I Cercatori di Muco
A mezzodì si rimisero in volo. Avevano fretta di riprendere il viaggio e di condurlo a termine, prima che cominciasse la stagione delle grandi piogge, che è pericolosissima in quei paesi giacché trasforma le foreste in pantani e sviluppa quella terribile malattia, chiamata con una frase energica La Febbre della Morte Irrimediabile, che Quasi Mai Perdona alla Persona che ne è Rimasta Colpita. Soprattutto, avevano fretta di sistemare Ukhurra e tornare di soppiatto in città per mettere mano al tesoro. Il dirigibile attraversò la parte settentrionale della città, seguendo sempre il canale, e alle tre pomeridiane giunse alla confluenza del Fulukh con il fiume Zang, uno dei suoi maggiori affluenti, non essendo superato che dal Farihluk, ed è ricco d’acqua, profondo assai e anche molto largo. Mentre il Fulukh scende quasi direttamente, con poche curve, lo Zang invece si allontana assai verso oriente; nondimeno nel suo corso superiore si riunisce ancora al primo, mediante un canale naturale che ha una lunghezza ragguardevole.
Il balòn s’inoltrava in una regione selvaggia e disabitata. Non più barche, non più villaggi, non più torri dalle guglie scintillanti, ma solo alberi bizzarri dai frutti velenosi, rampicanti d’ogni genere, erbacce e funghi psichedelici alti parecchi metri. Un numero infinito di uccelli, specialmente di tucanodonti e di tacchini dai denti a sciabola, tubava, cinguettava e intonava canti polifonici fra tutte quelle piante, mentre sulle rive bande armate di cormorani dalle penne oscure, grossi come orsi, pescavano, ingollando dei pesci di rispettabile lunghezza fra lo sgomento dei passanti.
Tutta quella giornata il dirigibile continuò a sorvolare il fiume a bassa quota, e anche buona parte del giorno seguente, mettendo a dura prova i muscoli degli snotling, i quali dovevano fare sforzi erculei per vincere il vento contrario e per mantenere una direzione il più possibile rettilinea, visto che erano rimasti in nove. Fang li incoraggiava con imparziali bastonate, ma la cosa, nonostante il suo impegno, sembrava non essere di loro gradimento. Verso l’ora del tè, mentre cercavano un luogo adatto per accamparsi, non volendo il generale affaticare troppo i suoi pedalatori, che avevano ormai la schiuma alla bocca, superata una curva, si trovarono improvvisamente dinanzi ad un minuscolo villaggio, formato da due dozzine di capanne piantate su pali immersi nell’acqua. Sulla riva si scorgeva un gran numero di grossi vasi d’argilla, allineati su parecchi ordini: una quindicina di coboldi e yeek seminudi stavano raggruppati intorno a qualcosa che non si poteva ancora distinguere, e ridevano fragorosamente battendo le mani.
«Che cosa fanno?» chiese il Von Basedoff.
«Boh. Pare che si divertano,» rispose Vronch.
«Sono contadini?»
«No, cercatori di muco. Guardate tutti quei vasi…»
«Cercatori di cosa? Di muco?»
«Andiamo a vedere che cosa combinano,» disse Ukhurra. «Nulla avremo da temere.»
«Approdiamo, Fang,» ordinò il generale. «Ci accamperemo presso quelle capanne, così saremo più al sicuro.»
Vedendo accostarsi il velivolo e sbarcare la vecchia in armatura con Vronch ed il dottore, gl’indigeni si affrettarono ad allargare il circolo e interruppero le loro risate.
«Beh? Vi divertite a giocare?» chiese il generale, mentre i cercatori di muco si inchinavano profondamente.
«No, signore,» rispose un vecchio, che doveva essere il capo del villaggio. «Abbiamo preso stamane due halfling e li facciamo combattere.»
«Bravi, bravi. Almeno si rendono utili a qualcosa. Vado chiedere alla nonna se vuole scommettere.»
