La Città del Re Leucrotta – Cap. XV

I Juggernauti


«Si può sapere cos’è tutto ‘sto casino?»
Allorquando il dottore riaperse gli occhi, dopo una dormita durata forse ventiquattro ore, nonostante il baccano infernale che lo circondava, invece di trovarsi sotto la sua tenda e di udire la voce stridula della sua governante annunciante la colazione del mattino o un’irruzione della polizia, si trovò coricato su un pavimento di legno traballante, in una stanzetta puzzolente e rumorosissima, attorniato da otto nani quasi interamente nudi. Comprensibilmente stupito e anche molto inquieto di trovarsi in quella situazione, fra sconosciuti che avevano delle facce poco rassicuranti, si alzò a sedere, cercando innanzi tutto il largo coltellaccio che usava portare alla cintura: ma non lo trovò, poiché quei banditi si erano ben guardati dal lasciarglielo.
«Dove sono io?» gridò. «Chi siete voi e dove mi conducete? Dov’è Vronch? È ricco sfondato! Può pagare!»
Gli otto nani, vedendolo alzarsi, si voltarono verso di lui e si misero a fissarlo con viva curiosità.
Non pareva che appartenessero alla razza veramente nanica, sia pel colorito della pelle, assai più scuro, sia pei tratti dei loro volti, più duri, più angolosi, dall’espressione cupa e feroce. Erano poi di statura più alta, più magri; avevano i capelli lunghi, invece di portarli rasati come i Nani del Mostar, fermati da una specie di pettine di bambù sormontato da una cresta di fagiano; barbe folte, sopracciglia lunghe e nerissime, ed il loro vestito consisteva in una semplice sciarpa di tela grossolana, larga solamente pochi pollici, annodata ed attorcigliata attorno ai fianchi, stivali da motociclista e un casco da pilota. Se il loro vestito era così meschino, quei selvaggi però, almeno sembravano tali, erano formidabilmente armati. Ognuno teneva al fianco una pesante ascia a lama larghissima, d’un acciaio finissimo, che mostrava le vene del metallo; inoltre una spada ed un lungo fucile; e sulla schiena ognuno portava una piccola cartuccera, un corno per la polvere da sparo, e varie borse, tasche e contenitori metallici. Erano seduti su sgabelli di bambù, e manovravano ruote, ingranaggi e altri marchingegni. Il dottore, dopo averli rapidamente osservati, ripeté la domanda con voce incerta:
«Chi siete voi dunque e dove mi conducete? Rispondete: io sono un uomo bianco, se non l’avete notato.»
Uno dei piloti, che doveva essere, un capo, poiché portava sul casco, oltre la cresta di borchie, anche un ciuffo di penne di tucanodonte legate con un filo di ottone, si decise finalmente a rispondere.
«Giacché l’uomo bianco continua a scassare la minchia, noi siamo i Dwergar del Malaug,» disse in un grugnito abbastanza comprensibile, «e tu sei prigioniero del nostro possente Juggernaut. Guendalina.»
«Guendalina?»
«Il nostro possente Juggernaut Guendalina: ventotto tonnellate; tre motori a carbone e un elementale del fuoco; velocità massima sei nodi nanici o trentuno pertiche fethrundesi; otto ruote di granito; rivestimento esterno in tegole e bitume; cerchi in lega; autorad-»
«Ok, ok, scusa se ti interrompo… Ma dove sono i miei compagni? Il generale e compagnia bella.»
«Non lo so. Non li conosco, non ho mai veduto generali io.»
«Chi mi ha condotto qui? Io ero nella giungla, ieri… come mi trovo ora in questo… in questa… si può sapere dove cazzo sono?»
«Noi ti abbiamo rapito,» rispose il Nano, con aria tronfia. «Dei coboldi ci hanno incaricato di condurti alla foce del Malaug ed abbiamo obbedito.»
«Chi erano quei coboldi? chiese il dottore, che non riusciva a raccapezzarsi.
