La Spia
Il dottor Eriprando Maria Zeppo Von Basedoff, figlio d’un celebre ciarlatano che aveva fatto la sua fortuna col mesmerismo alla corte del Gran Satrapo di Mornona e poi a quella del Tiranno di Meyamptu, aveva ereditato dal padre una intensa passione per la vita avventurosa e per i guadagni facili. Laureatosi in maniera controversa, grazie alle sue doti di falsario, all’università di Cemoria, dopo un paio d’anni di pratica in quell’ospedale, e una breve permanenza in quei bagni penali, aveva dato un addio alla città natia, disgustato anche dall’oppressione straniera e dalle severe leggi sulla circonvenzione di incapaci, e si era imbarcato a Denzia sul primo veliero in partenza per l’Oriente.
Ricchissimo, abilissimo e munito anche di equivoche lettere di raccomandazione per i nobili e i sovrani dell’Est, quattro mesi dopo salutava con gioia le torbide acque del sacro fiume Zaghtru e le immense canne delle prime giungle.
Dopo aver percorso la misteriosa Imar, dal capo Metas alle immense catene del Quingrator, aveva fissato la sua residenza nel feudo di Mornona, dove già suo padre aveva lasciato tanti graditi ricordi ormai caduti in prescrizione e dove il suo nome era ricordato con una specie di astiosa venerazione.
Spirito però irrequieto, non vi si era fermato a lungo e, dopo un anno, aveva ripreso le sue peregrinazioni visitando le grandi isole del mar di Dochuke, ora operando e guarendo, ora cacciando piccoli e grossi animali – soprattutto quelli piccoli – ora studiando quei popoli così interessanti, ora commerciando, truffando, fondando sette religiose e partiti politici, sposando ricche ereditiere, collaborando coi servizi segreti occidentali; insomma, di tutto un po’. A sessant’ anni, ma ne dimostrava ottanta, un po’ stanco di quella vita randagia, minato dalla sifilide e dall’abuso di stupefacenti, era sbarcato a Kuglurg, l’opulenta capitale del Fethrund, per riposarsi alcuni mesi. Voleva conoscere anche i Fethrundesi, prima di tornarsene definitivamente in occidente, e possibilmente anche gli Uruth, popolo in quell’epoca non più conosciuto di quello degli gnomi abissali che abitano le impenetrabili caverne del Quingrator. La pittoresca città, col suo magnifico fiume, le sue alte cupole dorate sfolgoranti al sole, aveva subito conquistato l’anima del medico… così come la febbre gialla, del resto, ed egli si era fermato più del previsto, affittando una graziosa palazzina che si trovava, come abbiamo veduto, di fronte alla casa del generale.
Spacciandosi per conoscitore profondo di tutte le malattie che travagliano e decimano le popolazioni orientali, non aveva tardato a formarsi una numerosa clientela, specialmente fra i ricchi della città e anche fra i grandi della corte, che credevano più alla scienza d’un ciarlatano straniero, che ai ciarlatani di casa propria.
Per parecchi mesi non si era mai occupato del suo vicino, che abitava quella villetta pacchiana; ma una sera verso il tramonto, mentre stava sulla sua veranda leggendo, i suoi occhi per la prima volta si erano incontrati in quelli di Ukhurra. La megera, che stava raccogliendo i resti del pasto notturno delle peonie fra le piante che adornavano la sua ricca veranda, accortasi di essere osservata da quello straniero, si era affrettata a imbracciare la balestra; ma la sera seguente, alla stessa ora, il dottore l’aveva riveduta accudir le peonie, rimanendo ben nascosto dietro un cespuglio. Per la prima volta in vita sua, un sentimento nuovo, inquietante, era penetrato nel cuore dell’eugiliano. Che cos’era? Non sapeva veramente spiegarselo; sapeva solo che quando rivedeva la nonna del prode generale, non riusciva a riposare per tutta la notte. E per molte sere aveva guatato silenziosamente l’arpia, temendo in cuor suo l’eventuale malattia di Vronch che li avrebbe per la prima volta avvicinati.