Vronch stava per lasciare i cercatori di muco e far ritorno verso la riva, quando vide giungere tre uomini e un nano armati di fucili, balestre, arpioni, mazze chiodate e spadoni a due mani. Dietro di loro arrancava un mulo carico fino all’inverosimile: mezza dozzina di lanterne, un centinaio di metri di corda, chili e chili di chiodi, martelli e rampini, un barile d’olio, specchi, mazzi d’aglio ed erba anti-licantropi, abbastanza cibo per sfamare un esercito assediato e mezza dozzina di pertiche lunghe tre metri. In cima al mucchio, una enorme pentola di rame antica e bizzarra.
«Chi sono costoro?» chiese al vecchio capo, che gli stava accanto.
«Avventurieri, signore, giunti stamane.»
«Di che livello?»
«Non l’hanno detto, quantunque parlino la lingua comune e quella dell’allineamento. Mi hanno chiesto il permesso di distruggere i mostri erranti dei dintorni. Per noi sarà una fortuna se vi riescono. Quelle male bestie distruggono i raccolti delle nostre ortaglie.»
I cacciatori si erano avvicinati, squadrando il generale con malcelato sospetto.
«Avete fatto buona caccia?» chiese loro.
«Uno scarabeo urticante in quattro ore,» rispose uno dei quattro. «Questi bastardi non si lasciano avvicinare. Ma questa sera ne prenderemo molti. Sappiamo già dove si radunano.»
«Da dove venite?»
«Da Gaglarup, e siamo ai servigi d’un nobile che traffica in pelli d’animali.»
«Me n’ero accorto, vedendo che avete delle così belle armi. Quando farete la battuta?»
«Fra due ore, signore. Ma perché tutte queste domande?.»
«Dottore,» disse Vronch, volgendosi verso Von Basedoff. «Volete assistere a quella caccia? Sarà interessante, ve lo assicuro.»
«Volentieri, se questi cacciatori non rifiuteranno la nostra compagnia.»
«Possiamo metterci d’accordo,» rispose il nano. «Dipende da quanto siete disposti a sganciare.»
«Non c’è problema,» disse Vronch. «Fra due ore, appena farà buio, andremo nei boschi con questi gentiluomini. Ai quali,» soggiunse prendendo il nano sottobraccio, «ho da proporre un affare alquanto lucroso per tutti.»
Si allontanarono parlottando.
Se l’Eugilia è la patria dei poeti e dei navigatori, il Fethrund è la patria dei mostri erranti. Le foreste di Uruth, del Quoxu, del Bulac, dell’Arrar e della penisola di Matazòr ne sono infestate. Bande di nagpa, di pegatauri, di ipnoserpenti dal manto rosso, di api del vapore, di bodak, di rhagodesse, di ghoul, thoul e zhoul percorrono senza posa quelle foreste, spinte da una smania di distruzione e di saccheggio. I poveri coltivatori sono costretti a sostenere una continua lotta contro quei vandali, che tutto rovinano sul loro passaggio.
Basta una sola notte a quei mostri selvaggi e senza dio per rovinare completamente una piantagione di funghi, per spogliare i frutteti. Se piombano su una piantagione di canne da zucchero, non lasciano una sola pianta intatta. Anche se sazi fino a scoppiare, continuano a spezzare colle loro infaticabili dita, zoccoli, chele e tentacoli i dolci e succulenti graminacei unicamente per un’abitudine di distruzione. I danni che ogni anno arrecano sono incalcolabili, e di rado i poveri coboldi riescono a difendersene. Abitano ordinariamente molto lontano dalle campagne coltivate, per paura dei leucrotta e delle pantere distorcenti, che sono voracissimi e che non si trattengono dall’assalire le capanne isolate, introducendovisi dal tetto che scoprono o sfondano facilmente; perciò non giungono quasi mai in tempo per respingere quei predoni a due, quattro o sei gambe. Allora, disperati, per non vedersi distruggere tutto, radunano delle compagnie d’avventurieri e fanno delle grandi battute, che li compensano in parte dei danni subiti con punti esperienza e oggetti magici. Fanno dei veri massacri, eppure credete che quei mostri diminuiscano? Mai più. Sono come i conigli astrali, quegli altri terribili ed infaticabili distruttori che devastano i campi del continente meridionale: più vengono distrutti più si moltiplicano.
