La Cremazione del Sacro Leucrotta
I tam-tam del palazzo reale avevano appunto battuto le quattro del pomeriggio, quando il medico entrò barcollando nella elegante casetta di Vronch. Aveva l’aspetto d’un uomo assai confuso, e la sua ampia fronte era solcata da profonde rughe, indizio che un profondo pensiero lo turbava e che non dormiva abbastanza. Sul pianerottolo della scala Ukhurra, più inquietante del solito, con un giubbettino di pelle di caimano nero tutto borchie e ricami d’oro, i calzoni ampi di stoffa azzurra che le scendevano fino sotto il ginocchio, e una superba peonia carnivora piantata sul pettine d’oro che le reggeva la chioma da medusa, lo aspettava. Dalla veranda lo aveva veduto uscire dalla sua palazzina e si era affrettata a muovergli incontro con la sua mazza da cricket.
Il vecchio, scorgendola, trasalì, e fissò sulla vecchia megera uno sguardo vacuo. Era troppo tardi per darsela a gambe. La ruga era improvvisamente scomparsa dalla sua fronte e anche la preoccupazione dal suo animo.
«Mi aspettavate, Ukhurra?» chiese il dottore, con una certa ansietà.
«Sì, signor straniero,» rispose la vecchia con voce rude, mentre un rapido fremito agitava le sue mani, che già il dottore immaginava attorno al suo collo.
«Vostro padre?»
«È già alzato. Quanto vi credete abili voi, uomini dell’occidente: nulla vi è impossibile, eh?»
«Bah! Un gioco da ragazzi. Ehm…», abbozzò il dottore.
«Venite, signor umano bianco.», disse Ukhurra con tono perentorio.
Attraversarono la veranda ed entrarono nella stanza del generale.
Vronch, che pareva ormai completamente guarito, se ne stava seduto su un divanetto di finta pelle, chiacchierando con l’infido Fang, che cercava in tutti i modi di portare il discorso sull’ubicazione dell’eredità.
«Buone nuove, dottore?» chiese l’ex-generale, spingendo Fang da parte.
«Ho finito or ora di esaminare il sangue vomitato da quel povero leucrotta.»
«Avete potuto vederlo?»
«Il re me ne ha accordato il permesso. Voi sapete che Re Woorplah nulla nega agli eugiliani che sono nei suoi stati.»
«È vero,» rispose il generale. «Egli li apprezza come si meritano. È molto vero.»
Il dottore fissò attonito il generale, poi disse con voce grave:
«I vostri sospetti non erano infondati: il Baldench è stato ucciso da un potente veleno, somministratogli da qualche vostro nemico.»
«Come avete potuto accertarvene?»
«Esaminando ed analizzando un po’ di sangue che mi avevano concesso di raccogliere. Vi ho trovato delle tracce di veleni potenti.»
«Siete ben sicuro, dottore, di non esservi ingannato?»
«No. Ho esaminato il sangue.»
«E…?»
«Veleni! C’erano dei veleni nel sangue! Veleni! SANGUE! VELENI! Avete capito? Oh cazzo.»
«Capisco. E il re? Avete appreso nulla delle intenzioni del re a mio riguardo? Cosa dice il re?»
«Brutte nuove,» disse il dottore. «Voi dovete avere dei nemici potenti che esigono la vostra completa rovina. Il re è furibondo per la morte dell’ultimo Baldench.»
«Che cosa mi consigliate di fare?» chiese Vronch, con voce cupa. «Una denuncia al re sull’avvelenamento del Baldench?»
«Chi vi crederebbe? Io no di certo. E anche se appoggiassi la vostra denuncia, e non lo farò, vi tratterebbero da pazzo o da mentecatto.»
«Che cosa farà il re?»
«Lo ignoro, ma temo che la vostra disgrazia, per ora, sia completa. Anche il popolo v’incolpa della morte del Baldench.»
«Fanculo il popolo. Sarebbe stato meglio che voi mi aveste lasciato dormire,» disse Vronch, facendo un gesto di sconforto supremo.
«E Ukhurra?»