«Boh. Non li conosco.»
«E perché mi conduci alla foce di quel fiume?»
«Ma che cazzo ne so, io. Ho ricevuto degli ordini, mi hanno pagato ed io obbedisco.»
«Mi dirai almeno chi ti ha dato quest’ordine.»
«Un coboldo che mi hanno detto essere uno dei più potenti del Fethrund. Chi poi sia, io lo ignoro, né mi occupo di saperlo.»
Il dottore ebbe uno scatto di collera.
«Bada, io sono un uomo bianco, e un’offesa fatta a me si paga cara. Riconducimi dove voi, o miserabili, mi avete rapito, o vi farò tagliar la testa dai carnefici del re del Fethrund. Cioè, qualcosa del genere.»
«Ma fammi la cortesia. Non posso: io ho giurato su Brâ, la nostra divinità. D’altronde tu non hai nulla da temere, perché quei coboldi non mi hanno detto di ucciderti.»
«Dimmi almeno perché mi conduci alla foce del Malaug, fai il bravo. Chi mi attende colà?»
«Non so nulla.»
Si volse verso i suoi compari e diede alcuni ordini in una lingua che il dottore non comprendeva. Subito il veicolo, che fino ad allora aveva proseguito la sua corsa lenta ma inarrestabile verso est, abbattendo alberi e spiaccicando castori, virò di bordo, dirigendosi invece verso il settentrione. Aveva cambiato idea il capo? Si poteva crederlo. Ma anche no.
Il dottore, che avrebbe ben desiderato tornare a raggiungere i suoi compagni, si provò ad interrogarlo, ma senza risultato. Il Nano si era rinchiuso in un silenzio ostinato e fingeva di non udire le domande del prigioniero, oppure non le udiva proprio, visto il frastuono. Anche gli altri non parlavano: lavoravano invece con accanimento, arrancando con vigore ed imprimendo al marchingegno una velocità straordinaria. Calava allora la sera, ciò che fece supporre al dottore d’aver dormito almeno ventiquattro ore. Come aveva potuto dormire tanto? Non era ammissibile, perlomeno quando era sobrio. E poi a quale scopo lo avevano rapito dall’accampamento, per affidarlo a quel drappello di selvaggi? E di Vronch che cosa era successo? E di Ukhurra? E di coso, come si chiamava… Fang? E l’elefante? Così immerso in quei pensieri, egli non si era nemmeno accorto che la macchina infernale, dopo una corsa rapidissima, durata qualche ora, aveva imboccato un largo canale acquitrinoso, ingombro di foltissime piante.
Un urto abbastanza violento lo strappò dai suoi pensieri.
La macchina si era arenata contro una di quelle isolette, e in quello stesso momento un lampo abbagliante ruppe l’oscurità che aveva ormai avvolto il fiume e le rive.
«Sbarca,» gli disse il capo, che era già balzato a terra portando tutte le sue armi.
«Dove mi conduci?» chiese Eriprando.
«Cerchiamo un ricovero contro l’uragano che sta per scoppiare.»
Il dottore alzò gli occhi e solo in quel momento s’avvide che delle masse di vapori avevano coperto interamente la volta celeste.
«Eh? Uragano? Dove siamo?» chiese.
«Alla foce del Malaug,» rispose il capo.
Mentre un paio di nani incatenavano l’enorme macchina al tronco d’un albero, il capo si aprì il passo fra i folti cespugli che coprivano l’isolotto; gli altri si mettevano ai lati del prigioniero, come se avessero timore che fuggisse. S’avanzarono così per un centinaio di passi e s’arrestarono dinanzi ad un autogrill abbandonato che sorgeva su un piccolo spiazzo, un’abitazione abbastanza ben fatta e solida, per essere stata costruita da selvaggi che si accontentano solitamente d’una piccola tettoia aperta a tutti i venti, purchè ci si si possa trovare del caffè.
«È casa tua?» chiese il dottore.
«È un tempio dedicato a Brâ. Ora è abbandonato. Facevano dell’ottimo caffè.»