Gli avventurieri ricorrono però anche ad altri mezzi per decimare i mostri: preparano lacci, avvelenano frutta che disperdono nei campi, scavano fosse sul cui fondo piantano pali aguzzi e che ricoprono con sottili canne, che cedono alla minima pressione. Ma uno dei sistemi migliori, che dà generalmente buoni risultati, è quello della pentola dell’efreeti.
La luna minore cominciava ad apparire dietro i grandi alberi della foresta, quando i cacciatori di mostri lasciarono il minuscolo villaggio, seguiti da Vronch, da Ukhurra, da Fang e dal dottore.
Portavano con sé l’enorme pentola di rame, chiusa da un coperchio di legno: al suo interno, prigioniero da chissà quanti secoli, uno spirito del fuoco, dal carattere generalmente poco socievole, costretto da potenti sortilegi ad obbedire al possessore della pentola. La qual cosa certo non ne migliorava l’umore. Gli avventurieri avevano raccomandato al generale e ai suoi compagni di camminare con precauzione e di non far scrosciare le foglie secche della foresta, onde non allontanare le bestie che forse non erano lontane.
Un quarto d’ora dopo si trovavano nella boscaglia, la quale pareva formata quasi esclusivamente di alberi gakarak, alberi senzienti ancorchè semi-immobili, pregiatissimi perché dànno una ragguardevole quantità di muco, che si adopera, più che per ardere, nella preparazione di esplosivi e armi batteriologiche.
«Toh, ecco le piante che gli abitanti del villaggio lavorano,» disse Vronch al dottore. «Faranno qui una raccolta prodigiosa di muco.»
«Maddài? E dove si trova quel… ehm, liquido?» chiese Von Basedoff.
«Nell’interno delle piante.»
«Ah.»
«Vede, dottore,» rispose Vronch. «Per farlo uscire si piazza, ad uno o due metri dal suolo, in pieno tronco, una pentola piena di pepe di caienna, polline di ambrosia, peli di gatto e acari. In breve tempo la pianta è in preda all’asma e al raffreddore e tutto quello che resta da fare è piazzarle un catino sotto il naso e raccogliere.»
«Un modo assai ingegnoso.»
«E che non costa nulla.»
«Ne estraggono molto?»
«Circa un litro al giorno.»
«E non dice nulla la pianta dopo quel trattamento?»
«Si incazza a morte. Ma per fortuna hanno i riflessi molto lenti. Ci vogliono sessanta o settanta ore e qualche volta anche di più prima che cominci a tirar mazzate.»
«Avete finito di dir cazzate?» disse in quel momento uno dei cacciatori.
Erano giunti sul margine d’ una piccola radura quasi sgombra di cespugli e che la luna maggiore, già alta, illuminava benissimo. Collocarono la pentola in mezzo a quello spazio scoperto, poi si affrettarono a raggiungere una macchia di giovani alberi, facendo segno ai loro compagni di seguirli e di non parlare.
Le bestie non erano lontane. Sugli alberi e fra le macchie si udivano agitarsi le foglie e i rami crepitare, e di quando in quando precipitavano al suolo, con rumore secco rami spezzati e scoiattoli morti. I mostri cominciavano la loro opera di distruzione nella foresta, in attesa che gli abitanti del piccolo villaggio s’addormentassero, per saccheggiare i loro orticelli che già dovevano aver adocchiato. I cacciatori, seduti sotto le foglie ampie dei banani, aspettavano pazientemente che qualcuno notasse la pentola. I coboldi masticavano fango per ingannare il tempo, mentre Von Basedoff e gli avventurieri fumavano una sigaretta di erbe sospette avvolte in una foglia secca di tabacco.
