La Nube Purpurea

Cosa fa un uomo quando scopre di essere l’ultimo essere umano sul pianeta Terra? Si veste come un pascià, si fa crescere una barba da principe assiro, si dedica all’incendio sistematico di tutte le grandi città del mondo e si costruisce un tempio d’oro e gioielli al centro di un lago di vino.
«La Nube Purpurea», di M. P. Shiel, 1901, curioso romanzo di protofantascienza, parla proprio di questo: di come occupare il tempo quando si ha un pianeta tutto per noi. Il signor Jeffson, infatti, di ritorno dal Polo Nord, ha questa sgradita sorpresa. Cosa ci faceva al Polo Nord? Faceva parte di una spedizione cartografica. Ormai il globo terracqueo era completamente mappato, descritto e misurato: tranne il Polo. Doveva esserci qualcosa di sinistro, di vagamente iettatorio, a quei tempi (il romanzo è del 1901), nell’idea di mappare completamente la terra; come se il portare alla luce l’ultimo angolo di mondo ancora inesplorato fosse qualcosa di sacrilego (e infatti nel romanzo non manca il prete che ammonisce gli esploratori contro l’inevitabile castigo divino), una hubris meritevole di una nemesis inevitabile, come diceva, con notevole abbondanza di paroloni, il buon Isaac Asimov. In effetti, al Polo Nord il signor Jeffson non trova orsi bianchi, narvali e foche: trova un lago di occhi dal cui centro si erge un immenso pilastro istoriato. Una visione impressionante e lovecraftiana, che l’esploratore non può condividere con nessuno, visto che per arrivare primo all’agognata meta ha abbandonato alcuni compagni e altri li ha abbattuti a fucilate: proprio una personcina fine, il nostro signor Jeffson. Comunque sia, il rientro alla civiltà comporta per mr. Jeffson la sgradita sorpresa di cui sopra: sono tutti morti. Leggendo i giornali scopre che, in concomitanza con il suo arrivo al polo, dal polo opposto si è liberata una nube di gas venefico, una Nube Purpurea, appunto, che ha sterminato prima tutti gli abitanti dell’emisfero meridionale, uomini, donne, cani, gatti e pecore, per poi risalire verso nord. Jeffson vaga sconvolto tra scene da girone infernale, morti accatastati a centinaia, chi nelle chiese in cerca di salvezza, chi nei ristoranti e nelle sale da ballo per divertirsi fino all’ultimo, chi nelle cantine, nelle soffitte, nelle stazioni della metropolitana. Alla fine l’unica cosa che può fare è recarsi all’ambasciata turca e vestirsi da pascià.
Ovvio, no?
Se fin qui «La Nube Purpurea» è un romanzo fantastico, allucinato e terrificante, da qui in poi Shiel sbarella completamente e si parte per un viaggio psichedelico di vent’anni: il tempo che Jeffson impiega a girare tutto il mondo per dar fuoco alle grandi città – da Parigi a Pechino, con la sua barchetta carica di dinamite, oppure in treno (Jeffson è un macchinista provetto, e la sua locomotiva non ha bisogno di rotaie, no, dico) e per costruirsi un tempio in quanto sovrano assoluto del pianeta (tra parentesi la descrizione di questo capolavoro d’oro, marmi pregiati e gemme preziose è una cosa spettacolare, degna di Ninive la Superba, che diventa ancor più spettacolare quando si fanno due conti sulle misure che il nostro eroe ci fornisce con la massima serietà tipica dei matti e da cui si ricava che questo palazzo è grande sì e no come una cabina del telefono). Fino a quando, vent’anni dopo, un po’ invecchiato e ingrassato, con una barba da ZZ Top, si ricorda di non aver ancora dato fuoco a Istanbul, prende la barchetta e via. E a Istanbul incontra una ragazza, incredibilmente, l’unico altro essere umano ancora in vita, che era nata appena dopo il passaggio della nube maledetta e che aveva passato tutta la vita nella cantina dove la madre aveva cercato inutilmente rifugio. Già. A questo punto c’è solo da farvi notare che Jeffson di nome fa Adam e il resto è storia (più o meno: in realtà per i primi anni Jeffson non ne vuol sapere di ridar vita al genere umano, e come dargli torto, e fugge inseguito dalla ragazza. Poi però mette la testa a posto, scatta l’orologio biologico, si taglia la barba, si veste da persona seria e si sa come va a finire).
Nello slang internettiano dei nostri tempi c’è un’espressione, anzi, un acrostico, che riassume perfettamente «La Nube Purpurea»: WTF? Che dire di un romanzo del genere? E’ una specie di incubo espressionista, un libro farraginoso e ossessivo; è una storia talmente orribile da risultare quasi comica, un labirinto pieno di vicoli ciechi e di ripetizioni sfiancanti, un oggetto spigoloso e sfaccettato, da aprire con cautela, come la Scatola di Lemarchand. Giorgio Manganelli lo definì un libro «matto e rapinoso», e ditemi voi se avete mai letto un libro di cui potete dire «sto leggendo un libro» «ah, com’è?» «è un libro matto e rapinoso». Questa recensione del Mangialibri lo paragona a una sceneggiatura scritta a 4 mani da Verne e Baudelaire; ma il miglior commento è quello di J. Rodolfo Wilcock, che ne ha curato l’edizione italiana:

Che “La nube purpurea”, pubblicata nel 1901, sia un capolavoro, continuamente più riuscito e trascendente di un qualsiasi romanzo di Emile Zola – per nominare a caso un grande famoso sull’orlo del secolo – sembra non solo accertabile in sede di lettura, ma anche dimostrabile in sede critica. Se si paragonano gli argomenti profferiti, nel romanzo di Zola troveremo probabilmente una famiglia torbida, un padre ubriaco, una figlia prostituta, la differita constatazione che i poveri sono poveri, che gli avari sono avari e che i parigini abitano a Parigi: se a un tratto apparissero tra i personaggi un egizio, o semplicemente un pesce volante, ho l’impressione che il romanzo barcollerebbe, a dimostrare la fragilità della sua struttura. Nel romanzo di Shiel vengono proposte invece, tra molte altre cose, e senza barcollare: 1. la fine del mondo e relativa morte dell’umanità (con la singolare eccezione della moglie del Sultano di Turchia); 2. la scoperta del Polo Nord, che è un lago pieno di occhi con nel centro un’iscrizione che nessuno mai leggerà; 3. l’incendio e distruzione col tritolo di Londra, Parigi, Bordeaux, Bombay, Pechino, Nagasaki, San Francisco e Costantinopoli; 4. la scomparsa per affondamento dell’intera Italia meridionale (con la singolare eccezione dell’isola di Stromboli e di un frammento della provincia di Enna); 5. la Seconda Consumazione del Peccato Originale nella cabina di una nave al largo di Portsmouth; 6. la lotta ventennale tra i Geni del Bene e del Male che si contendono gli ovvi vantaggi di questa ripetizione della Caduta primigenia… […] Ma il libro ha molte pagine e non sembra possibile né conveniente elencarne tutte le sorprese: si voleva soltanto segnalare che i normali romanzi della fine Ottocento racchiudevano in genere eventi più comuni, e racchiudevano meno eventi.

Parole sante.

Su Feedbooks si trova aggratis la versione inglese; su questo ambiguo sito, invece, quella in italiano, non so quanto legale; su uichipèdia la biografia dell’autore, che fra l’altro fu incoronato re di un’isoletta dei Caraibi col nome di Felipe Primo; il che vorrà pur dire qualcosa.


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Il Calendario di Frate Cazzaro – Aprile 2011

invito La Squadra Cazzate è lieta di invitarvi alla mostra pittorica:

 

I viaggi allucinanti di Pellegrino Artusi

Ben più di una mostra di semplici quadri, si tratta di un viaggio nel mondo meraviglioso in cui da sempre vagano le nostre menti! Venite ad osservare la tragedia metropolitana di Guernicchia, salpate per l’infinito con Capitan Mangrovia, perdetevi nelle arzigogolate volute delle Aerocazzate! Tutto questo ed altro ancora potete ammirarlo qui:

OUTBACK
via Tenca 10 – Milano

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Il collezionoscopio di Frate Cazzaro
Non tutti sanno che il noto frate è un avaro ed attento collezionista di reliquie e mirabili oggetti del passato. Peculiarità della peculiare collezione è che si tratta unicamente di oggetti contenenti la parola ‘copio’ nel nome. Si va dalla mummia di Procopio d’Amputania, detto il Calarandelli, all’unico esemplare rimasto di Rotoscopio a Elica. Un attrezzo molto usato nel settecento ma la cui funzione rimane tutt’oggi un mistero.

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Frate Cazzaro e il Caleidoscopio dell’Indifferenza
Inventato in Olanda verso la fine del diciassettesimo secolo, il Caleidoscopio dell’Indifferenza doveva essere uno strumento per tener buoni i bambini. Bastava un’occhiata dentro il tubo con specchi rifrangenti per indurre i fanciulli in uno stato di apatia. Purtroppo l’effetto a cascata che ebbe sulla popolazione dell’Europa, unito all’assuefazione ed alla difficoltà di tornare ad un lucido stato di coscienza, causarono un’ondata di imbecillità che ancora oggi si può riscontrare ad esempio ascoltando delle conversazioni a caso sul tram.
Frate Cazzaro e il Monoscopio del Potere
Rinvenuto tra le reliquie di Sant’Antenna da Catodo il monoscopio del potere è oggi esposto al Museo Cazzaro delle Minchiate di Nostro Signore. Per ammirarlo basta recarsi al museo e sborsare un deca.

 

***

Frate Cazzaro e l’Oscilloscopio della Morte
Poco altro da riferire su questo pericolosisssimo e misteriosisssimo oggetto. Si dice che a fissare senza interruzione il suo movimento sinusoidale per tre mesi la morte sia inevitabile.

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Frate Cazzaro e il Cronoscopio delle Cazzate
Si tratta di un sublime meccanismo che se attivato in presenza di cazzate è capace di portare il tempo indietro di qualche secondo al fine di ripetere che si tratta di un sublime meccanismo che se attivato in presenza di cazzate è capace di portare il tempo indietro di qualche secondo…

 

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Frate Cazzaro e il Periscopio della Saggezza
Un mirabile artefatto opera dei ricercatori nazi-mistici del Terzo Reich avrebbe dovuto cambiare le sorti del conflitto mondiale infondendo la saggezza del mondo dei capitani di vascello delle armate del Fuhrer. Purtroppo non solo non infuse alcuna saggezza in alcuno, ma neanche funzionava come periscopio.

 

***

Frate Cazzaro ed il Cornucopio dell’Inutilità
Un conchiglione di plastica rosa di dubbia origine (alcuni sostengono trattarsi di un falso per via del marchio ‘made in Taiwan’ chiaramente visibile) che si dice abbia portato immense ricchezze al Visir Susuf Pufpuf de Gramballà, ma che molti ritengono essere un inutile conchiglione di plastica rosa di dubbia origine.

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Il Santo del Mese

 

Sciopero

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Ordini dall’alto

 

E mi voltai e alzai gli occhi. E vidi un rotolo volante. E mi disse: che cosa vedi? Risposi: io vedo un rotolo volante, lungo venti cubiti e largo dieci. E mi disse: questa è la maledizione che esce sopra la faccia di tutta la terra; perchè chiunque ruba, come ivi sta scritto, sarà giudicato; e chiunque spergiura, come ivi sta scritto, sarà giudicato similmente.

