La Città del Re Leucrotta – Cap. V

Il Dottore Bianco

Fang, il servitore infingardo, nutriva verso l’ex-generale una devozione scarsa e riluttante. Aveva intuito che Vronch maturava nel suo cervello un vile disegno. E infatti lo aveva pedinato, impedendogli di fuggire dalla città, cosa che non avrebbe mancato di metterlo in buona luce a Corte (Fang, non il generale). Quindi, proseguendo in questa sua strategia, appena terminata la cena, si era celato fra i vasi di peonie che abbellivano la veranda, deciso a impedire al padrone (padrone ancora per poco) di fare altre cazzate: e aveva assistito, sbirciando dalla veranda, al segreto che l’inconsapevole Ukhurra era sul punto di rivelare al disgraziato nipote. Se non fosse che, sul più bello, aveva dovuto difendersi dall’improvviso attacco di una zanzara del Fulukh, grande come una pecora ma decisamente più feroce. «Fuori i soldi, bello, » aveva ronzato l’imenottero, piantandogli il pungiglione in mezzo alle costole, «fa’ il bravo e nessuno si farà male. » Fang si era ritrovato in mutande e, soprattutto, aveva perso le fatidiche parole della nonna: il luogo dove era sepolta l’eredità. E poi le peonie lo avevano aggredito. Fang, che era stato raccolto ancora cucciolo sui confini del Vezreen, in un villaggio di selvaggi Yeek devastato dallo scorbuto, conosceva ormai da troppo tempo il suo padrone per non indovinarne i pensieri, peraltro elementari. All’inizio era stato sopraffatto dalla paura e, come avrebbe fatto qualsiasi altro coboldo, aveva tentato la fuga. Ma, costretto a tornare a casa, aveva ceduto all’avidità e, come qualsiasi altro coboldo, aveva deciso di ricavarne il maggior vantaggio possibile. Sicuramente intendeva ripartire al più presto, forse la mattina stessa, ma questa volta carico di tesori. Ci voleva un enorme coraggio per affrontare l’ira di Ukhurra: ma Vronch era un coboldo disperato, pronto a tutto. Tanto che Fang, per essere sicuro che il generale non tentasse la fuga durante la notte, aveva versato, durante la cena, una generosa dose di sonnifero nel vino che teneva in camera sua: un’idea che era sembrata tanto brillante prima di cena quanto disastrosa ora. Sì, perché avidità e paura erano in fondo, e neanche tanto in fondo, le due molle che facevano scattare il cuore e il cervello (quest’ultimo in misura molto minore) di ogni coboldo, Fang compreso. E l’idea di essere vicino a un così gran tesoro, proprio mentre il suo padrone stava per finire sulla forca, e di non poter sapere dove questo tesoro fosse, l’aveva precipitato in una così grande agitazione da non fargli capire più cosa stesse succedendo, se non che le peonie carnivore stavano tentando di strangolarlo.
Quando riuscì, finalmente, a districarsi dalle peonie, Fang attraversò in un lampo la veranda ed entrò come una bomba nel salotto. La casa era in subbuglio: i servi gridavano e piangevano sulle scale, strappandosi le vesti e graffiandosi i volti. Ukhurra, nella camera di Vronch, stringeva il collo del nipote tra le dita adunche e lo scuoteva come un bambolotto. «Cosa hai messo nel mio tè? », gridava la megera. « Parla, bastardo! Non fare finta di dormire! Volevi avvelenarmi, eh! Ma io ti ammazzo! ». «Padrone, padrone!» gridò Fang, entrando, e si gettò sulla vecchia. I tre ruzzolarono a terra in un groviglio. «Lasciatelo, signora! In nome di Krustulas! ». «E tu che cazzo vuoi?! Guarda che ce n’è anche per te! » ringhiava Ukhurra, calciandolo nelle costole. «Un medico, signora… tuo nipote… suicidato… il vino…», farfugliò Fang. «Suicidato? Suicidato un paio di ciufoli! Lo ammazzo io, questo figlio di un verme-iena! ». La vecchia Ukhurra si alzò in piedi, trascinando Fang per un orecchio. «Qui!… di fronte!… dallo straniero dalla pelle bianca… è un medico! Muoversi! »
Fang era già nel vestibolo, urtando i servi che accorrevano da tutte le parti perché avevano udito le grida di Ukhurra, come del resto buona parte della città. Scese a precipizio i gradini e si slanciò nella via. Per il momento, pensava, aveva impedito a Ukhurra di rompere il collo del suo ex-padrone. Finchè c’è vita, c’è speranza.