Era trascorsa una mezz’ora, quando sulla cima d’un gruppo di funghi variopinti si udì echeggiare una sonora salva di bestemmie a cui fecero eco altre grida consimili, stridii, fischi e pernacchie.
«Questo era un leucrotta,» disse uno dei due cacciatori.
Un momento dopo da un’altra parte della foresta giunsero improvvisamente delle grida acute, stridenti, poi una serie di suoni strani, di strilli, di borbottamenti rauchi.
«Ve ne sono delle centinaia qui,» mormorò il dottore, curvandosi verso Vronch, «Catoblepa, piroserpenti, tabaxi e mostri-sù.»
«E vedrete che non tarderanno a scoprire la pentola,» rispose il generale. «Ah! Là, guardate!»
Tre o quattro creature si erano slanciate a terra dai rami più bassi e avanzavano cautamente verso la pentola. La prima era una rhagodessa, un orrendo ragno munito di ventose. Seguivano in ordine sparso un’anfisbena, un molosso instabile, l’immancabile rugginofago e altri tre o quattro abomini assortiti. Il nano si fregò le mani, quando vide che le bizzarre creature stavano puntanto la pentola.
Tutte si precipitarono avanti. Il pentolone venne urtato da tutte le parti, scosso e finalmente rovesciato su un fianco. Urla, strilli e scoppi di fumo e fiamme annunciarono ai cacciatori che il coperchio era caduto. Dal loro nascondiglio, i quattro viaggiatori videro emergere dalla pentola una figura rossa ed enorme, dai lunghi baffi alla Gengis Khan, che dopo essersi arrotolata le maniche si gettò sui mostri attoniti, menando schiaffoni a destra e a manca.
Era il momento di agire.
«Avanti,» dissero i tre avventurieri, alzandosi e mettendo mano a nodosi randelli, asce e pergamene di incantesimi. «Andiamo a spaccare qualche culo.»
Tutti si slanciarono, preceduti da Ukhurra, che non vedeva l’ora di massacrare quelle povere bestie. Stavano per piombare sui mostri e farne una strage, quando udirono improvvisamente rimbombare verso il fiume alcuni colpi di archibugio, seguiti da urla acutissime.
Vronch si arrestò, subito imitato dal dottore e da Fang.
«O cazzo! Assalgono il villaggio!» gridò il generale.
«Lasciate che accoppino quei miserabili e occupiamoci di questi,» gridò il nano, abbattendo la sua ascia sul capo di una piroblatta. «Noi non li lasceremo fuggire, ora che sono nostri.»
«Fanculo i cercatori! C’è lì il mio dirigibile! Dottore, Fang, corriamo!»
Senza occuparsi dei cacciatori che non parevano disposti a seguirli, i tre si slanciarono in direzione del fiume.
I colpi di fucile erano cessati e le grida si affievolivano in lontananza, ma verso lo Zang videro propagarsi una luce intensa e rossastra ed alzarsi delle colonne di fumo miste a nembi di scintille.
«Il villaggio ha preso fuoco!» gridò il dottore. «Generale, si può sapere che cosa succede laggiù?»
Con un’ultima corsa erano già giunti sul margine del bosco. Non si erano ingannati. Il minuscolo villaggio bruciava, e ardevano pure i vasi pieni di muco, i quali scoppiavano ad uno ad uno, spargendo all’intorno il liquido fiammeggiante.
Tutti gli abitanti erano fuggiti, e a terra si vedevano alcuni corpicini che stavano carbonizzandosi.
«I miei servi! Il mio dirigibile!» gridò il generale.
Si precipitarono verso la riva, in preda a una profonda ansietà, non scorgendo alcuno dei battellieri e nemmeno gli alti ombrelli del dirigibile. Un grido sfuggì alle labbra di Fang, il quale, essendo più agile di tutti, era giunto per primo presso il fiume.
«Sono partiti!»
«È impossibile!» esclamò Vronch.
«Guarda, padrone!»