Zaccaria, V, 1

Ordini dal basso

 

Virtù di alcuni animali
Introducendo in una notte stellata sangue di cammello entro una borsa fatta con pelle di tarantola, ci parrà di vedere un gigante, la cui testa tocchi la volta celeste.

Il Vero Libro Infernale

Fregio04


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Il Serpente Ouroboros

I Guerrieri di Demonland. Notate i baffetti.

Ah! Il «Serpente Ouroboros»! Uno dei capolavori indiscussi del fantasy d’ogni tempo! Un epica saga ambientata sul pianeta Mercurio! Dove gli eroi di Demonland combattono i malvagi emissari di Witchland aiutati dai fedeli alleati di Pixyland e poi –

Ehm. Con calma.
Mi rendo perfettamente conto che se qualcuno mi proponesse di leggere un libro in cui gli eroi della Terra dei Demoni combattono i malvagi emissari della Terra delle Streghe aiutati dai fedeli alleati della Terra delle Fatine probabilmente gli concederei due minuti di vantaggio prima di liberare i coguari: per cui, andiamo con ordine.
La cosa è andata più o meno così. Ho finito il 2010 leggendo «Wunderkind – una lucida moneta d’argento» di GL d’Andrea. Visto come si è concluso l’anno passato, si può dire che sia stata una lettura azzeccata. Perchè abbia scelto di farmi del male leggendo una simile… ehm… insomma… è una storia lunga.
Fatto sta che mi ci voleva una bella botta di high fantasy come si deve – e in questo campo, ci crediate o no, il «Serpente Ouroboros» è uno dei migliori. Trattasi di un bel romanzone del ’22, scritto da tale Eric Rucker (anzi, Rücker, secondo wikipedia, con l’umlaut da vero metallaro) Eddison, leale suddito di sua maestà britannica, cresciuto a pane e mitologia antica, greca, nordica, celtica – e si vede.

Giusto per dare un’idea, immaginate un mix tra il Signore degli Anelli, l’Orlando Furioso, l’Iliade e le tragedie shakespeariane: questo è il «Serpente Ouroboros». E’ davvero un libro «larger than life», come dicono gli inglesi, un libro senza uguali, sia nel bene che nel male. Nel senso che non è un’opera priva di pecche e imperfezioni, e forse conviene passarle subito in rassegna così, se siete di quelli che giudicano un libro in base alla gestione del punto di vista, alla distribuzione degli avverbi o alla coerenza filologica, potete risparmiarvi la fatica di leggerlo.

  • Il signor Lessingham. La storia ci viene propinata sotto forma di una specie di sogno, di visione, che un tale mr. Lessingham, sognatore professionista alla Randolph Carter, intraprende nella sua casetta nella placida campagna inglese. Peccato che a metà del secondo capitolo Lessingham sparisca da un paragrafo all’altro e di lui non si sappia più nulla. Come se l’autore se lo fosse dimenticato. In effetti si possono capire i critici che come Lin Carter hanno definito la faccenda «imbarazzante». D’altra parte, se lo scopo di Lessingham è quello di introdurre il lettore nel mondo in cui la storia è ambientata, il suo compito lo svolge. Come dire che se un amico ci accompagna al cinema non è che per tutto il film teniamo d’occhio l’amico. Oppure sì, ma non è questo il punto.
  • Mercurio e le corna dei demoni. La storia è ambientata sul pianeta Mercurio. O almeno così viene detto a Lessingham. Ma dopo la prima menzione, della faccenda non v’è più traccia. Non che importi molto, visto che ambientare una saga fantasy su un pianeta la cui temperatura diurna è di 350° non ha molto senso. Probabilmente Eddison aveva in mente qualcosa di simbolico, o forse ha scritto la prima minchiata che gli è venuta in mente. Comunque sia, questa faccenda di buttare lì un nome e non dar seguito alla cosa si ripete altre volte: per esempio ci viene detto che i protagonisti, abitanti della Terra di Demonland, sfoggiano un bel paio di corna sulla fronte. Corna d’ariete o d’antilope, e visto che stiamo parlando di principi e nobili signori, sono corna coperte d’oro, di gemme e pietre preziose. Dopodichè non si fa più menzione della cosa. Peccato, perchè Lord Spitfire, con la chioma bionda, la folta barba, la corazza nera, le corna adorne di gemme e piume d’aquila e un filo di fumo che gli esce dalle narici quando si inca**a, è davvero un’immagine epica.
  • I nomi. Già l’idea della Terra di Demonland può far venir la pelle d’oca a molti lettori; sapere che gli altri regni di Mercurio sono Witchland, Pixieland, Goblinland e così via può spingere i più esigenti a gettare il volume dalla finestra e a dedicarsi a R.R. Martin. Tolkien, che era pur sempre filologo fin nel midollo, lamentava proprio la scarsa coerenza interna dei nomi; per esempio, tra i Demoni troviamo Juss, Vizz, Zigg, Spitfire e Goldry Bluszco; altrove ci sono Fax Fay Faz, Lord Gro, Gandassa e Jalcanaius Fostus o qualcosa del genere. Molti di questi nomi risalgono all’infanzia di Eddison, quando si inventava le prime storie di eroi un po’ fumettosi che se le davano di santa ragione. Evidentemente aveva scelto come nomi parole che semplicemente gli piacevano, e li ha tenuti anche se, a distanza di anni, potevano sembrare un po’ idioti. Non so voi, ma io trovo questa fedeltà alle proprie cazzate giovanili commovente.
  • Il problema della traduzione. Un nostro caro amico definisce la versione italiana pubblicata da Fanucci «la bibbia del mattacchione» ed è in effetti vero che raggiunge picchi di nonsense decisamente lisergici. Il fatto è che il libro è scritto in un inglese arcaico, anzi, elisabettiano: uno stile potente, strabordante, eccessivo (anzi, quel genere di libro che fa venire voglia di leggerlo ad alta voce, magari in piedi; Eddison attinse a piene mani, citando le fonti nell’appendice, dalle opere di Shakespeare, Webster e altri) – ma piallato senza pietà da una traduzione banale. Solo che – e qui viene la parte psichedelica – la versione originale era corredata da note esplicative nel caso uno non sapesse cosa fosse un «firkin» o cosa volesse dire «strath». Le note sono state lasciate tali e quali. Così, mentre nella versione inglese possiamo scoprire che «strath» è un arcaismo per «valley», in quella italiana scopriamo con indubbio stupore che la parola «valle» significa «una valle». Voglio lavorare anch’io alla Fanucci. Dev’essere tipo una comune di hippies. Vabbè.