«Mi avrebbe tirato il collo come un tacchino. Sì, è vero; perdonate, signore; sono stato ingrato, pronunciando quelle parole in vostra presenza.»
Il quel momento un colpo di tam-tam echeggiò nella via, ripercuotendosi sulla veranda.
Qualcuno, certo qualche personaggio importante a giudicarlo dalla violenza del colpo, aveva percosso la lastra di bronzo sospesa sulla porta della villetta. Vronch trasalì.
«Chi cazzo scassa la minchia a quest’ora, gli pigliasse lo scorbuto?»
«Un paggio del re,» disse in quel momento Fang, entrando. «Ha recato per voi, mio signore, questo messaggio.»
Nelle mani teneva un cartone di dimensioni enormi, d’un metro quadrato per lo meno, come usano i Fethrundesi, con delle lettere monumentali tracciate rozzamente. Ai due lati superiori erano disegnati due leucrotta ed a quelli inferiori due figure che probabilmente rappresentavano Krustulas.
«Un messaggio del re!» esclamò il generale, facendosi scuro in viso. «Annuncia la mia disgrazia?»
«E leggete, no?» disse il dottore.
«Uhm… È un invito per assistere alla cremazione del Baldench,» disse Vronch.
«Che la collera del re si sia calmata?» chiese il medico.
«Comincio a crederlo, giacché m’invita a prendere posto nella tribuna reale, assieme a mia nonna ed al portatore della mia scatola per il fango. Dottore, verrete con me, è vero? Ukhurra non ama assistere alle cremazioni. Potrebbero venirle brutte idee.»
«Quando si farà?»
«Fra due ore, al tramonto del sole.»
«È uno spettacolo che merita di essere veduto,» rispose l’eugiliano. «Accetto il vostro gentile invito. Che il re voglia parlarvi?»
«Vedremo, signore. Questo messaggio reale mi pare di buon augurio,» disse Vronch, il cui muso si era rasserenato. «Dottore, andate a prendere il tè con Ukhurra. Almeno la terrete buona per un po’. E forse riuscirete a convincerla che io non ho nulla a che fare con lo strano malessere che la colse ieri sera. Andate, su.»
Un’ora dopo, Vronch, che aveva indossato il costume di gala tutto in tela gialla a fiori e figure allegoriche, ricamata in oro, stretto alla cintura da una larga fascia che reggeva la scimitarra, e l’umano, visibilmente provato, lasciavano la villetta su due palanchini portati da otto rumorosi schiavi snotling, preceduti da due servi che portavano l’uno la scatola d’oro, contenente il fango del generale, e l’altro un ombrello rosso, con borchie d’olivina, distintivo che il re concede solamente ai grandi del regno. I ricchi Fethrundesi e così pure gli Uruth, non escono mai senza il portatore della scatola contenente il fango, del cui miscuglio sono avidissimi, e neppure senza il portatore d’ombrello. Sono distintivi di nobiltà, che dànno loro il diritto di farsi largo dovunque, eventualmente a ombrellate.
Procedendo di corsa, gli schiavi giunsero ben presto nei pressi del palazzo reale, dinanzi a cui, su una piazza immensa che si stendeva fino alla riva del Fulukh, doveva essere cremato il corpaccio del sacro leucrotta.
Una folla enorme aveva già occupato la piazza, pigiandosi contro le logge destinate ai grandi dello stato e alla corte reale che erano state costruite alla meno peggio durante la notte da migliaia e migliaia d’operai.
Nel mezzo era già stata eretta la pira, una gigantesca piramide quadrilatera, mozza alla cima, che si alzava per ben dieci metri, formata da enormi tronchi d’albero di popone, congiunti fra loro da anelli di ferro. Da ogni lato della piramide si staccava un’ala lunga tre metri e diretta verso uno dei quattro punti cardinali, che si congiungeva ad un’altra torre, eguale nella forma a quella centrale, ma di più modeste proporzioni.