Per nulla preoccupato dalla disgrazia, che forse in quel momento stava per colpire il generale, il dottore passeggiava pigramente dinanzi alla porta del palazzo reale, chiedendosi come sarebbe terminato quel colloquio col possente monarca e se ci fosse un modo di ricavarne un qualche utile.
Conosceva abbastanza bene i coboldi per non farsi troppe illusioni, ed aveva anche conosciuto più d’un nobile o d’un vassallo, individui capricciosi, testardi, vendicativi, inclini al turpiloquio e all’abigeato, e anche molto superstiziosi.
Cominciava già a considerare Vronch spacciato, quando finalmente lo vide apparire. Con un solo sguardo capì che quel colloquio non doveva essere stato troppo amichevole, a giudicare dal muso rannuvolato dell’ex ministro della corte dei Baldench.
«Cattive nuove, generale?» gli chiese premurosamente.
«Andiamo da me,» rispose Vronch. «Esamineremo insieme la situazione davanti a una bottiglia di vino.»
Un quarto d’ora dopo il generale ed Eriprando si trovavano nella stanza dove per la prima volta si erano veduti e dove il medico aveva compiuto quella sospetta guarigione. Vronch, dopo aver fatto avvertire Ukhurra che avrebbe cenato più tardi, chiuse a chiave la porta della veranda onde nessuno entrasse; poi, dopo stappato una bottiglia, informò minutamente il dottore dell’esito del suo colloquio con Woorplah.
Eriprando lo ascoltò senza interromperlo, non celando però la sua sorpresa per il sapore inusitato del vino, e chiedendosi in cuor suo se quella non fosse una nuova trovata degli occulti nemici del generale, per fregarlo completamente, tanto gli pareva un’idiozia quella storia del Sacro Pungolo di Krustulas.
«È tutto?» chiese finalmente, quando Vronch tacque. «Che cosa ne pensate, voi, di questa missione?»
«Mi pare che il re pensi seriamente a riabilitarmi.»
«O ve lo vuole mettere in quel posto?»
«Non lo credo.»
«Quel famoso aggeggio esiste veramente?» chiese l’eugiliano.
«Sono molti secoli che se ne parla, senza che si sia mai fatto alcun tentativo per cercarlo. I talponi affermano che se il re lo possedesse, i mostri bianchi non mancherebbero mai alla corte reale. Arriverebbero a frotte. Io che ho, diciamo, combattuto per due anni alle frontiere, contro gli Yeek e contro gli stessi Orchi, ho udito sovente parlare di immense città d’una architettura meravigliosa, che si troverebbero nascoste nelle immense foreste del settentrione, ad oriente del lago Zolph-Urplah. Narrano le nostre antiche storie che, molti secoli addietro, in quelle foreste esisteva un regno chiamato Thamorgh, che occupava una estensione immensa, che ebbe centoventi re, tutti assieme, badate, non uno dopo l’altro, intendo, e che poteva disporre di cinque milioni di coboldi combattenti. Come quel regno sia scomparso, ancor oggi è un mistero; ma che sia esistito non si può mettere in dubbio, anzi era celebre fra i grandi stati d’oriente. Di esso sono rimaste rovine imponenti, fra cui una città che gli Yeek chiamano “Buco Infernale” e che sarebbe stata la capitale di quel regno. Altro vino?»
«Volentieri,» disse il dottore, capovolgendo la bottiglia vuota.
«È vino di gufo,» Vronch indicò l’etichetta, «Si ottiene spremendo con cura i gufi.»
«Doveva proprio farmelo notare, eh?»
«Eccome. È il vanto della nostra casata. Alleviamo torme di gufi e barbagianni per produrre questo vino. E non mi direte che non vi piace, voglio sperare.»
«Oh, beh, io bevo anche la trielina, per cui… » e vuotò il bicchiere d’un fiato. «Comunque, tornando a noi. Questa misteriosa città, esiste ancora?»