***

Ma a parte questo, cari i miei cosi, «Il Serpente Ouroboros» è un librone. E’ una storia di eroi e traditori, di battaglie colossali, di viaggi in terre misteriose, di mostri orrendi e principesse incantate, di magia e incantesimi e alpinismo. E mazzate come se piovessero. Per stabilire chi sia il più figo di tutti, il Re di Witchland sfida i signori di Demonland (Demonland è governata in pace e armonia da tre fratelli: Juss, Goldry Bluszco e Spitfire) a un duello. Un incontro di lotta, per la precisione: così Re Gorice XI e Goldry Bluszco si incontrano in territorio neutrale, nudi e coperti d’olio, e se le danno di santa ragione. Alla fine è chiaro chi abbia vinto, visto che Gorice giace a terra col collo spezzato. Ma c’è un ma, altrimenti la storia si chiuderebbe dopo cinquanta pagine. Quando uno dei Re di Witchland muore si apre una porta misteriosa nella Torre di Ferro di Carcë, la capitale, e ne esce – dagli abissi infernali – il nuovo Re, che conserva tutti i ricordi e le capacità dei suoi predecessori. Così Gorice XII esce dalla torre con la sua bella corona di ferro a forma di granchio e medita vendetta: evoca un emissario infernale che rapisce Goldry e lo porta chissà dove. I compagni, ovviamente, giurano di non aver riposo finchè non lo ritroveranno. La storia così si biforca: da una parte Juss, guidato da incantesimi e sogni profetici, gira mezzo mondo alla ricerca del fratello; dall’altra Spitfire difende Demonland dagli attacchi degli eterni avversari cui non sembra vero di essersi levati di torno due terzi dei loro più temuti avversari. In mezzo, intrighi e lotte alla corte di Re Gorice, i cui campioni sembrano assai inclini a pugnalarsi alle spalle, metaforicamente ma più spesso per davvero. E così la storia va avanti, tra battaglie campali e duelli all’ultimo sangue, incantesimi e maledizioni, ippogrifi e manticore, fantasmi e prodigi, ma soprattutto personaggi indimenticabili. Lord Gro, il consigliere di Re Gorice, malinconico filosofo, spinto da un insano amore per le cause perse a schierarsi sempre con la parte più debole (Witchland all’inizio, Demonland poi); i generali di Witchland, il vecchio Corund, testa rasata e immensa barba da re assiro, spadone e mantello di pelle di lupo, e Corinius, giovane, bello, impetuoso e completamente folle; e poi i signori di Demonland, e una schiera di principesse orgogliose, regine guerriere, tentatrici e incantatrici al pari di Lady Macbeth o angeliche presenze ultraterrene su cui mi permetterete di sorvolare sennò non andiamo più a casa.

E quando alla fine Witchland cade, ed è chiaro che dopo il dodicesimo Gorice non ce ne sarà un tredicesimo, i signori di Demonland si guardano in faccia e dicono: e adesso? Adesso che al mondo non c’è più nessuno al loro livello, che faranno? Come l’ispettore Zenigata senza Lupin, i nostri eroi si sentono dimezzati, inutili, e la vittoria non sembra più così luminosa. Anche perchè, sebbene su campi opposti, i due regni si riconoscevano quasi come pari: questa è una storia di eroi, dopotutto, e diversamente da Tolkien, in cui è l’uomo comune alla fine a salvare la baracca, qui sono tutti nobili e fighi e in più di un’occasione i guerrieri di Witchland danno prova di onore e lealtà tanto quanto i loro avversari. «Siamo nel regno del melodramma aristocratico,» scriveva Fritz Leiber in una sua recensione, «che non si preoccupa tanto di contrapporre il bene al male, quanto di mettere in scena onorevoli principi, bellicosi e ambiziosi, che si battono contro nemici disonorevoli in vario grado; ma tutt’e due le parti vivono per compiere gesta che stupiranno il mondo». Così gli Dèi concedono ai nostri eroi un desiderio: e il giorno dopo le navi di Carcë arrivano alle porte di Demonland, e un messo giunge a corte portando la sfida di Gorice XI. Il tempo, come il Serpente Ouroboros, si è mangiato la coda, e la storia incomincia daccapo.

Il che vuole forse significare qualcosa?  Chissà. «Questa non è nè un’allegoria nè una favola,» dice Eddison nell’introduzione, «ma una Storia da leggere per il gusto di leggerla». Ed è vero. E’ un libro meraviglioso ed eccessivo, un’opera di altri tempi; è un’opera profondamente «pagana», se mi passate il termine, a volte dionisiaca, nell’esaltazione della guerra, della lotta e della natura selvaggia, e a volte invece «solare», nobile, impassibile, profondamente aristocratica. E soprattutto è un’opera «circolare», che proprio per questo si sottrae al tempo storico per collocarsi nell’universo del mito, là dove Witchland e Demonland, come «il veltro e il cinghiale, continuano la trama di sempre, ma riconciliati tra gli astri».


