scritto per il primo round di Variazioni sul Tema
Vorrei attirare l’attenzione dei lettori sul Ponte. Il Ponte del Giubileo, lo chiamano tutti così, anche se ufficialmente è stato battezzato col nome dell’oscuro quanto geniale ingegnere che gli ha dato la forma – il Ponte del Giubileo, dicevo, si slancia (o meglio, arranca faticosamente) attraverso la Gola, da un’altezza di trecentocinquanta piedi circa al di sopra del Fiume, unendo le due parti della Città Alta – che peraltro non ne avevano tutto questo bisogno, data l’abbondanza di ponti, tunnel e sottopassaggi costruiti secondo criteri ben più economici e razionali in tutto il resto della città. Ma si sa, spesso la politica induce a scelte all’apparenza inspiegabili; e così, un centinaio di anni fa, fu decretato che la città avesse assoluto bisogno di un ponte mobile, un mastodontico ammasso di travi d’acciaio, cavi spessi come tronchi, tiranti e contrafforti, torri e torrette e postazioni di contraerea, in grado di sollevarsi per permettere il passaggio delle navi (e ad un’altezza di trecentocinquanta piedi mi direte voi di quale utilità può essere) – un monumento alla potenza economica e militare del Regno, di cui nessuno sentiva la mancanza. Ora, mi rendo perfettamente conto che tutto questo può essere un tantino didascalico, ma è importante, all’inizio di una storia (specie una storia in cui i ponti ricorrono), dare un’idea dello scenario in cui il nostro eroe si trova ad agire.
E così, in una notte autunnale, sotto due lune pallide e svogliate, il dottor Cadwal corre lungo il ponte con un quadro sottobraccio. Il quadro, fra l’altro, se i lettori volessero osservarlo un po’ più da vicino, si rivela essere nientemeno che l’”Uomo che attraversa un Ponte di Notte”, di Stoltz, capolavoro inquietante e visionario di un artista morto suicida; un quadro, insomma, meritevole di ben altra collocazione che non questa. In effetti fino a un’ora fa, l’”Uomo che attraversa un Ponte di Notte” faceva bella mostra di sé alla Galleria Reale di Arti Moderne, dalla quale proprio il Dottor Cadwal lo ha sottratto con l’astuzia e l’inganno; cosa di cui è tutt’altro che fiero, vista la sua natura fondamentalmente onesta, e visto il perfido ricatto di cui è vittima. Come dite? Un minimo di antefatto non guasterebbe? Ma certo – fra un momento. Perchè proprio ora il dottor Cadwal, che sta attraversando un ponte con un quadro che raffigura un uomo che attraversa un ponte con un quadro, si ferma all’improvviso apparire d’un cono di luce – e della voce che lo accompagna.
“E’ puntuale, dottore” – esordisce il nuovo arrivato – “molto bene”.
“Grazie. Ma non è che siamo qui per fare conversazione, o sbaglio?”
Emerge dalle ombre una figura nera, armata, a quanto sembra, di pistola. I due si conoscono bene, o almeno si conoscono abbastanza da poter saltare a piè pari i convenevoli di rito – peraltro del tutto fuori luogo in una situazione come questa; ma il dottor Cadwal si aspettava, sebbene in maniera assai poco convinta, di trovare anche una terza persona. “Se la memoria non mi inganna avevamo un accordo, o qualcosa di simile”, dice in tono acido. “Infatti – è la risposta – ma la situazione è cambiata. Mi dia il quadro… e niente scherzi”
“Le assicuro che in questo momento mi il mio umore è tutt’altro che faceto. Dov’è la signorina Vaucanson?”
“Ovviamente in un luogo sicuro. E suvvia, non si abbatta: presto la rivedrà. Deve solo farmi un altro piccolo favore…”
“Oh, santo cielo. Chissà perchè me lo aspettavo. Dica.”
“Vada alla polizia. Si accusi del furto del quadro – cosa per altro corrispondente a verità. E poi dica che lo ha distrutto. Un accesso di follia, che ne so, era ubriaco, veda lei, si inventi qualcosa. Qualcosa di convincente, mi raccomando.”
“Avrei rubato il quadro per poi distruggerlo? Ma perchè?”
“Senta, la sto ricattando. Non sono tenuto a giustificarmi. O fa quello che dico o – non mi faccia completare la frase; ha capito perfettamente, no?”