«Sì, e gl’indigeni, che io ho più volte interrogati, mi hanno raccontato che quella città, che sarebbe stata costruita da un re leucrotta, ha ancora le due immense cinte in ottimo stato, meravigliosi edifizi, torri, gallerie, archi trionfali ed un tempio colossale entro cui sarebbe stato sepolto il pungolo adoperato dal brauusk incaricato di condurre il mostro che incarnava lo spirito di Krustulas.»
«Che sia stato veramente sepolto colà, quel coso?»
«I nostri libri sacri lo affermano.»
«E se non esistesse?» chiese l’eugiliano, che catalogava tutte le leggende sotto la voce “stronzate”.
«Perché gli antichi talponi avrebbero mentito?» chiese Vronch.
«Boh. Chi lo avrebbe sepolto?»
«Il brauusk, per ordine del leucrotta.»
Il dottore non poté trattenere una scomposta risata di incredulità. Già alle cinquecento incarnazioni del dio non prestava alcuna fede, malgrado le affermazioni di tutti i libri sacri dei Fethrundesi e anche degli Uruth, ma questa poi…
«Ditemi, generale,» riprese, asciugandosi le lacrime. «C’è altro vino? Bene. Ecco… ehm… fu fatta una descrizione di quel miracoloso uncino?»
«Sì: ha la punta d’oro, con due cerchi di rubini, ed il manico è formato da uno smeraldo.»
«Uno smeraldo così enorme!»
«Vi stupite? Nella nostro tempio di Dzarr-Dzaurekh si conserva una statuetta di Krustulas, fatta con un solo granato che pesa undici chili.»
«Sì, ne ho udito parlare,» rispose il dottore. «Ma pensavo fosse una cazzata. Ed ora che cosa contate di fare?»
«Ahimè…obbedire,» disse Vronch.
«E stappare un’altra bottiglia, suggerisco. Andrete a cercarlo?»
«Sì. Sono guardato a vista, che altro posso fare? Non posso certo scappare. Conosco troppo bene il re: è infido e taccagno, e vuole essere obbedito. Io, ai suoi occhi, sono colpevole di aver causato la morte dei Baldench e tutti, popolo e grandi, mi accusano, quantunque la mia coscienza nulla abbia da rimproverarmi.»
«E… come si chiama… Ukhurra?»
Il generale stava per rispondere, quando un lieve rumore, come d’un ramo che si spezzi, assieme a un grugnito soffocato, attrasse improvvisamente la sua attenzione. Quel rumore si era udito presso una delle due finestre che erano state lasciate aperte e che guardavano sul giardino, verso il fiume. Vronch si alzò di scatto e si diresse rapidamente verso la finestra, sollevando la leggera tenda tarlata che si gonfiava ai soffi della brezza notturna. Delle piante rampicanti, dalle larghe e foltissime foglie, coprivano quasi l’intera facciata della casa, incorniciando le finestre e spingendosi fino sul tetto. Vronch si curvò sul davanzale: «Un ramo è stato spezzato sotto la finestra,» disse al dottore che si era attardato per riempirsi il bicchiere.
«E da chi?»
«Ma che domande mi fate, o Krustulas?»
«Dice che qualcuno si è arrampicato, per sorprendere i nostri discorsi?»
«Forse mi sarò ingannato, dottore. Chi potrebbe avere interesse ad ascoltarci?», chiese con tono sarcastico, «Sanno tutti che io non ho nemici…»
Stettero qualche minuto alla finestra; poi, non udendo alcun rumore sospetto, rientrarono.
«Stavo dicendo, voi partirete?» riprese il dottore.
«Eh, sì.»
«Quando?»
«Domani, dopo il mezzodì, sul mio balòn.»
«E Ukhurra, dicevo?»
«Verrà con me,» disse il generale, chinando il capo. «È una vecchia indistruttibile, che ha viaggiato molte volte, che mi ha accompagnato anche nelle foreste del settentrione, quando guerreggiavo contro gli Yeek. Può spezzare il collo ad un troll senza scomporsi. Ha deciso di accompagnarmi, e non ci sarà modo di farle cambiare idea.»