«Non vale quello degli Halfling.»
«Gli Halfling non sono Dwergar,» si limitò a rispondere il capo. «Accontentati di quello che ti posso offrire e siimi grato che non ti faccio scuoiare.»
Fecero il giro dell’edificio, per assicurarsi della solidità delle pareti e del tetto; sbirciarono attraverso i vetri rotti per esser certi che nessun mostro errante avesse scelto quel luogo come rifugio, poi accesero un bel fuoco con dei rami resinosi e dei vecchi depliant, e prepararono la cena, avendo portato con loro un quarto di cervo. Invece di arrostirlo intero, quei selvaggi lo divisero in vari pezzi, poi li cacciarono entro tubi di bambù verdi e li esposero al fuoco; sistema molto strano, ma in uso presso molte tribù naniche, che non hanno mai conosciuto i forni e tanto meno gli spiedi e le pentole e le buone maniere. Avevano appena cominciato a mangiare, quando un improvviso colpo di vento passò sulle foreste che coprivano le due rive del fiume, facendo scricchiolare le finestre e ondeggiare le insegne al neon ormai inservibili. Quasi nello stesso momento dei tuoni spaventevoli si ripercossero nelle profondità del cielo, mentre lampi accecanti si succedevano l’uno dietro l’altro, con intervalli di appena pochi secondi.
«L’uragano!» disse il capo al dottore. «Spicciati.»
Le prime gocce cominciavano a cadere, e che gocce! Cadevano con gran rumore, battendo sulle larghe foglie con tale forza che parevano chicchi di grandine. Il capo prese un ramo acceso, e volgendosi al dottore che aveva terminato la cena, gli disse: «Seguimi, se ti preme metterti al riparo da questa doccia colossale.»
Entrò in un’altra stanza, aprendo con un calcio la porta, e lo spinse dentro, piantando il ramo in terra.
«Buona notte,» disse, indicando il pavimento coperto d’un folto strato di foglie secche e giornali accartocciati.
«E voi, non vi rifugiate qui dentro?» chiese Eriprando.
«Noi non abbiamo paura dell’acqua,» rispose il Nano, sorridendo. «Un cespuglio ci serve quanto una capanna.»
E richiuse la porta, mentre i tuoni scrosciavano con fragore assordante e l’acqua cadeva con rabbia estrema come nei tristi giorni del diluvio universale. L’edificio non conteneva granchè: tutti gli scaffali erano stati saccheggiati, così come i frigoriferi e i distributori automatici; restava solo un espositore di cartoline ingiallite e un idolo d’argilla, situato proprio nel mezzo, su un frigorifero capovolto, rappresentante certamente Brâ, la dea venerata da quelle tribù. Appese alle pareti vi erano alcune di quelle pesanti sciabole adoperate da quei selvaggi, ancora con il cartellino del prezzo, che forse il capo, nella sua fretta di andarsene, non aveva nemmeno osservato. «Sarei uno stupido se non ne prendessi una,» disse Eriprando. «Non si sa mai quello che può succedere. Ma con chi sto parlando?»
Ne staccò una e si coricò sul letto di foglie, mentre al di fuori l’uragano raddoppiava la sua furia.
Il vento ululava fra le selve che coprivano le due rive, torcendo rami e tronchi, mentre i tuoni rombavano con tale intensità da far tremare persino le pareti.
«Una notte d’inferno,» mormorò il dottore. «Non invidio certamente quei selvaggi, ai quali auguro che un fulmine li incenerisca. Ma tu guarda che situazione del cazzo. Possibile che io non riesca a scoprire il motivo di questo rapimento?»
Ad un tratto trasalì e si alzò a sedere.
«Che i Nani che mi hanno rapito siano gli stessi che ci hanno rubato il dirigibile? No, quelli erano Snotling. E che questi qui siano loro complici? Ma il motivo? Perché devono avercela con me? Che male ho fatto loro? Che cosa darei per spiegare tutto ciò! Oh, non rimarrò a lungo nelle mani di questi selvaggi. Ora ho delle armi e, dovessi impegnare una lotta suprema, saprò riacquistare la mia libertà.»
