«Io sono Zeta Otto. Non ci sarà nessuno che possa recarmi offesa oltre me stesso.»
Uno dei Grandi & Onorati Clichés della Fantascienza è quello dello Scienziato Folle che costruisce un Robot Super-Intelligente il quale si ribella e decide di conquistare il mondo. Una variante assai popolare è quella in cui lo scienziato ha una figlia di cui il robot si innamora. Di solito tutto finisce in tragedia quando il robot si accorge di essere soltanto uno squallido manufatto e non una creatura del Signore e si butta da una rupe o qualcosa del genere. Senza stare a scomodare Frankenstein, prendiamo per esempio questo “Uomo di Fil di Ferro“, romanzo italiano di fantascienza dell’ormai remoto 1932. Dell’autore, Ciro Kahn, non sappiamo nulla, se non che, a volte, si firmava Ciro Khan – il che ce lo fa immaginare pelato, baffuto e facile all’incazzatura, forse parente, come Mr. Prosser, del più famoso Gengis. Comunque sia, la storia dell’Uomo di Fil di Ferro l’abbiamo già riassunta qui sopra: quello che varia sono i particolari, e, trattandosi di un romanzo italiano (un romanzo certamente ingenuo e retrò ma, almeno per noi, assai godibile), abbiamo avuto di che divertirci. A partire dal fatto che i nomi italiani sembrano ben poco adatti alla fantascienza: il dottor Quatermass è una cosa, Hari Seldon un’altra, il dottor Narcisio Falqui, chissà perchè, suona strano. Pur essendo un genio, per carità: perchè nella Roma del futuristico 1998 costruisce un automa, Zeta Otto, capace di autocoscienza e di raziocinio, dotato di una biblioteca interna prodigiosa: «Speciali macchine parlanti giorno e notte in funzione fissarono la Bibbia, i lavori letterarî più noti, compendi di storia, di filosofia, di meccanica, di matematica superiore, di finanza». Ma non solo: «Allo stesso scopo, nonostante l’inservibilità pratica, venne munito delle qualità istinto-psichiche del maschio. E vennero in più inseriti in lui: il senso d’orientamento magnetico degli ostacoli invisibili come nei pipistrelli che possono volare anche al buio; e le possibilità magnetiche dei rabdomanti e degli ipnotizzatori». Mica pizza e fichi.
A questo punto Zeta Otto decide di conquistare il mondo, e come dargli torto? Rinchiude il genitore nella fabbrica dove è nato e inizia la costruzione di un esercito. Se non che, come da copione, la bella figlia del professore, Viola, fa la sua comparsa. Ora, il nostro automa è davvero un «uomo di fil di ferro»: spigoloso, metallico e artificiale; ma il buon Narciso gli ha dato fattezze umane, e per un «capriccio del caso», le fattezze di un lontano cugino canadese di cui Viola è innamorata, e che proprio ora è in visita a Roma. Mah. Perchè? Non lo sappiamo. E del resto chi siamo noi per sondare i misteri della mente di Ciro Khan? Per cui proseguiamo: l’esercito di uomini di fil di ferro invade le campagne romane, e scoppia il finimondo. Perchè da una parte ci sono quelli che non credono all’imminente pericolo («Comandante della squadriglia era il Generale Vittorio Lagreca. In sé medesimo aveva presa la cosa per un bluff ed era irritato per il compito affidatogli che egli qualificava: un inutile eccidio di pupazzi»); dall’altra quelli che ne approfittano per bieche questioni politiche («Assunse il potere Marco Mundus e questi ebbe alfine il coraggio di scavalcare l’Accademia e di assumersi la responsabilità delle operazioni». Chi sia questo signor Mundus non ci è dato sapere, visto che è la prima sua menzione nel romanzo – chissà se Khan sottintendeva qualche cosa); e poi ci sono gli abitanti di Roma, città amichevolmente indicata come «La Città dei Dementi». Le descrizioni dell’Urbe del 1998 sono spettacolari: un paradiso futurista di vetro e cemento, treni superveloci, marciapiedi mobili, luci, rumori… e soprattutto la pubblicità.
Comunque, per farla breve, i Romani, dapprima terrorizzati, decidono che la conquista del mondo è, tutto sommato, un obiettivo interessante, e si alleano con gli automi, sotto lo sguardo inorridito della comunità internazionale; la quale minaccia rappresaglie. E così, nell’Urbe assediata, davanti alla folla radunata al Colosseo, il cugino canadese incontra la sua nemesi meccanica, e, sfoderando impensate doti di oratore (impensate perchè fino alla pagina prima era un contadinotto canadese grande e grosso ma non particolarmente sveglio), rinfaccia a Zeta Otto la sua inumanità. Il «malo fascino» dell’androide ipnotista si disperde, Viola capisce che non è una buona idea sposare un robot (cosa direbbe il papa?), e la folla inizia a lanciare sampietrini e gatti morti a quello che fino a un momento prima era il loro idolo. Finisce così l’impero delle macchine: Zeta Otto e i suoi commilitoni, «con i resti dei compagni sfracellati, con tutti i loro ordegni attraversarono la città, giunsero al Tevere; e, nella sera incombente, discesero in gran parata sotto le acque piegando verso occidente».
«Verso il mare, da dove ritorneranno un giorno.»
Si chiude così la storia dell’Uomo di Fil di Ferro; non sappiamo se l’autore avesse intenzione di narrare in forma fantastica gli eventi dei suoi tempi; ma la marcia su Roma degli androidi ci lascia qualche dubbio; e se così è, è probabile che il possente Khan della fantascienza, dalla sua remota fortezza sull’Himalaya, osservi la nostra situazione, e scuota amaramente la testa pelata al possibile avverarsi della sua profezia. Già.
PS: il romanzo è scaricabile aggràtis da Liber Liber.
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