«Bene,», disse Eriprando alzandosi a fatica, «Allora è fatta. Vi auguro buon viaggio e tante belle co…»
«Ascoltate,» lo interruppe Vronch, che pareva avesse preso una improvvisa risoluzione. «Se vi facessi la proposta di unirvi a noi? Ho bisogno, oltre che d’un medico, d’un buon fucile e d’un discreto cacciatore, ma anche voi, voglio dire…» e con una mossa improvvisa strinse le mani del dottore.
«Io, seguirvi! Voi volete che io condivida i pericoli d’un così lungo viaggio fra le selvagge tribù del settentrione? », rispose il medico, visibilmente scosso. «Per non parlare di vostra nonna…»
«Ecco, infatti… il punto è proprio questo. Il pensiero di un lungo viaggio in compagnia di quel mostro… capite », borbottò Vronch, «… m’agghiaccia il sangue. Se solo avessi compagnia, qualcuno di più intelligente di Fang, intendo… So che il viaggio è pericoloso… », e così dicendo guardò il vecchio di soppiatto.
«Avete dimenticato Cram-Hupah?»
«Cosa intendete dire, di grazia?»
«Quel coboldo… non aveva chiesto la mano di vostra nonna? Sicuramente sarebbe disposto a seguirvi, e… »
«No, no, meglio di no. Dopo che ho rifiutato la sua proposta i nostri rapporti sono rimasti… ehm… un po’ tesi, non so se mi spiego. Comunque, dicevo… » , proseguì Vronch, fissando le ragnatele sul soffitto, «il viaggio è pericoloso…»
«E credete che questo sia un incentivo? Caro Vronch, ma vi sta dando di volta il cervello?»
«… e se succedesse, Krustulas, non voglia, qualcosa alla cara, preziosissima Ukhurra», proseguì Vronch, dondolandosi sulle punte dei piedi, «… Krustulas la conservi in salute… dovrei proseguire, ehm, da solo…»
Ci fu un attimo di silenzio.
«La dolcissima e veneranda Ukhurra…», chiese Eriprando, accarezzandosi la barba, «Non è che per caso sareste il suo, ehm, unico erede?»
Ci fu un altro attimo di silenzio.
Vronch annuì.
«E, ehm, a quanto ammonta…?»
Vronch fece un gesto eloquente.
«Cinquanta e cinquanta?»
Vronch annuì.
«Domani, dopo il mezzodì», disse il dottore. Vuotò il bicchiere. «Vado a preparare i bagagli.»
Si erano appena ritirati, quando un’ombra sbilenca si alzò in mezzo ad una folta aiola di peonie, arrancando faticosamente verso la cancellata che cingeva il giardino. Era un coboldo scarmigliato e ansimante, quasi interamente nudo, non avendo che pochi stracci addosso; tutto il resto era stato ridotto a brandelli dalle peonie carnivore.
Sospeso ad una sottile cintura, portava uno di quei coltellacci dalla lama larga e dalla punta quadra usati dagli Uruth e dagli Yeek, arma terribile, che d’un sol colpo tronca la testa sia ad un coboldo che ad una belva, non troppo grande.
Quell’individuo, che pareva in preda ad un terrore sovrumano, si inoltrò tenendosi sotto l’ombra proiettata dagli alberi, che crescevano numerosi nel giardino, raggiunse la cancellata, vi si inerpicò freneticamente scavalcando le punte e con un goffo volteggio si lasciò cadere sulla riva del Fulukh.
«Fottute peonie del cazzo,» mormorò. «Ora inseguitemi, se ne siete capaci. Ullogh ha i garretti solidi e sfida i cervi.»
Si slanciò a corsa sfrenata, continuando a borbottare frasi sconnesse, tenendosi curvo verso terra e seguendo la riva del fiume, che in quel luogo era ombreggiata da una doppia fila di alberi di poponi, dalle immense foglie piumate.
Continuò a correre per una decina di minuti, poi, quando si credette sufficientemente lontano dalla palazzina del generale, accostò alle labbra un piccolo fischietto, traendone alcune note stridenti e acutissime.