Così monologando, finì per addormentarsi. L’aria d’altronde era così satura di elettricità, che nessuno avrebbe potuto resistervi.
Quanto dormì? Difficile saperlo. Fu bruscamente svegliato da una sensazione di freddo che aumentava rapidamente.
Non sapendo a che cosa attribuirla, s’alzò di colpo, domandandosi se dei serpenti o delle salamandre dei ghiacci si fossero introdotti nella capanna. La torcia si era spenta ed una profonda oscurità regnava intorno a lui.
Si toccò le vesti che erano diventate estremamente pesanti, e ritrasse le mani bagnate.
«O cazzo! Questa è una inondazione!» esclamo.
Raccolse la sciabola che aveva deposto presso il letto di foglie e alzò i piedi. Solo allora s’accorse che tutto il pavimento della capanna era coperto da uno strato considerevole d’acqua.
«Sgombriamo!» esclamò. «Non sono già un topo per annegare in questa gabbia.»
S’avanzò a tentoni finché scoprì la porta. Con un calcio poderoso (per lui) la scardinò e balzò fuori. La pioggia cadeva sempre con furia estrema, ma i lampi erano cessati e per di più del fuoco non c’era traccia. Neanche del Juggernaut, che i Nani avevano parcheggiato davanti all’autogrill.
«Ohé, capo!» gridò. «Dove sei?»
Nessuno rispose alla sua domanda.
«Che siano fuggiti?» mormorò. «Da un lato sarebbe una fortuna, dall’altro una disgrazia. Mi pare che il fiume si sia improvvisamente ingrossato e che le sue acque abbiano invaso l’isola. Questa è una vera inondazione.»
Non s’ingannava, perché anche fuori, nello spiazzo, vi era un buon piede d’acqua, e la corrente si frangeva con una certa violenza contro i cespugli che coprivano quel brano di terra.
«Cerchiamo una scialuppa,» disse Eriprando, «una zattera, un salvagente, qualcosa!»
Si mise a frugare dappertutto, alla luce dei lampi, sia all’interno che fuori, ma, inutilmente. Trovò cartacce, pupazzi ammuffiti, pompe per bicicletta, tergicristalli, cappelli col ponpon, gufi, custodie di CD, ma niente che potesse galleggiare. E durante quei minuti la corrente che aveva invaso l’isola era diventata fortissima, e l’acqua si era tanto alzata da giungergli alle caviglie.
«Salviamoci sul tetto,» pensò. «Impossibile che la piena mi raggiunga anche lassù!»
Aggrappandosi ora a una grondaia ed ora a una vecchia insegna, Eriprando, che non era molto meno agile d’un orso gufo impagliato, in pochi slanci riuscì a guadagnare il tetto, che era formato da fitti strati di foglie secche ed eternit.
Si appollaiò sulla parte più alta e attese, colla convinzione che le acque non lo avrebbero raggiunto a quell’altezza.
La pioggia non cessava di cadere e l’oscurità era diventata così profonda, essendo cessati i lampi, che il dottore non riusciva a vedere a cinque passi dalla punta del suo naso. Intorno al parcheggio, già tutto sommerso, udiva il fiume muggire cupamente. Improvvisamente gonfiato da quel furioso acquazzone che durava già da parecchie ore, straripava da tutte le parti. Anche le folte foreste delle due rive dovevano essere state allagate.
«Come finirà tutto ciò?» si chiese il dottore, le cui inquietudini aumentavano di momento in momento. «E quei furfanti che mi hanno abbandonato senza prendersi la briga di svegliarmi? Che i jabberwock li divorino tutti!»
Uno scricchiolio sinistro, che si ripercosse fino alla punta del tetto, lo fece trasalire. L’intera struttura vibrava come se fosse lì lì per sfasciarsi sotto gli urti incessanti delle acque, le quali si accavalcavano disordinatamente sopra l’isoletta, frangendosi contro i cespugli.