Di fronte alla casetta del generale, s’alzava una sbilenca palazzina di legno, col tetto pericolante e le grondaie arrugginite, e colla solita veranda coperta di erbacce. Fang salì rapidamente i tre gradini, e percosse fragorosamente la porta, gridando: «Aprite, signor umano bianco! Il mio padrone muore!»
Alla ventesima battuta la porta si aperse e comparve un uomo in camicia da notte, con in capo un bizzarro casco di flanella bianca (cosa ci facesse con un casco di flanella in testa a quell’ora della notte è un mistero che non ci è dato svelare), e con in mano una lanterna coi vetri di alabastro. Era alto e allampanato, di età avanzata o comunque mal portata, di aspetto nervoso e stralunato, dalla pelle fin troppo pallida, cogli occhi spalancati ed i capelli e la barba grigi, lunghi e scarmigliati.
«Chi cazzo è che muore?» chiese in pessimo fethrundese. «E perché sei in mutande?»
«Il mio signore, Vronch! Sta morendo!»
«Il ministro dei Baldench?» esclamò l’uomo con stupore.
« È stato… ehm… si è avvelenato, signore.»
«Attendi un istante.»
L’uomo rientrò nella palazzina, barcollando in preda ad una visibile emozione, o ai fumi dell’alcool, poi ne uscì di nuovo tenendo in mano una cassetta di legno laccato, contenente probabilmente degli antidoti.
«Dài, su, precedimi,» disse brevemente.
Attraversarono velocemente la via e salirono nell’abitazione del ministro, facendosi largo fra i servi sgomenti. Preceduto da Fang, attraversò la veranda ed entrò nella stanza del ministro.
Ukhurra, con le zanne grondanti bile, in preda ad una rabbia incontenibile, vegliava sola sul nipote ancora a terra, anche perché nessun altro avrebbe osato avvicinarsi. Vedendo entrare l’umano, gli si precipitò incontro, gridandogli con voce rabbiosa: «Salvatelo, o saranno cazzacci vostri!»
Il vecchio si limitò a rivolgerle uno sguardo assente ed a grattarsi il capo, figgendo i suoi occhi annacquati in quelli della vecchia cobolda. Poi s’avvicinò alla forma scomposta di Vronch e gli tastò il polso.
«Ehm,» disse. «Per fortuna. La morte non sarebbe giunta prima d’un paio d’ore. O anche qualche annetto. Voglio dire, sta dormendo. Almeno penso.»
«Dormendo? E il veleno?» grugnì Ukhurra, voltandosi verso Fang. «Ehm… non so… è quello…è quello che mi ha detto lui, », farfugliò Fang indicando l’ex-generale, «cioè, che non voleva più vivere per la faccenda del Baldench eccetera… poi non so, avrà sbagliato dosi. Che ne so, io? »
L’umano abbozzò un sorriso sdentato, dicendo con un inchino: «Bene! Anche questa è fatta! E non preoccupatevi per l’onorario. Poi ci mettiamo d’accordo.»
La vecchia ringhiò e sputò per terra.
«Tu non esci di qui, bello. Aspetteremo un quarto d’ora o venti minuti, o tutta la notte, finchè questo porco mannaro non si sveglia. E poi lo ammazzo.»
Ci fu un attimo di imbarazzato silenzio. Poi il medico si schiarì discretamente la gola.
«Dite, signor dottore.»
«No, così, mi chiedevo…Quale dispiacere può aver spinto vostro nipote, ministro potente ed invidiato, favorito del re, a cercare la morte?»