Vronch, un po’ commosso, salì la gradinata, seguito dal dottore e dai due portatori, e prese posto dietro le file dei dignitari. La sua comparsa produsse però un profondo effetto fra quegli orgogliosi cortigiani, che lo credevano ormai completamente liquidato. Vi furono esclamazioni di stupore, sussurrii poco benevoli, sputi e gestacci osceni e nessun saluto. Vronch, assai incazzato ed immerso in ferali pensieri di vendetta, finse di non accorgersi di quelle dimostrazioni ostili. Egli aveva subito fissato gli occhi sulla loggia reale, dove, sotto un baldacchino giallo dalle lunghe frange rosicchiate, circondato da ombrelli altissimi colle aste storte, se ne stava seduto il re, fra i principi e le principesse di sangue reale.
Il potente monarca non indossava, come il giorno innanzi, l’incomodo costume delle grandi occasioni; anzi, mentre i principi ed i dignitari facevano sfoggio di vesti ricamate d’argento e di perle e di decorazioni sfolgoranti di lapislazzuli e topazi, portava una semplice veste di tela di sacco, senza guarnizioni, stretta alla cintura da una corda annodata, sostenente una corta sciabola. Woorplah pareva di cattivo umore e rimaneva immobile sulla sua poltrona dorata, senza porgere orecchio a ciò che gli dicevano i ministri ed i principi. Solamente, di quando in quando, allungava la destra verso la grande e ricchissima scatola d’oro che aveva sul coperchio lo stemma reale in rubini, per prendere qualche manciata di fango.
Ad un tratto però Vronch, che lo spiava ansiosamente, lo vide volgersi con una certa vivacità a guardare verso la loggia. I suoi occhi si fissarono per un momento sul generale, poi si volsero altrove.
«Vi ha notato,» disse il dottore.
«Sì, mi ha guardato,» rispose il generale.
«Mi sembra un po’ incazzato, per usare un eufemismo.»
«Lo è sempre: non l’ho veduto sorridere che due o tre volte, in tanti anni che lo avvicino.»
«Ecco i talponi che giungono: la carnevalata comincia. E dov’è la bestia morta?»
«Si trova già entro la piramide,» rispose Vronch.
«Che cosa ne faranno poi delle sue ceneri?»
«Le getteranno nel Fulukh, che è il nostro maggior fiume sacro e principale fogna. Le ossa che rimarranno si metteranno in un pentolone d’oro, che verrà poi conservato con gli avanzi dei re del Fethrund e di tutti gli altri mostri bianchi.»
Uno stuolo di talponi e di talponesse, vestiti tutti di tela bianca a quadrettoni viola, il colore usato nelle cerimonie funebri, s’avanzava verso la piramide, salmodiando massime morali nella lingua incomprensibile degli uomini-talpa, fiancheggiato da gruppi di suonatori che soffiavano disperatamente entro i dorgh, specie di lunghissime buccine dal suono assai aspro, percuotevano furiosamente degli enormi tamburi dalla forma e della grossezza d’un barile, e sbatacchiavano i bastoni-granchio, certe specie di bastoni di legno su cui vengono legati grossi crostacei furibondi che fungono da nacchere e servono d’accompagnamento alle voci.
Seguivano poi gruppi di ballerini e di ballerine, che avevano alle dita certi unghioni di rame giallo e portavano sul capo degli altissimi berretti conici ornati di pietre false; poi squadre di schiavi che reggevano dei canestri pieni di resine, di polvere di sandalo e di fango; quindi dieci o dodici carri, scortati da suonatori di kurrd, quegli strani strumenti musicali fatti a forma di bottiglia contenente un criceto urlatore che si batte col pugno.
Su tutti quei carri vi erano statue enormi ed antichissime di legno dorato, rappresentanti basilischi, draghileoni, elefanti bodendruker, mostri favolosi e serpenti inverosimili.
