Conosciamo molte persone che non avrebbero scommesso un centesimo sulla vittoria di Barack Obama. Molte di queste persone, poi, di fronte all’inequivocabile risultato, se ne escono con commenti tipo “Si, ma poi vedrete che la CIA lo farà sparire, figuratevi se gli americani possono volere un presidente negro” – e non smetteremo mai di stupirci di fronte alla profonda conoscenza dei retroscena della politica internazionale mostrata da gente che ha come unica fonte di informazioni il tiggì di Emilio Fede (scusate il termine). Comunque sia, gli USA hanno mostrato al mondo che, se non è possibile cambiare per davvero, almeno ci si può provare – e questo è un argomento su cui riflettere. Soprattutto per gente nelle nostre condizioni: l’Italia è ormai una gerontocrazia al cui confronto la Russia di Brezhnev sembra un paradiso di giovanile entusiasmo, e il fatto che molti dei nostri leader sembrino considerarla una loro proprietà ci fa sospettare che intendano portarsela nella tomba come i re etruschi o chi per essi. Ma si parlava di cambiamento, e di fronte allo storico risultato delle presidenziali americane ci si chiede: siamo ancora in tempo? Jeremy Rifkin, in un suo libro (“Entropia”), fa una considerazione di questo genere: tutti i sistemi chiusi sono soggetti alla legge dell’entropia, ovvero prima o poi vanno a rotoli. Questo vale per gli ecosistemi, per le macchine e per le società. La Terra, come pianeta, non fa parte di questa categoria, perchè riceve energia dal Sole; ma la società umana si. La civiltà è un sistema complesso, e come tale nasce, si sviluppa, decade e muore per lasciare il posto ad un’altra – non necessariamente migliore (consigliamo anche “Collasso” di Jared Diamond, un interessante excursus sui molti e fantasiosi stratagemmi messi in atto dalle varie civiltà del passato per auto-estinguersi). Qualche decennio fa tutta la razza umana, spalla a spalla, avrebbe potuto trovar posto sull’isola di Zanzibar. Ora vi sono decine di milioni di persone con i piedi a bagno, e ancora di più sono quelli con l’acqua alla gola. Fino a qualche secolo fa, una società poteva sopravvivere a discapito di un’altra, ma oggi, nel mondo globalizzato in cui viviamo, c’è una sola società, che ci piaccia o no basata sull’industria e sul libero mercato; una sola civiltà basata sul presupposto che un numero sempre maggiore di persone debba produrre un numero sempre maggiore di beni e consumare un numero sempre più ridotto di risorse. Non c’è un altro posto dove andare.
John Brunner ci aveva avvisati quarant’anni fa, in questo monumentale e favoloso romanzo (che, beninteso, è uno dei Sommi Capolavori della Fantascienza; uno di quei libri da additare ad esempio a quelli che non credono che la SF possa essere vera letteratura; oppure da usare come corpo contundente se non si riesce a convincerli), il cui tema centrale è l’inevitabile collasso della nostra società dovuto alla sovrappopolazione e all’esaurimento delle risorse. Tutti a Zanzibar è un romanzo complesso e spigoloso, in cui le vicende di alcuni personaggi principali sono letteralmente sommerse da capitoli composti da titoli di giornali, interviste, canzoni, frammenti di vite quotidiane di perfetti sconosciuti, per formare, con un effetto a volte spiazzante (tipo ottocento pagine di zapping) ma straordinariamente vero, l’immagine di un mondo frenetico e irrazionale, lanciato in una folle corsa verso l’autodistruzione. Qui, qui e qui potete trovare altre recensioni, di certo migliori di questa nostra modesta nota; noi, dal canto nostro, siamo lieti di avervi segnalato un altro autore nella lunga schiera di quelli che possono dire “Ha! Ve l’avevo detto!”, e ci limitiamo a constatare che, davvero, viviamo in tempi interessanti.
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…ti lascio un saluto e scappo, che Barack ha già calato la pasta!