«Ma che cazzo volete che ne sappia, io. Era tornato questa sera assai turbato e triste. Avrà di nuovo perso a ramino. E ha tentato di avvelenarmi. Bastardo.»
«Che sia morto l’ultimo Baldench?» disse il medico, senza darle retta. «Mi hanno detto che ieri mattina era assai ammalato e che alla corte regnava una profonda preoccupazione.»
«Il Baldench morto?» esclamò Ukhurra «Ma stiamo scherzando?».
«Sì… morto…» mormorò una voce presso di lei.
Vronch aveva aperto gli occhi e si era alzato, appoggiandosi sui gomiti.
Ukhurra gettò un grido belluino e afferrò una sedia. «Ah! Canaglia! Ora son cazzi tuoi!»
Il generale rimase immobile, cogli occhi dilatati, guardando ora la nonna ed ora lo straniero, certo stupito di trovarsi ancora vivo, oppure certo di essere già morto e all’inferno.
«Piccolo malefico bastardo!» gridò nuovamente Ukhurra. «Non pensare di cavartela con così poco. Se c’è qualcuno morto, qui, quello sei tu!»
Il muso del generale si contorse in una smorfia; gli occhietti gli si riempirono di lacrime, e con un moto improvviso gettò ambe le braccia attorno alle caviglie scagliose di Ukhurra, strillando:
«Perdono, perdono perdono perdono, mia dolce Ukhurra, più preziosa di tutte le nonne, saggia e benevola antenata! Non ho fatto nulla! Non so di che mi accusi, ma lo giuro, lo stragiuro, non sono stato io! Krustulas mi è testimone! E anche Insensul, Chaferuck e il Divino Lumacone! E se sono stato io, mi ci hanno costretto! Come puoi, come puoi accanirti così sul tuo unico nipote vecchio e malato e caduto in disgrazia! Tu sei tutto ciò che mi rimane, non ho altro che te!»
La vecchia rimase spiazzata da tanta commozione, mentre Fang non poteva che ammirare l’abilità consumata con cui il suo padrone faceva leva su quel poco di istinto materno che ancora risiedeva nell’animo rinsecchito della megera.
«Voi, il più prode guerriero del Fethrund!» esclamò l’umano. «Vi sembra il caso di fare ‘ste scenate? »
«Prode guerriero un cazzo, ormai,» disse Vronch con voce rotta, «e fors’anche un maledetto, dai grandi e dal popolo bue: mi accuseranno di essere stato io l’autore della morte dei Baldench. Dannate bestie del cazzo.»
«Il regno potrà prosperare anche senza leucrotta più o meno bianchi,» rispose l’umano. «Credetelo, generale, sono vecchie superstizioni che un giorno spariranno anche dal Fethrund.»
«Forse avete ragione,» disse Vronch, «ma nessuno potrà persuadere il popolo, e nemmeno i talponi.»
«Ecco un coboldo moderno,» disse il dottore, sorridendo vacuo. «Per noi, perdonerete se parlo franco, i leucrotta, gli occhi fluttuanti, i buoi cingolati e gli ule, di qualunque colore siano, sono tutti animali né superiori né inferiori agli altri. Anzi, diciamo inferiori.»
«E voi ne sapete ben più di noi,» annuì il generale.
«Condividete dunque la mia opinione?»
«Come fethrundese, no. Come generale, neanche. Come coboldo, non ho capito la domanda. Dovrei rinnegare la mia religione e le credenze dei miei avi.»
«E noi crediamo in Krustulas,» grugnì Ukhurra.
«Avete veduto il re?» chiese l’umano.
«Ieri sera, dopo la morte dell’ultimo Baldench.»
«Sapete, generale, che mi sembra per lo meno strana la morte di quei sette mostri in così breve tempo?»
Vronch fissò sull’uomo uno sguardo sospettoso.
«Cosa state insinuando?» chiese, cercando con gli occhi la sua scimitarra.
«Beh, generale, avete qualche nemico potente alla corte?»
«Ah, quello, intendete. Tutti ne hanno: l’invidia ne fa sorgere dovunque.»