La processione fece due volte il giro dell’enorme piramide, gettando fango, fiori e materie resinose, sempre urlando, salmodiando e suonando, poi un talpone ad un cenno del re annodò ad un angolo della costruzione un largo nastro di stoffa bianca, legando l’altro capo ad un mucchio di libri sacri: era il mistico legame tra il defunto Baldench ed i libri di Krustulas. Quando il nastro fu teso, successe un profondo silenzio: talponi, talponesse e suonatori non fiatavano più. Allora il re scese dal palco reale, tenendo in mano una fiaccola accesa, mentre alcuni soldati spargevano al suolo della polvere da sparo, formando una lunga striscia.
Woorplah, visibilmente commosso, diede fuoco alla polvere, poi si voltò urlando «Tutti a terra!!» e si mise a correre.
Una striscia di fuoco serpeggiò per la piazza, comunicandosi alle materie resinose che circondavano l’immensa pira. L’esplosione fu assordante. Per alcuni istanti non si vide che una nuvola immensa di fumo nero avvolgere la piramide, poi fra quelle ondate di fumo guizzarono gigantesche lingue di fuoco, proiettando sulla folla pezzi di legno e di metallo, schegge, lapilli e bagliori sinistri. L’immensa mole che racchiudeva il corpaccio del Baldench, formata quasi tutta di tronchi incatramati, bruciava con rapidità incredibile, lanciando in aria fasci di scintille.
Tutti i principi, le principesse e i grandi dignitari dello stato accorrevano da ogni parte a gettare sul rogo torce e benzina, mentre i talponi e le talponesse mandavano grida acutissime, e rombavano con un fracasso infernale i tamburi e i granchi. I ballerini e le ballerine intanto saltellavano e piroettavano in mezzo ai piedi di chiunque, eseguendo la celeberrima Danza del Cordoglio. I tronchi cadevano al suolo con sinistri fragori, mentre si espandeva per l’aria un acre odore di carne bruciata: l’enorme animale rosolava entro quella immane fornace, tuonando e scoppiettando, perchè nel suo corpaccio avevano messo, come da tradizione, dei petardi. Le torri laterali, crollavano fragorosamente, lanciando in alto turbini di fumo acre e di scintille; le gallerie delle quattro ali si sfasciavano, ma la piramide resisteva ancora. Le tenebre erano calate, eppure sulla piazza ci si vedeva meglio che se fosse mezzodì. Perché il cielo pareva tutto in fiamme. Ad un tratto l’enorme edificio oscillò, come se una poderosa scossa di terremoto avesse sollevato il suolo, poi quelle centinaia di tronchi fiammeggianti si sfasciarono e l’intera massa crollò con un fracasso spaventevole, formando un immenso braciere alto parecchi metri.
Il corpo del Baldench, sepolto sotto quell’ammasso di tronchi già carbonizzati, si inceneriva rapidamente.
«È finita?» disse il dottore. «Possiamo andarcene, generale?»
Vronch, che era più commosso di quanto sembrasse, si era già alzato, quando un paggio del re lo accostò, sussurrandogli all’orecchio.
«Il re mi chiama!» esclamò il generale. «Sono un coboldo finito.». Il paggio annuì.
«Voi non sapete ancora che cosa desidera,» disse il dottore, quantunque in fondo all’animo condividesse le angosce del disgraziato generale.
«Non sarà certo per mantenermi in carica o per annunciarmi la cattura di qualche altro leucrotta,» rispose Vronch con voce rotta. «Il meglio che mi possa toccare sarà l’esilio in qualche lontana provincia paludosa.»
Il dottore soffocò un grido di giubilo: il suo pensiero corse a Ukhurra, a quella mostruosa arpia che già tante volte aveva popolato i suoi incubi e verso la quale già da tempo nutriva un profondo disgusto.
«Ebbene,» diss’egli con voce risoluta dopo un breve silenzio, «qualcuno vi seguirà anche nell’esilio. Ukhurra, per esempio.»
«Mi seguirebbe nell’esilio?» chiese il generale, con malcelato terrore.
«Come no,» rispose l’eugiliano, «e, sono certo, per lavorare alla vostra riabilitazione. Politica, intendo. Non mi riferivo ad incidenti gravi e invalidanti. No, certo che no…»
Vronch, profondamente sconvolto, artigliò la mano del bizzarro vecchio.