“Va bene, va bene; diciamo che ho capito. E poi?”
“Poi, quando leggerò sul giornale del pomeriggio del clamoroso furto e dell’ancor più clamoroso arresto, libererò la signorina; e così saremo tutti felici e soddisfatti. A parte lei, che sarà in cella.”
“Ho come la sensazione che non andrà proprio così.”
“Mi dispiace. Ma nelle sue condizioni, può solo fidarsi.”
“Potrei saltarle addosso.”
“Potrei spararle.”
“Touchè.”
“Bene. Si è fatta quell’ora. Per quanto la compagnia sia gradevole mi vedo costretto a salutarla. Non occorre che le dica di non tentare di seguirmi.”
“Ma ci mancherebbe.”
“Allora, arrivederci.”
“Crepi.”
L’uomo si allontana ridendo. Cadwal rimane solo: controlla l’orologio, si accende una sigaretta, la getta dal ponte, controlla di nuovo l’orologio, estrae degli appunti dalla tasca, passeggia avanti e indietro, controlla un’altra volta l’orologio e comincia ad imprecare sottovoce. Giunge in risposta, come evocato da un incantesimo, il borbottio di un motore lontano: un piccolo dirigibile scuro si sta avvicinando, seguendo la corrente, un centinaio di piedi sotto il ponte. “Alla buon’ora!” sbuffa il dottore.
E così, mentre il dottor Cadwal aspetta che l’aerostato si avvicini col suo misterioso (per noi, naturalmente) carico, abbiamo qualche minuto, che possiamo sfruttare in maniera costruttiva riepilogando gli eventi che hanno condotto a questa insolita situazione.
Tutto è cominciato una quarantina di giorni fa, con l’esposizione del quadro di cui sopra alla Galleria Reale. L’”Uomo che attraversa un Ponte di Notte” aveva destato, come del resto era da immaginarsi, un certo scalpore, vuoi per l’argomento bizzarro, vuoi per la peculiarità della sua esecuzione. La tela, infatti, raffigura un uomo distinto che, con atteggiamento timoroso e cauto, attraversa un ponte di pietra sotto una luna appena accennata. E fin qui, nulla di insolito; se non che questo signore distinto tiene sottobraccio un quadro nel quale un vecchio, vestito di stracci, attraversa col terrore dipinto sul volto un ponticello di legno che scavalca un torrente limaccioso e malsano. Il vecchio porta un quadro, dove una fanciulla corre su un ponte, all’apparenza formato da ossa legate insieme su una pozza di, possiamo solo presumerlo, zolfo fumante; la fanciulla tiene, l’avrete capito, un quadro e così via.
Per farla breve si contano almeno diciannove personaggi con altrettanti quadri su altrettanti ponti; dico almeno perchè l’ultimo, visibile solo con una lente d’ingrandimento ma perfetto nei dettagli quanto tutti i suoi precedenti, reca con sé un altro quadro. L’impressione di essere di fronte ad una serie infinita è talmente forte che più di un attempato critico, nell’osservare la tela da troppo vicino, si è messo ad agitare le braccia come colto dalla sensazione di cadere dentro il quadro… cosa che all’osservatore casuale potrebbe risultare divertente, se non fosse al contempo ben più inquietante.
Dell’autore non si sa molto: Enrico Stoltz non aveva mai dipinto nulla di benchè lontanamente valido fino, così dice l’agiografia ufficiale, alla morte della moglie; evento che dovette gettarlo in una specie di accesso di follia creativa, di cui questo fu il principale – perchè unico – risultato. Stoltz pose poi fine alla sua promettente carriera gettandosi, scelta quasi obbligata, da un ponte; il suo capolavoro fu dimenticato in una soffitta fino a pochi mesi fa. E fin qui le notizie dei cataloghi d’arte.
Ora, fra i numerosi storici dell’arte, critici, estimatori, pittori dilettanti e semplici curiosi che ogni giorno si affollavano davanti alla misteriosa tela, sarebbe stato difficile non notare l’aggraziata e alquanto loquace figura di Seraphina Vaucanson, giovane assistente d’un certo professor Odder, rinomato critico, ma soprattutto (stiamo sempre parlando della signorina) sorella della signora Cadwal. Le due non avrebbero potuto essere più distanti per indole e (ci spiace per il dottore) per aspetto: Seraphina è intelligente, vivace, colta e graziosa (per chiunque sia affetto da sordità parziale o totale); per quanto riguarda la signora Cadwal, ci basti dire che è il principale motivo dei lunghi viaggi intorno al mondo che tengono il dottore impantanato nei luoghi più improbabili per dieci-undici mesi all’anno – e della sua capacità di affrontare senza scomporsi le bestie più feroci e i popoli più incomprensibili.