Da una capanna semidiroccata, che un tempo doveva aver servito d’asilo a qualche pescatore, giunse un altro fischio in risposta. Da altre capanne e dalle case galleggianti, invece, giunsero imprecazioni e bestemmie.
Un coboldo solo, corpulento, le spalle avvolte in una larga sciarpa di lana nera che gli nascondeva parte del muso, uscì sulla riva: era Cram-Hupah, il possente, politicanente parlando, ministro del re.
«Sei riuscito?» chiese a Ullogh che gli era mosso incontro.
«Sì, mio signore,» rispose il losco individuo.
«Hai udito tutto?»
«Tutto, ma per poco non sono stato sorpreso; le piante che coprono la facciata della villa per due volte hanno ceduto sotto il mio peso, e sono sfuggito alla morte per un vero miracolo, visto che poi hanno tentato di uccidermi.»
«Vabbè, vabbè, non farla tanto tragica. Ti pago, per questo. Che cos’hai udito?» chiese il ministro con vivacità.
«Partono domani, dopo il mezzodì.»
«Chi partono?»
«Il generale e anche Ukhurra.»
Una rauca bestemmia sfuggì dalle labbra contratte del ministro.
«Anche Ukhurra, hai detto?» chiese con voce sibilante. «Evvài. Ne sei certo?»
«Ha detto anche, mio signore, che tu volevi sposarla.»
Il ministro era diventato prima pallido, poi violetto.
«Che COSA?»
«E che lui non ha voluto,» aggiunse Ullogh con malcelato disgusto, «ma avrebbe voluto che tu lo accompagnassi per amore di Ukhurra.»
«Che bastardo. Non ha proprio un briciolo di dignità?»
«Di ciò non ha parlato.»
«Era una domanda retorica. Hai altro da dirmi?» gli chiese.
«Sì, padrone,» rispose Ullogh.
«Parla.»
«Ora parlo.»
«Bene.»
«Ecco.»
«Sto aspettando.»
«Un umano bianco, un occidentale, accompagnerà Vronch.»
«E chi cazzo è, quest’altro rompicoglioni?» chiese Cram-Hupah, volgendo gli occhi al cielo.
«Quel dottore di cui ti ho parlato,» rispose Ullogh.
Il viso del ministro assunse un’espressione dispiaciuta.
«Ecco un umano che bisogna salvare. Per quanto detesti la sua genia,» disse sputando a terra, «Non c’entra nulla in questa faccenda. Un viaggio in compagnia di Ukhurra… bleah.» e sputò di nuovo.
«Vuoi che lo avverta?», chiese Ullogh, prima di sputare a sua volta.
« È la cosa più giusta da fare. » e sputò. «Fosse anche un drow, od un demonio, o un uomo-cactus, quel tizio non seguirà Ukhurra, né Vronch nell’alto Fulukh. È rientrato nella sua palazzina?»
«Non ancora, padrone.», rispose Ullogh, dopo aver sputato.
«Basta sputare. Seguilo di soppiatto»
«Lascia fare a me, ministro; ho il mio progetto,» disse il mezzo-yeek, sorridendo. «Non mi sfuggirà.»
Cram-Hupah si accostò alla capanna e chiamò a bassa voce. Quattro coboldi balzarono fuori, cacciandosi entro le fasce dei coltellacci simili a quello che aveva con sé Ullogh. Erano robusti, tarchiati, dalla tinta fosca, gli occhi obliqui e la coda tatuata, e indossavano una semplice camicia di cotone grossolano che scendeva fino alle ginocchia.
Ullogh li guardò attentamente ad uno ad uno, poi, soddisfatto da quell’esame disse: «Addio, padrone, e conta su di me,»
Risalì la riva seguito dai quattro tagliagole e si diresse con passo rapido verso la villa del generale. Quando giunse nella via che separava le due palazzine, si volse verso i quattro, dicendo loro:
«Andate a nascondervi dietro quel muricciolo e, quando mi vedrete assieme all’uomo bianco, mi seguirete senza farvi scorgere. Non fate nulla se prima non udite il mio fischietto. Vi sono cento nichelini da guadagnare, che il padrone pagherà senza battere ciglio.»