«Questa costruzione non resisterà a lungo,» mormorò il disgraziato dottore. «Sfortunatamente non sono un buon nuotatore… spero di poter guadagnare in qualche modo la riva. Peccato che non lampeggi più! Con questa oscurità non sarà facile dirigersi e trovare…»
Un nuovo scricchiolio, seguito da alcuni schianti, lo interruppe. Le pareti cominciavano a cedere, due o tre per volta, e l’acqua irrompeva ormai all’interno, gorgogliando allegramente. Il dottore affondò le mani nella massa di fogliame che copriva il tetto.
«Chissà!» mormorò. «Forse galleggerà. Non disperiamo.»
Le oscillazioni della capanna aumentavano ed il tetto cominciava ad inclinarsi da un lato: ad un tratto i pali cedettero ed il tetto precipitò in acqua. Si sommerse, sollevando tutt’intorno alti spruzzi di spuma, poi rimontò a galla e filò attraverso l’isola, ondeggiando e girando lentamente su se stesso.
Come il dottore aveva previsto, galleggiava come una zattera, quantunque fosse in parte sommerso.
Quando però si trovò nel fiume, la sua corsa divenne rapidissima, tanto che il naufrago ebbe per qualche momento il timore di non poter più resistere.
Quella strana zattera correva vertiginosamente, girando e rigirando su se stessa entro i gorghi o balzando e rimbalzando sulle onde. La corrente del fiume la trasportava verso il lago.
Ad ogni momento urtava con grandi scossoni contro tronchi d’albero. Quella massa di foglie, fortunatamente ben unita da strati di bitume e fibre solidissime di rampicanti, cappeggiava pericolosamente e affondava, facendo prendere al naufrago dei continui bagni.
«Purché non si sfasci, tutto andrà bene,» mormorava Eriprando, stringendo nervosamente la sciabola.
Quella corsa vertiginosa durò una ventina di minuti, poi quasi improvvisamente cessò, ma allora successero delle ondulazioni ben più pericolose.
Dei cavalloni si rovesciavano incessantemente sulla zattera, muggendo e scrosciando, passandovi sopra e coprendo volta a volta il naufrago, il quale faticava assai e correva pericolo di venir portato via: erano le onde del lago.
Anche lo Zolph-Urplah era in piena e l’uragano l’aveva sconvolto. Quei pochi, ma poderosissimi soffi erano bastati per turbare la sua superficie, solitamente così tranquilla.
Sempre ondulando, il tetto della capanna continuava ad allontanarsi dalla foce del Malaug, spinto dalla corrente del fiume che doveva farsi sentire ad una distanza notevole.
Il dottore resisteva sempre tenacemente agli assalti delle onde, che non gli accordavano un istante di tregua. Quantunque si sentisse affranto, non lasciava il bambù, anzi lo stringeva con crescente energia colle mani e colle gambe.
Non sapeva più dove fosse. Si trovava ormai molto lontano dalla riva o vicino? Era impossibile saperlo, perché l’oscurità regnava sempre sovrana sul lago.
«Non disperiamo,» ripeteva. «L’alba non tarderà a rompere queste maledette tenebre. Se riesco a resistere fino ad allora, saprò ben io dirigere alla meglio la mia zattera. Dopo tutto, non debbo lamentarmi di questo uragano, che mi ha strappato dalla compagnia di quei bricconi.»


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Una profonda riflessione su “La Città del Re Leucrotta – Cap. XV

  1. Aaahh!! che nostalgia…

    Una volta mio nonno aveva una casetta
    sulla foce del Malaug,
    poi è arrivata la civiltà…

    Mo desso civiltà è una parola grossa,
    è arivato un piccoletto,
    un palazzinaro pelato e coi tacchi…
    e il giorno dopo c’era Malaug2

    peccato…
    una volta era tutta campagna…

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