Il dottor Cadwal, Ippolito Cadwal, per la precisione, sebbene lui non ne vada particolarmente fiero, era infatti di ritorno da una spedizione nei deserti del Qoyori alla ricerca di una certa biblioteca, mentre sua cognata passava le giornate dietro al professor Odder, impegnato nella stesura di una fin troppo noiosa monografia sulle avanguardie artistiche del secolo appena trascorso. Anche di questo si sono trovati a parlare un pomeriggio, al rientro del dottore in città; o meglio, Seraphina si è trovata a parlare e – data la natura alluvionale del suo eloquio – chiunque altro non avrebbe potuto far altro che ad ascoltare di come il pedaggio per l’attraversamento dei ponti fosse stato ingiustificatamente aumentato, di come lo Scacchiere avesse proclamato l’ennesimo giro di vite contro gli immigrati non-umani con permesso o senza permesso ed i senzatetto di qualunque razza, idea politica e credo religioso; di come lo stato delle strade fosse francamente intollerabile – e di quanti cavalli rischiassero di azzopparsi ogni giorno a passare per il Viale Imperiale con tutti questi aggeggi a vapore che corrono come invasati; di come il Teatro del Giardino Spirituale avesse perso molto del suo charme; dei pericolosi esperimenti che la Facoltà di Teologia Sperimentale conduce in pieno centro cittadino e delle continue manifestazioni degli uomini-talpa che reclamano invano per sé le catacombe a monte della città e chiedono, altrettanto invano, di non essere più chiamati uomini-talpa ma duergar come è loro sacrosanto diritto purchè non comincino a mettere bombe.
La miglior difesa in questi casi è la fuga, e il dottor Cadwal, come molti altri, vista la disparità delle forze in campo, si ritira nelle profondità del suo cervello, limitandosi a sorseggiare il suo tè (di cui ha sentito molto la mancanza nei deserti del Qoyori), a scorrere svogliatamente il giornale, commentando di tanto in tanto “Ma pensa”, “Ah, certo”, “Capisco perfettamente”, “E’ uno scandalo” e soprattutto “Dove andremo a finire”. Riservando per tempi migliori i suoi racconti avventurosi e gli aneddoti di viaggio, il dottore si congeda e si tuffa nel perenne traffico cittadino.
In questa sua ultima spedizione ha visto giganti delle montagne azzuffarsi come bambini (bambini di venticinque tonnellate); uno dei suoi portatori è stato divorato da uno spettro e soprattutto ha visto un drago volteggiare lontanissimo sugli altipiani – ma non c’è nulla da fare. Una volta tornato in città tutto viene avvolto da una patina di fuliggine e nebbia e sembra così lontano da parere quasi irreale; e infatti è difficile, molto difficile, riuscire a far breccia nel cuore (ben difeso già a livello delle orecchie) di un cittadino come Seraphina o la signora Cadwal o moltissimi altri, per i quali il più incredibile prodigio avvenuto dall’altra parte del mondo è ben poca cosa se paragonato al più banale litigio per una precedenza mancata in Piazza dell’Ultima Luna.
“Così non ha intenzione di fare nulla, eh, dottore?”. La voce cavernosa del suo braccio destro, Otto, lo richiama al frastuono cittadino. Otto è alto, appunto, quasi otto piedi, e pesa forse cinquecento libbre; potremmo definirlo abbastanza adeguatamente “grigiastro e squamoso”, come una specie di gigantesco caimano in giacca e cravattino, ma è un caro ragazzo (cosa abbastanza strana per la sua origine), gentile e discreto come ogni buon maggiordomo, un buon maggiordomo capace di abbattere un mulo con un pugno. Otto è un tipico rappresentante del popolo dei Vur, e sebbene la Città sia decisamente cosmopolita, della sua stirpe ce ne saranno solo una mezza dozzina, e probabilmente tutti ricercati. Comunque sia, il dottore gli rivolge uno sguardo vacuo –
“Riguardo a cosa, se posso azzardare?”