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Il Calendario di Frate Cazzaro – Marzo 2011

fiabe-grande La Squadra Cazzate è fiera di presentare di nuovo:
(Lo abbiamo già detto, è vero, ma conoscendovi non fa certo male ribadire.)

Le Fiabe Impopolari del Fungo Sospetto!

Frammenti di tradizioni quasi scomparse (e ci sarà un perchè), frattaglie di saggezza contadina e sub-urbana, le fiabe non sono, come molti pensano, semplici sciocchezze per tener buoni gli allocchi, ma contengono profondi insegnamenti cui un giorno potrete rivolgervi con gratitudine nel caso vi trovaste aggrediti da un coguaro o da un leucrotta o sperduti in cu… ehm, ci siamo capiti. Ma basta chiacchiere! La parola al Fungo Sospetto!

CAPITO?
(e compratelo allora…)

Non indugiate oltre! Correte a comprare questo fantasmagorico libro pieno di azione, romanticismo e cazzate!
Le Fiabe Impopolari vi aspettano qui!

1103mese

Frate Cazzaro e la congrega massonica degli adepti di dio Porfirio
“Ahumm Porfirii. Sancto putrellimo tra gli uzzari dell’Ade,
proteggici dal dio Palafreniere e dalla minaccia del terribile scorfano rosso volante,
liberaci dall’olezzo salmodiante della tonaca grigia e dall’alopecia,
salvaci da tutte quelle altre cose lì che ora ci sfuggono
o quanto meno smettila di tirarci i sampietrini in testa dal paradiso.
Amen.”

1103main

Egizio Perpetrarca
Architetto fiorentino a cui si devono la cappella di Santa Spatazza ad Orvieto e la cattedrale a doppia elica di Florianopoli.
Migliora il tuo vocabolario:
Collegare: Competizioni che si svolgono in collina. Es: “Sono arrivato secondo alle collegare di ruzzolamento di latticini a San Gemignavo.”
1103calendariobis
Le ultime parole di Socrate
“Cretino, dobbiamo un gallo ad Asclepio. Per quel che mi riguarda si può anche impiccare.”1103semina01

L’ultima notte di marzo,
in Ossiria, si è soliti festeggiare la festa della Pappamalora. In cui gli abitanti dei villaggi scendono in strada a notte fonda coperti di porridge urlando a squarciagola testi delle canzoni di Burzum.

***

Bangalore,
ovvero la città dei fagioli bolliti, in India, deve il suo nome ai fagioli bolliti che si racconta salvarono la città dall’invasione degli Unni delle Steppe di Carugate. Gli abitanti cucinarono incessantemente per giorni un piatto a base di fagioli e lenticchie che poi sparsero per le vie della città, nelle case e sui propri volti. L’odore nauseabondo che si diffuse ovunque suggerì agli Unni di andare a fare razzie da un’altra parte.

1103semina02
Il Santo del Mese

San Quadrato
A differenza di tanti innumerevoli santi insulsi, la cui esistenza ben poco ha donato al mondo, san Quadrato è una fulgida luce di speranza nelle tenebre della nostra insipienza. Venerato da grandi e piccini, ma soprattutto dai pitagorici, il nostro poligonico santo è noto ovunque per il suoi immortali miracoli della Quadratura del Cerchio e della Squadratura dei Criceti nonché per l’invenzione dei quaderni a quadretti, della quadriglia e dei quadricipiti.

1103santo

Ordini dall’alto

E l’angelo che mi parlava venne fuori e mi disse: “Alza gli occhi tuoi e guarda ciò che vien fuori.” – Ed io dissi: “Che cosa è mai?” – Rispose: “E’ un’anfora che esce.” – Poi soggiunse: “Questo è il loro occhio su tutta la terra.” – In quel mentre un talento di piombo veniva portato ed ecco che una donna stava seduta dentro nell’anfora. E disse: “Questa è l’empietà.” – E la sospinse dentro nell’anfora e vi pose sopra la massa di piombo.

Zaccaria 5, 5

Ordini dal basso

Idiota
Nella Scozia, le persone del vulgo non riguardano come una disgrazia l’avere in famiglia un figliuolo idiota: al contrario, eglino lo credono un segno di benedizione. Questa opinione è sparsa fra parecchi popoli dell’Oriente, e noi ci limitiamo ad accennarla senza recarne giudizio.

Il Dizionario Infernale

Fregio04


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Il Libro del Sole e dello Scorbuto: Arcanum Pistacchiorum