«Qualcuno che aspirasse al vostro posto?»
«Ve n’è più d’uno, ma io non credo che costoro abbiano osato sfidare l’ira di Krustulas.»
«Comunque, un sospetto voi l’avete?»
«Boh,» rispose il generale.
«Frugate bene nella vostra memoria: quel nemico può venire a galla.»
«Ukhurra,» disse il generale, «lasciaci soli. La confidenza che devo fare a questo signore deve essere, per ora, ignorata da te.»
La vecchia tese la sua mano callosa verso il medico, che gliela strinse con un sorriso perplesso, e uscì, dicendo: «Non finisce qui.»
«Bene. Parlate, ora», disse il dottore.
«Le vostre domande mi hanno fatto nascere un sospetto, che prima non mi era mai balenato nel cervello. Sì… nella morte dei Sacri Mostri Bianchi deve esserci entrata la mano di Cram-Hupah.»
«Chi è costui?»
«Un coboldo che dal nulla è riuscito a diventare, non so per quali male arti, ministro, ed a guadagnarsi il favore del re.»
«Un avventuriero?»
«Che era stato prima ai servigi del re di Uruth, un coboldo falso, doppio, capace di commettere qualsiasi delitto, assetato d’ambizione e tuttavia temuto.»
«Non sembra molto differente dal 95% della popolazione del regno. Aveva qualche motivo per tentare la vostra perdita?»
«Sì, quello di vendicarsi d’avergli io… ehm… negato la mano di Ukhurra.»
«Ve l’aveva chiesta?» disse l’umano, sbigottito. «Che fegato! »
«Tre mesi or sono. Ho dovuto rifiutare, sapete… per il suo bene», borbottò Vronch, che si guardò bene dal dire come fossero andate davvero le cose. I matrimoni, nel Fethrund, erano sempre combinati e decisi dai maschi. Vronch aveva per un po’ covato la speranza di liberarsi della vecchia dandola in sposa a un qualche suo nemico e, una volta, aveva combinato un incontro con Cram-Hupah, all’insaputa della vecchia. Ma il ministro, scorta la megera sulla veranda, fu preso dal panico e fuggì, cadendo con la portantina nel Fulukh. Vronch non ne aveva fatto parola con nessuno: Ukhurra lo avrebbe ammazzato per molto meno. E poi, ora che non aveva più il favore del re, non poteva rinunciare ai soldi dell’eredità.
«Ed ecco che un mese dopo il primo Baldench moriva,» disse l’umano, che era diventato pensieroso. «Non avete però alcuna prova che possa essere stato lui.»
«Nessuna e poi, anche avendone qualcuna, nemmeno io avrei potuto lottare contro un coboldo così potente.»
«È fedele di Krustulas? O di Shullud?»
«Io credo che sia un adoratore del Sacro Pinnacolo, o della Settuplice Fiammella Ridente, o di Nullul, o altri sciocchi culti senza senso come quelli degli Yeek.»
«Ecco una preziosa informazione,» disse l’uomo. «Un nulluliano se ne impippa di Krustulas, a cui non crede. Deve però aver avuto dei complici.»
«Certo, signore, fra i paggi, i servi od i brauusk dei Baldench.»
«Sono amico di alcuni pezzi grossi della corte,» disse l’uomo, alzandosi. «Spero di ottenere il permesso di visitare il leucrotta bianco che è morto ora. Conosco bene i veleni io: vedremo.»
«Come potrò ricompensarvi per avermi sottratto alle grinfie di mia nonna?» chiese il generale con voce affranta.
«Vedremo. Dopotutto un po’ di soldi per la vecchiaia li avrete messi via, no?»
«No.»
«Io dico di si.»
«No, davvero. Ho perso tutto a ramino. Ho debiti per miliardi.»
«Su, dài, non fate il ritroso. Scommetto che scherzate.»
«No, ve lo giuro.»
«Non ci credo.»
«Massì, cazzo e ricazzo!»
«Ma no.»
Andarono avanti tutto il pomeriggio.


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