“Riguardo alla signorina Vaucanson”
“Otto per amor del Pancreatore e di tutti i Santi vieni al dunque che ho già un cerchio alla testa.”
“Il quadro…”
“Il quadro? Quale quadro?”
Otto sospira: “Non stava ascoltando, vero? La signorina Vaucanson ha parlato di un quadro. Ha detto che quando è davanti a quel quadro sente come una voce nella sua testa. Una voce che le dice delle cose.”
“Ha detto così?”
“Proprio.”
“Ah.”
Come conseguenza di questo breve ma significativo scambio di battute il dottor Cadwal si trova un paio d’ore dopo (un paio d’ore passate a districarsi nel traffico, a cercare una carrozza, evitare alcune strade chiuse per manifestazioni, una processione funeraria, e crolli del selciato dovuti, si sospetta, alle proteste dei duergar) al cospetto dell’”Uomo che attraversa un Ponte di Notte”. Otto è rimasto fuori dopo un diverbio con i custodi (“Ci dispiace signore ma il suo – ah – lacchè non può entrare. Sa, questioni di sicurezza. Non vorremmo che sfregiasse o rubasse una qualche opera. Nulla di personale, ovviamente. L’elenco delle razze e nazionalità ammesse all’esposizione è esposto, appunto, nell’atrio”), mostrando una pazienza che il suo datore di lavoro ammira e, spesso, invidia.
Ma il dottore non è solo: “Cheddiamine, Ippo. Non so cosa ci sia lì dentro, ma di sicuro c’è qualcosa”. A parlare è Iago Van Zaatz; un omino sgualcito e polveroso, dalle enormi orecchie appuntite e gli occhi a mandorla nascosti dietro proverbiali fondi di bottiglia. Iago è uno spiritista, uno di quei bizzarri personaggi che cercano di far assurgere al ruolo di scienza esatta lo studio dell’immateriale e del misterioso; spesso finiscono ad ingrossare l’esercito dei truffatori e dei ciarlatani; ma altrettanto spesso finiscono ad ingrossare la pancia di spiriti ed ectoplasmi d’ogni genere.
Van Zaatz sta riponendo nel taschino del gilè una specie di diapason d’argento: “Non so te, ma io preferirei spostarmi.”
“Bene, signor Van Zaatz. Questa si che è un’analisi professionale. E poi la smetta di chiamarmi Ippo.”
“Vuole qualcosa di più professionale, dottor Cadwal? – bene. Questa è solo una prima impressione, e non posso avallarla o smentirla se non dopo indagini più approfondite. Il quadro che abbiamo di fronte è una prigione, un contenitore… o forse un ponte. Cosa ci sia dentro, tra cosa e cosa si trovi non lo so dire. Potrebbe essere uno spiritello del latte cagliato come un Principe degli Yatzidi, nel qual caso vorrei trovarmi molto lontano. Propendo comunque per questa seconda ipotesi; ad un primo sguardo, le armoniche che circondano il quadro sono incredibilmente convolute; il sigillo è disposto su almeno quaranta, quarantacinque livelli – una cosa che non ho mai visto prima – e chiunque lo abbia inscritto, non so chi fosse, ma di sicuro non è umano. In pratica dovrebbe essere una specie di cassaforte metafisica. Ma lo sente anche lei, dottor Cadwal, pur senza essere un medium, che dentro c’è qualcosa… il che significa che preme, cerca di uscire. Il che a sua volta significa che qualunque cosa sia è capace di far pressione su una barriera così potente per cercare di contattare qualcuno. E’ abbastanza professionale, … Ippo?”
“E’ decisamente un passo in avanti, a parte il finale. Ma dove ci porta tutto ciò?”
“Avrei bisogno di una giornata, magari una notte; un posto tranquillo e un po’ di marchingegni che non posso trasportare. Il che significa: basta. Tutto qui. Ma tu guarda.”
“Ma tu guarda cosa?”
“Quel tizio. È venuto da me la settimana scorsa.”
Un distinto gentiluomo, un po’ in là con gli anni, ha appena compiuto un veloce e imbarazzato dietrofront e si sta dirigendo verso l’uscita. È palese, a chiunque non sia cieco dalla nascita, che ha visto Van Zaatz e non vuole averci nulla a che fare, almeno in pubblico. “E non solo da me: da parecchi altri colleghi.”