«Arturo! Apri!»
«Chi è? Chi bussa?»
«Sono io, Taddeo! Lascia che ti parli, per l’amor di Dio!»
La serratura scattò.
Taddeo, entrando nella stanza, fu quasi colto dal capogiro per il calore a dir poco infernale che vi regnava. Le finestre sbarrate, la stufa accesa, il camino stracolmo di legna, le pesanti tappezzerie, le pile di libri e faldoni di documenti sparsi per ogni dove, tutto contribuiva a rendere l’atmosfera soffocante. Arturo, forse per il caldo o forse a definitiva dimostrazione della sua follìa, indossava solo un paio di mutandoni a righe e una maglietta sdrucita, e nonostante ciò era fradicio di sudore; i capelli arruffati, l’espressione di insano trionfo e il tremito che lo scuoteva, rendevano irriconoscibile in lui il brillante scrittore che Taddeo conosceva fin dall’infanzia. L’aspetto del vecchio amico era talmente incongruo che Taddeo impiegò un attimo a rendersi conto che nella stanza c’era un’altra persona: seduto su una sedia accerchiata da torri di scartoffie, stava Tullio, avvocato, amico anche lui di lunga data. Impeccabilmente vestito come sempre, non sembrava risentire del caldo.
«Allora?» chiese Arturo «Che vuoi? Ti hanno mandato loro?»
«Se per “loro” intendi i tuoi genitori, Arturo, ebbene sì. Mi hanno chiesto, anzi, implorato, prima che come medico, come tuo amico di infanzia, di scoprire le cause del tuo – »
«Ah! Lascia perdere queste minchionerie! So perchè sei qui!»
«Ma… io…»
«È per l’eredità, vero? È per questo che ti hanno mandato, eh? I soldi!»
«Arturo! Che modi sono? Stento a riconoscere in te il – »
«Lascia perdere, Taddeo,» s’intromise l’avvocato. «Non se ne viene fuori. È da stamattina che tento di farlo ragionare, ma…» e si portò l’indice alla tempia, con gesto eloquente.
«Sì, avanti, bravi! Ridete di me! Sghignazzate, datemi del matto, canzonatemi quanto v’aggrada, ma ne avrete ancora per poco, ora che finalmente ho…. QUESTI!»
Così dicendo, con gesto trionfale, Arturo mostrò ai due una manciata di –
«Cosa sono?», chiese Taddeo.
«Pistacchi», disse Tullio, scuotendo sconsolato la testa.
«Pistacchi?»
«Sì! Pistacchi! Ha ha ha! Finalmente!»
«…»
«Meglio che ti sieda, Taddeo,» disse Tullio, «perchè adesso parte con la storia dei magici pistacchi di Gerbillo d’Aurillac..»
«Gerberto, sciocco! Ger-ber-to!»
«Seee, Gerberto, Gerberto, va bene. Bevi qualcosa, Taddeo? Ti conviene.»
«No, scusa, spiegami un po’ questa cosa dei pistacchi? Cosa c’entra con l’eredità?»
«Se li è comprati.»
«Con i soldi dell’eredità? E… e…» Taddeo allargò le braccia a sottolineare la sua confusione. «E allora?»
«No, non ci siamo capiti. Ha speso tutto», e picchiò il dito contro il tavolo, «per comprare quelli», e puntò l’indice verso i pistacchi.
«COSA?» Taddeo scattò in piedi, inorridito. «Arturo! È vero ciò che dice? Hai davvero commesso un simile scempio?»
«Ebbene sì!» ghignò il folle. «E lo rifarei!»
Con gesto solenne, stese un fazzoletto al centro del tavolo e vi rovesciò sopra i pistacchi. «Questi,» sentenziò, «sono i leggendari pistacchi di Gerberto di Aurillac. Appartengono alla mia famiglia da generazioni, e io ne sono tornato in possesso dopo decenni di ricerche. Andarono perduti durante la strage degli Ugonotti, ed è stato solo grazie agli scritti di un prozio, frate cappuccino in odore di santità, che ho scoperto dov’erano custoditi. Un complotto massonico, badate, che vide-»
«Non sembrano tanto vecchi,» disse Taddeo.
«Infatti li ha comperati dal fruttivendolo di via Mameli,» fece notare Tullio.
«Non li ho comperati! Li ho riscattati! Sono tornato in possesso di ciò che mi spetta di diritto! Per troppo tempo mi avete impedito di – »
«E per quei, ehm, pistacchi hai speso tutta la tua parte dell’eredità di zio Ciro? Era una bella sommetta. I tuoi genitori ne facevano gran conto. Una casa qui in centro…»
«… una villa in campagna…»
«… titoli e obbligazioni… »
«… c’era anche quel ritratto, te lo ricordi, quello di suo nonno vestito da suora?»
«Già! Sono sempre stato affezionato a quel quadro!»
«Ha ha ha!»
«Ha ha ha!»
«…»
Ci fu un attimo di silenzio imbarazzato.
«Posso assaggiarne uno?» chiese Tullio, con fare innocente.
«NO! Sei pazzo?»
«Io?»
«Insomma, basta!» Taddeo si alzò di scatto, picchiando le mani sul tavolo. «Arturo, per quanto mi addolori dirtelo, sei matto. Sarà stata colpa del caldo insolito, dei troppi romanzi di avventure, dell’influenza nefasta della figura materna o dell’assenzio, questo lo ignoro. Però sei matto come un cavallo.»
«Io?»
«Sì, tu, Arturo! Ma non temere, mio vecchio amico, ci prenderemo cura di te! Ti faremo restituire il danaro ingiustamente sperperato e ti rinchiuderemo da qualche parte finchè non riprenderai a ragionare. E per quanto riguarda queste odiose anacardiacee – ecco cosa ne faccio!»
E così dicendo, li gettò nel camino.
«NOOOOOOOO!» Arturo cacciò un grido inumano e si lanciò verso il suo tesoro. I due amici dovettero afferrarlo e trattenerlo per le braccia e per il collo, onde evitare che si gettasse nelle fiamme. «Pazzi, che avete fatto!»
«Credimi, » disse Taddeo, in tono consolatorio, «fa più male a me che a te.»
«No, non capite!», gridò il folle. «Guardate cosa avete fatto!»
La voce di Arturo era così carica di terrore che i due non poterono far altro che guardare. In mezzo alle fiamme, dove poco prima c’erano stati i misteriosi pistacchi, roteava una chiazza luminosa, azzurra, grande dapprima quanto un piattino da tè, ma rapidamente crescente. Tutto il resto della stanza sembrò tremare e perdere di consistenza, come un sogno al momento del risveglio. I tre amici si strinsero l’un l’altro, e, mentre le pareti, deformandosi come cera fusa, scivolavano nella chiazza roteante, dal vortice uscivano forme bizzarre e incomprensibili, rinoceronti volanti, castelli di marzapongo, globi luminosi farraginosi,

solescorbuto

 

***


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«»


arcanum pistacchiorum


«Arturo! Apri!»