Quantunque ondate di fumo denso arrivassero fin sulla riva, spinte dalla brezza notturna, bastò al generale un solo sguardo per convincersi che il suo dirigibile, che ancora tre ore prima si cullava all’estremità del villaggio, stava veleggiando beato e pacifico verso sud.
«Cazzarola,» disse Von Basedoff, «che ci abbiano abbandonati?»
«Piccoli bastardi traditori,» rispose il generale. «Avrei dovuto incatenarli. E ora, che facciamo?»
Il dottore stava per fare forse qualche proposta, quando udirono Fang gridare:
«Alt! Chi va là?»
Alcune ombre umanoidi erano comparse sul margine della foresta e stavano avanzandosi cautamente verso il villaggio distrutto. Udendo l’intimazione di Fang, alcune si fermarono, mentre altre si rifugiarono precipitosamente nella boscaglia. Non essendo la luna ancora tramontata, Vronch riconobbe facilmente in quegli uomini i cercatori di muco.
«Avanzatevi,» gridò, facendo cenno a Fang di abbassare il fucile. «Non avete nulla da temere.»
Uno solo obbedì. Era il vecchio coboldo che li aveva invitati ad assistere alla lotta fra gli halfling.
«Non mi ucciderete, signore?» chiese.
«Noi non siamo dei predoni. Almeno per ora.»
Il vecchio esitò ancora qualche po’, quindi si avanzò risolutamente, facendo dei gesti di disperazione.
«Ah! signore!» esclamò quando fu vicino, con accento desolato. «Quei briganti ci hanno distrutto tutto! Due mesi di lavoro perduti inutilmente, e le capanne bruciate.»
«Io saprò ricompensarti, se tu mi narrerai ciò che è accaduto qui dopo la nostra partenza,» mentì Vronch. «Chi ha fatto fuggire la mia nave?»
«Gli halfling, signore, gli halfling! Piccoli mostri! Che Krustulas li fulmini! Si sono finti morti, e poi sono fuggiti!»
«Con la mia nave?»
«Certo! Hanno aiutato gli snotling a sciogliere gli ormeggi e sono filati via! Ma prima hanno dato fuoco al nostro muco! Il nostro preziosissimo muco! Ahimè, ahimè!»
«Il vostro preziosissimo muco?»
«Decisamente.»
«È un brutto colpo,» disse il dottore, grattandosi la testa. «Dove potremo trovare una barca, ora? Siamo sperduti in mezzo al nulla.»
«Già, è un po’ difficile,» rispose il vecchio. «Non vi sono villaggi nei dintorni, né costruttori di scialuppe. Ah, ora che ci penso, potreste forse trovarne qualcuna a Oorblu.»
«È lontana quella borgata?» chiese Vronch.
«Una sessantina di miglia.»
«E qui? Non approda mai alcuna barca, qui? Cosa siete, eremiti?»
«No, certo che no. Ogni mese ne giunge una per caricare il nostro muco; ma dovreste aspettare almeno quindici giorni.»
«Preferisco raggiungere Oorblu a piedi,» disse Vronch. «piuttosto che restare qui un altro minuto. Sessanta miglia si possono percorrere in tre o quattro giorni.»
«E Ukhurra?» chiese il dottore.
«Già,» rispose il coboldo, «Che fine ha fatto la vecchia? Vuoi vedere che questa volta i cacciatori…»
«Beh? Avete bruciato il villaggio?»
La voce di Ukhurra si fece strada tra il fogliame, seguita a breve distanza dalla sagoma tozza e sgraziata della vecchia cobolda. La sua mazza da cricket era scheggiata, così come la mannaia e il coltellaccio, e la sua armatura intaccata in più punti e imbrattata di sangue e sostanze innominabili.
«Dobbiamo parlare,» disse truce.
«Ukhurra! Nonna mia, stai bene?» gridò Vronch, andandole incontro. La vecchia cobolda lo abbattè con un pugno al naso, poi puntò decisamente verso Von Basedoff.
«Sapete cosa mi ha detto quel nano?», ringhiò.
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