«Ah! Questo è troppo!» mormorò. «Qui non vivono che l’intrigo e la vigliaccheria, e questo lo posso sopportare… ma l’esilio con Ukhurra…»
Il rogo intanto stava per estinguersi e il re si era ritirato colla sua corte, rientrando nella cinta dell’immenso palazzo reale. Fare attendere quel potente monarca era troppo pericoloso.
«Andiamo,» disse Vronch, con voce risoluta. «Mi aspetterete davanti alla porta, è vero, dottore?»
«Non vi lascerò solo,» rispose l’eugiliano. «Casomai vi prendano a nerbate.»
Scesero dalla loggia, che a poco a poco si era vuotata, e si diressero verso la porta d’occidente che s’apriva sulla vasta piazza e che era guardata da una compagnia d’arcieri della guardia reale, vestiti di flanella rossa, con ampi calzoni alla zuava e coi cappelli di legno a forma di piramide.
Con grande sorpresa di Vronch, le guardie gli presentarono le armi e fecero squillare le buccine. Ciò era di buon augurio, poiché se la sua disgrazia fosse stata ormai decretata, nessun onore gli sarebbe stato più reso.
Un po’ incoraggiato da quell’accoglienza, fece cenno al dottore di attenderlo ed entrò nel vasto cortile d’onore, alla cui estremità s’apriva il salone delle udienze. Quando salì la gradinata, vide Woorplah passeggiare con una certa agitazione fra le splendide colonne che reggevano il soffitto di mosaico d’oro, ancora vestito di tela grigia, colla corta scimitarra appesa al fianco. Il viso del monarca non si era ancora rasserenato, anzi profonde rughe solcavano il suo muso ed un brutto lampo illuminava i suoi occhi nerissimi e leggermente obliqui.
Vedendo Vronch si arrestò di colpo, fissando sul generale uno sguardo acuto come la punta d’uno spillo.
«Eccomi, maestà,» disse il generale, dopo essersi inchinato fino a terra.
«Tu hai combattuto anche alle frontiere Uruth, contro gli Yeek e gli Orchi, è vero?» gli chiese il monarca senza rispondere al suo saluto.
«Sì, maestà, e mercé la protezione di Krustulas, anche quella volta ho salvato il regno da una invasione,» rispose Vronch, con voce untuosa.
«Tu allora, che sei rimasto in quei posti lungo tempo, c’è una leggenda che devi conoscere.»
«Quale, maestà?»
« Il Sacro Pungolo di Krustulas, te n’hanno mai parlato?»
Vronch guardò il re con una certa sorpresa, chiedendosi che cosa potesse significare quella strana domanda, poi rispose:
«Sì, ne ho udito parlare.»
«Sai dov’è che è stato sepolto?»
«In un tempio d’una vecchia città, a quanto mi hanno narrato. Lo sanno cani e porci, a quanto sembra.»
«Che sorge presso il lago misterioso di Zolph-Urplah.»
«Così mi hanno detto.»
«Ebbene, sappi ora che Krustulas, che l’hanno interrogato i talponi, ha fatto comprendere che senza quell’arnese più nessun bianco abominio non si fa vedere né catturare per niente. L’uncino che si serviva il brauusk, quando Krustulas era incarnato in un bianco leucrotta, è necessario per evitare le spaventevoli calamità che presto o tardi piombano sul mio regno non più protetto da alcun Baldench che è colpa tua. Vuoi che ti perdono e facciamo che non è successo nulla? Vuoi evitare a tua nonna la schiavitù? Va’ a pigliarlo.»
«Ma, maestà… se non esistesse?»
«Krustulas ha parlato ai talponi, e tu dici che son minchiate? Ma ti pare? Oseresti mettere in dubbio le parole del dio?» chiese il re con collera. «Sono trecent’anni che si parla di quel pungolo. Quindi esiste.»
«Potrò io scoprirlo?»
«Questi son cazzi tuoi: ti concedo tre giorni per fare i tuoi bagagli. Va’, Vronch: ti ho dato il mezzo per riabilitarti.»
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