«Chi è? Chi bussa?»

«Sono io, Taddeo! Lascia che ti parli, per l’amor di Dio!»

La serratura scattò.

Taddeo, entrando nella stanza, fu quasi colto dal capogiro per il calore a dir poco infernale che vi regnava. Le finestre sbarrate, la stufa accesa, il camino stracolmo di legna, le pesanti tappezzerie, le pile di libri e faldoni di documenti sparsi per ogni dove, tutto contribuiva a rendere l’atmosfera soffocante. Arturo, forse per il caldo o forse a definitiva dimostrazione della sua follìa, indossava solo un paio di mutandoni a righe e una maglietta sdrucita, e nonostante ciò era fradicio di sudore; i capelli arruffati, l’espressione di insano trionfo e il tremito che lo scuoteva, rendevano irriconoscibile in lui il brillante scrittore che Taddeo conosceva fin dall’infanzia. L’aspetto del vecchio amico era talmente incongruo che Taddeo impiegò un attimo a rendersi conto che nella stanza c’era un’altra persona: seduto su una sedia accerchiata da torri di scartoffie, stava Tullio, avvocato, amico anche lui di lunga data. Impeccabilmente vestito come sempre, non sembrava risentire del caldo.

«Allora?» chiese Arturo «Che vuoi? Ti hanno mandato loro?»

«Se per “loro” intendi i tuoi genitori, Arturo, ebbene sì. Mi hanno chiesto, anzi, implorato, prima che come medico, come tuo amico di infanzia, di scoprire le cause del tuo – »

«Ah! Lascia perdere queste minchionerie! So perchè sei qui!»

«Ma… io…»

«È per l’eredità, vero? È per questo che ti hanno mandato, eh? I soldi!»

«Arturo! Che modi sono? Stento a riconoscere in te il – »

«Lascia perdere, Taddeo,» s’intromise l’avvocato. «Non se ne viene fuori. È da stamattina che tento di farlo ragionare, ma…» e si portò l’indice alla tempia, con gesto eloquente.

«Sì, avanti, bravi! Ridete di me! Sghignazzate, datemi del matto, canzonatemi quanto v’aggrada, ma ne avrete ancora per poco, ora che finalmente ho…. QUESTI!»

Così dicendo, con gesto trionfale, Arturo mostrò ai due una manciata di –

«Cosa sono?», chiese Taddeo.

«Pistacchi», disse Tullio, scuotendo sconsolato la testa.

«Pistacchi?»

«Sì! Pistacchi! Ha ha ha! Finalmente!»

«…»

«Meglio che ti sieda, Taddeo,» disse Tullio, «perchè adesso parte con la storia dei magici pistacchi di Gerbillo d’Aurillac..»

«Gerberto, sciocco! Ger-ber-to!»

«Seee, Gerberto, Gerberto, va bene. Bevi qualcosa, Taddeo? Ti conviene.»

«No, scusa, spiegami un po’ questa cosa dei pistacchi? Cosa c’entra con l’eredità?»

«Se li è comprati.»

«Con i soldi dell’eredità? E… e…» Taddeo allargò le braccia a sottolineare la sua confusione. «E allora?»

«No, non ci siamo capiti. Ha speso tutto», e picchiò il dito contro il tavolo, «per comprare quelli», e puntò l’indice verso i pistacchi.

«COSA?» Taddeo scattò in piedi, inorridito. «Arturo! È vero ciò che dice? Hai davvero commesso un simile scempio?»

«Ebbene sì!» ghignò il folle. «E lo rifarei!»

Con gesto solenne, stese un fazzoletto al centro del tavolo e vi rovesciò sopra i pistacchi. «Questi,» sentenziò, «sono i leggendari pistacchi di Gerberto di Aurillac. Appartengono alla mia famiglia da generazioni, e io ne sono tornato in possesso dopo decenni di ricerche. Andarono perduti durante la strage degli Ugonotti, ed è stato solo grazie agli scritti di un prozio, frate cappuccino in odore di santità, che ho scoperto dov’erano custoditi. Un complotto massonico, badate, che vide-»

«Non sembrano tanto vecchi,» disse Taddeo.

«Infatti li ha comperati dal fruttivendolo di via Mameli,» fece notare Tullio.

«Non li ho comperati! Li ho riscattati! Sono tornato in possesso di ciò che mi spetta di diritto! Per troppo tempo mi avete impedito di – »

«E per quei, ehm, pistacchi hai speso tutta la tua parte dell’eredità di zio Ciro? Era una bella sommetta. I tuoi genitori ne facevano gran conto. Una casa qui in centro…»

«… una villa in campagna…»

«… titoli e obbligazioni… »

«… c’era anche quel ritratto, te lo ricordi, quello di suo nonno vestito da suora?»

«Già! Sono sempre stato affezionato a quel quadro!»

«Ha ha ha!»

«Ha ha ha!»

«…»

Ci fu un attimo di silenzio imbarazzato.

«Posso assaggiarne uno?» chiese Tullio, con fare innocente.

«NO! Sei pazzo?»

«Io?»

«Insomma, basta!» Taddeo si alzò di scatto, picchiando le mani sul tavolo. «Arturo, per quanto mi addolori dirtelo, sei matto. Sarà stata colpa del caldo insolito, dei troppi romanzi di avventure, dell’influenza nefasta della figura materna o dell’assenzio, questo lo ignoro. Però sei matto come un cavallo.»