I quattro banditi scomparvero dietro il muricciolo.
Ullogh si collocò presso un angolo della palazzina del dottore e si mise a guardare attentamente le finestre della casa di Vronch, le quali erano ancora illuminate.
«L’umano è ancora lì dentro,» mormorò. «Il ministro sarà contento! Io un giorno sarò camerlengo, e poi, col tempo, chissà, ministro del re anch’io. Gli affari vanno a meraviglia. Che figata.»
Il briccone si trovava nascosto dietro l’angolo della palazzina da una buona mezz’ora, e cominciava già ad impazientirsi, quando vide la porta della villetta di Vronch aprirsi ed uscire l’umano, palesemente ubriaco.
Il mezzo-yeek voleva attendere che attraversasse la via, che a quell’ora era deserta, per poi raggiungerlo uscendo rapidamente dall’ombra, prima che avesse il tempo di salire i tre gradini di casa sua e di percuotere il gong. Ma quando si rese conto che, invece, il dottore si stava dirigendo, a zig zag, verso la riva del fiume, gli corse dietro.
«Ehi! Aspetta! Medico bianco!» gridò Ullogh, con tono allarmato.
I quattro tagliagole, dal loro nascondiglio, videro Ullogh raggiungere il vecchio e afferrarlo per una manica. I due sembrarono parlare animatamente per qualche istante, poi l’umano, barcollando, assestò uno spintone al mezzo-yeek, che, per quanto robusto, gli arrivava all’ombelico, e lo mandò a ruzzolare per terra. Ullogh si rialzò con uno scatto da mangusta e gli azzannò una coscia. Cominciarono ad accapigliarsi, sotto lo sguardo perplesso dei quattro coboldi, finchè non persero entrambi l’equilibrio e caddero nel fiume.
«Ah… Volete assassinarmi! Accorruomo!» gridava il dottore, tossendo e sputacchiando. Mani scagliose lo avevano afferrato. Appartenevano a Fang e agli altri servitori.
«Dottore? State bene? Dottore!»
«Chi è? Sono già le sette?»
«Dalla veranda vi avevo veduto parlare con un coboldo, poi allontanarvi. La cosa mi è parsa, ehm, strana.»
«Non dire così, giovanotto» rispose l’uomo, ridacchiando. «Me la sono cavata bene. Scegli una carta… hic… una qualunque.»
I coboldi avevano finalmente trascinato il vecchio sulla riva. Per un attimo rimasero a riprendere fiato, mentre Von Basedoff borbottava e ghignava tra sé e sé. Poi Fang si rivolse di nuovo a lui.
«Chi era quel tizio?»
«Quale tizio?»
«Quello con cui stavate parlando. Un battelliere?»
«No, hic, generale.»
«Non sono il generale. Sono Fang, mi riconoscete?»
«Lo suppongo. Ma, giovanotto, ti consiglio di non usare quel tono… hic… con me. Lei non sa chi sono io!»
«Va bene. Ora si aggrappi a noi, la riaccompagnamo a casa.»
«A quale scopo? Non ho bisogno del vostro aiuto! Fottuti coboldi del… del… del cazzo! Ecco!»
«Va bene, va bene, ecco, mi dia la mano.»
Trascinarono il vecchio fino a casa sua. Le sue grida di «Aiuto! Mi rapiscono!», e «Avvertite l’ambasciata!» avevano svegliato tutto il circondario e dovettero fare il percorso sotto una pioggia di insulti, rifiuti, cocci di bottiglie e gatti morti che i coboldi tengono abitualmente in un secchio sotto la finestra per simili occasioni.
Eriprando von Basedoff si svegliò la mattina dopo, coricato sulla panca della sua veranda; era fradicio, intontito, pieno di lividi, puzzava come una capra delle caverne e aveva dimenticato tutto.
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