire).
Nello slang internettiano dei nostri tempi c’è un’espressione, anzi, un acrostico, che riassume perfettamente «La Nube Purpurea»: WTF? Che dire di un romanzo del genere? E’ una specie di incubo espressionista, un libro farraginoso e ossessivo; è una storia talmente orribile da risultare quasi comica, un labirinto pieno di vicoli ciechi e di ripetizioni sfiancanti, un oggetto spigoloso e sfaccettato, da aprire con cautela, come la Scatola di Lemarchand. Giorgio Manganelli lo definì un libro «matto e rapinoso», e ditemi voi se avete mai letto un libro di cui potete dire «sto leggendo un libro» «ah, com’è?» «è un libro matto e rapinoso». Questa recensione del Mangialibri lo paragona a una sceneggiatura scritta a 4 mani da Verne e Baudelaire; ma il miglior commento è quello di J. Rodolfo Wilcock, che ne ha curato l’edizione italiana:
Che “La nube purpurea”, pubblicata nel 1901, sia un capolavoro, continuamente più riuscito e trascendente di un qualsiasi romanzo di Emile Zola – per nominare a caso un grande famoso sull’orlo del secolo – sembra non solo accertabile in sede di lettura, ma anche dimostrabile in sede critica. Se si paragonano gli argomenti profferiti, nel romanzo di Zola troveremo probabilmente una famiglia torbida, un padre ubriaco, una figlia prostituta, la differita constatazione che i poveri sono poveri, che gli avari sono avari e che i parigini abitano a Parigi: se a un tratto apparissero tra i personaggi un egizio, o semplicemente un pesce volante, ho l’impressione che il romanzo barcollerebbe, a dimostrare la fragilità della sua struttura. Nel romanzo di Shiel vengono proposte invece, tra molte altre cose, e senza barcollare: 1. la fine del mondo e relativa morte dell’umanità (con la singolare eccezione della moglie del Sultano di Turchia); 2. la scoperta del Polo Nord, che è un lago pieno di occhi con nel centro un’iscrizione che nessuno mai leggerà; 3. l’incendio e distruzione col tritolo di Londra, Parigi, Bordeaux, Bombay, Pechino, Nagasaki, San Francisco e Costantinopoli; 4. la scomparsa per affondamento dell’intera Italia meridionale (con la singolare eccezione dell’isola di Stromboli e di un frammento della provincia di Enna); 5. la Seconda Consumazione del Peccato Originale nella cabina di una nave al largo di Portsmouth; 6. la lotta ventennale tra i Geni del Bene e del Male che si contendono gli ovvi vantaggi di questa ripetizione della Caduta primigenia… […] Ma il libro ha molte pagine e non sembra possibile né conveniente elencarne tutte le sorprese: si voleva soltanto segnalare che i normali romanzi della fine Ottocento racchiudevano in genere eventi più comuni, e racchiudevano meno eventi.
Parole sante.
Su Feedbooks si trova aggratis la versione inglese; su questo ambiguo sito, invece, quella in italiano, non so quanto legale; su uichipèdia la biografia dell’autore, che fra l’altro fu incoronato re di un’isoletta dei Caraibi col nome di Felipe Primo; il che vorrà pur dire qualcosa.
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