«Io?»

«Sì, tu, Arturo! Ma non temere, mio vecchio amico, ci prenderemo cura di te! Ti faremo restituire il danaro ingiustamente sperperato e ti rinchiuderemo da qualche parte finchè non riprenderai a ragionare. E per quanto riguarda queste odiose anacardiacee – ecco cosa ne faccio!»

E così dicendo, li gettò nel camino.

«NOOOOOOOO!» Arturo cacciò un grido inumano e si lanciò verso il suo tesoro. I due amici dovettero afferrarlo e trattenerlo per le braccia e per il collo, onde evitare che si gettasse nelle fiamme. «Pazzi, che avete fatto!»

«Credimi, » disse Taddeo, in tono consolatorio, «fa più male a me che a te.»

«No, non capite!», gridò il folle. «Guardate cosa avete fatto!»

La voce di Arturo era così carica di terrore che i due non poterono far altro che guardare. In mezzo alle fiamme, dove poco prima c’erano stati i misteriosi pistacchi, roteava una chiazza luminosa, azzurra, grande dapprima quanto un piattino da tè, ma rapidamente crescente. Tutto il resto della stanza sembrò tremare e perdere di consistenza, come un sogno al momento del risveglio. I tre amici si strinsero l’un l’altro, e, mentre le pareti, deformandosi come cera fusa, scivolavano nella chiazza roteante, dal vortice uscivano forme bizzarre e incomprensibili, rinoceronti volanti, castelli di marzapongo, globi luminosi farraginosi, quandecchi selvatici e pinguini tiranni, immensi coni di ghisa e funghi parlanti, dadi di ogni forma e dimensione, tesseratti, cani demiurghi, monete di electrum, divinità palindrome e cappelli con l’elica, meduse di gelatina e peperoni cosmici, legioni romane, treni a vapore, elefanti a sei zampe, blatte parlanti, filosofi incompresi e gentiluomini dal lungo collo meccanico, annichilatori borbonici, cyborg di fecola, milze parlanti, audaci anacoluti, sillogismi impossibili, eroici esploratori dell’ignoto, gechi quadrati, gufi di Tebe, creature monopiede, lombrichi dell’abisso, nonne apocalittiche, mufloni al bismuto, calamari vampiri, cubi tetradimensionali, monoliti di tvfo, bestie pistapaute, totani, colbacchi, sarchiaponi, ammassi di porfido, pensieri fugaci, palafrenieri, criceti di ceramica, coniglietti fluffosi, mostre all’Outback, e un sacco di mazzate.


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Realm of Chaos

Nel lontano 1988 le porte dell’inferno si aprirono e le orde del Caos si riversarono su un mondo indifeso. Va bene, era il mondo dei nerd, e anzi, nella fattispecie nerd inglesi appassionati di giochi da tavolo e di ruolo, quindi alla fin fine nulla di grave. Eppure, con i due volumi di Realm of Chaos la Games Workshop fece il gran salto da semplice produttrice di giochi a fabbricante di universi. C’erano stati, prima, Warhammer, e Warhammer 40,000; ma fu solo con questa coppia di inverosimili oggetti, metà manuali di regole, metà grimori infernali, che questa nebulosa di idee, storie e atmosfera, assunse vita propria.
Il Caos è uno dei capisaldi della mitologia interna di Warhammer; non stiamo qui a entrare nel dettaglio, se non per dire che i Quattro Poteri del Caos sono i grandi “cattivi” del gioco, responsabili di tutto il male del mondo, un po’ come i comunisti qui da noi: Khorne, il dio della guerra e del sangue, Slaanesh, il dio del sesso e della depravazione, Tzeentch, il dio della magia e del cambiamento, e Nurgle, il dio delle malattie e di tutte le cose schifose e puzzolenti. Già.
C’è molto di Moorcock, in tutto questo, partendo dall’idea stessa di Caos fino al simbolo della stella a otto punte che si è fatta strada dalla letteratura fantasy ai giochi di ruolo all’occultismo contemporaneo (la chaos magick di Carroll & compagnia); e, in accordo al concetto che caos è sinonimo di follia, di bizzarro, di inspiegabile, pare del tutto ovvio che questi manuali, in quanto supplementi alle regole di un gioco, siano completamente inutilizzabili. Pagine e pagine di tabelle, regole intricatissime e contraddittorie, complicazioni barocche e surreali – per chi cerca di seguirle è impossibile già solo iniziare a giocare, figuriamoci il resto.
Eppure sono sicuro che la giocabilità non fosse tra gli obiettivi principali dei suoi creatori; anzi, l’impressione è che proprio non ci abbiano pensato: e anche al lettore, tutto sommato, la parte più “ludica” interessa ben poco, perso com’è in una selva di visioni grottesche e parole arcane.
Non credo abbiano avuto un gran successo commerciale; la GW cambiò le regole dei suoi giochi poco dopo, rendendo questi manuali obsoleti. Ci furono altri libri simili, ancora più “estremi” (un’edizione del Liber Chaotica dedicata al dio Tzeentch sfoggiava un’incredibile sovraccoperta in vetro!), ma questi furono senza dubbio dei precursori.
Ogni tanto li riprendo in mano, con reverenziale timore – non fosse altro per la rilegatura, talmente precaria che basta un movimento un po’ brusco per trovarsi la pagina in mano – per vagare per un po’ su questi infiniti campi di battaglia; poi, tra il perplesso e il sollevato, li rimetto al loro posto: non tra i manuali di giochi, ma su un qualche scaffale poco raggiungibile, assieme a libri altrettanto bizzarri e misteriosi.

***

Il primo volume di Realm of Chaos, Slaves to Darkness, è disponibile su scribd. Dateci un’occhiata.


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