Un paio di domande alla reception bastano a svelarne l’identità: è il professor Odder: “Viene qui tutti i giorni, signore, ad ammirare lo Stoltz. Ci passa davanti delle mezze giornate. Ora, capisco l’amore per l’arte, ma sta diventando un tantino, come dire, ossessivo, non trovate anche voi, signore?”
In effetti il professor Odder sta rapidamente passando, agli occhi dei profani che frequentano la galleria, dallo status di semplice “esperto d’arte, vagamente eccentrico” a quello di “eccentrico figuro, vagamente inquietante” – impressione che il suo recente ed apparentemente ingiustificato interesse per lo spiritismo non può che rinforzare. Van Zaatz riferisce del loro incontro: “E’ evidente che di queste cose non ne capisce nulla. Stava cercando di darsi un’infarinatura generale nel più breve tempo possibile. Gli ho fatto notare come ci vogliano anni per conoscere il mondo degli spiriti; ci vogliono requisiti ben precisi, una grande forza di volontà e un animo immacolato – ehm – ma se proprio lo vuoi sapere, Ippo, mi ha dato l’impressione di un pomposo, arrogante figlio di un leucrotta.”
La recente ossessione del professor Odder fa sì che sia relativamente facile incontrarlo: e infatti il pomeriggio di mercoledì 19, due giorni dopo (e il giorno prima della sua passeggiata notturna), Cadwal torna alla Galleria Reale di Arti Moderne e lo trova, com’era da aspettarsi, fisso davanti al quadro. Con lui c’è la signorina Vaucanson, che, come d’abitudine, sta parlando. “… e in effetti il contrasto cromatico non è così esasperato come nei suoi ultimi lavori. Questo mi ricorda un libro che ho letto un paio di estati fa, non so se lo conosce, professore, il Diavolo sul Parafulmine, di Bertmann , anche se il primo era decisamente migliore, ma si sa che questi scrittori – ma guarda! Il dottor Cadwal!”
“Buon giorno, signorina. E buongiorno anche a lei, professore. Possiamo scambiare due parole?”
E così fanno.
Ora, se fosse possibile convincere una certa categoria di persone che ciò che stanno facendo, qualunque cosa sia, non è utile né a loro né alla società, ma anzi, nove persone su dieci, interpellate a proposito, non esiterebbero a definirla un’emerita porcheria, il mondo sarebbe un posto migliore; o forse no – ma non è di filosofia che ci occupiamo stasera: bensì di ponti e quadri misteriosi. Non è difficile quindi prevedere che il professor Odder non recede di un pollice dalla sua posizione: ovvero, fisso davanti al quadro.
“Lei, dottor Cadwal, con tutto il rispetto, di arte non ne capisce nulla. Sarà anche un famoso esploratore, ma qui non siamo né nella giungla né in mezzo a chissà quali rovine. Per cui sia gentile, lasci l’Arte a chi la capisce e se ne torni in mezzo ai selvaggi, che di certo sentiranno la sua mancanza”.
La reazione di Cadwal, bisogna dirlo, non è per nulla adatta a una galleria d’arte; il dottore, che non ha battuto ciglio davanti a una manticora nel Kar-Ican, ha sopportato senza paura le bizzarre visioni dei palazzi di Ebransi o gli gnomi malefici delle paludi del nord, di fronte a quella che lui definisce l”arroganza degli imbecilli” dà in escandescenze – e un attimo dopo si ritrova in strada. I custodi gli rivolgono un ultimo velenoso sguardo carico di disprezzo e chiudono la porta. Otto come al solito lo attende fuori: “Come è andata?”
“Come vuoi che sia andata? Certa gente è convinta di sapere tutto. Non solo quel folle non ha intenzione di far rimuovere il quadro dalla mostra – magari fosse solo questo. Lo sa, Otto, lo sa cos’è quel quadro: lo ha definito – come ha detto? Siamo di fronte a una porta, un passaggio, un ponte verso un mondo superiore: così ha detto. E non in senso metaforico. Credo che ne sappia più di noi. Piccolo ratto megalomane…”
“Lo ha detto: lei non sa chi sono io?”
“Secondo te? Comunque ho detto a Seraphina di fare molta, molta attenzione”
E infatti, la mattina del 20, il dottor Cadwal riceve un biglietto anonimo, nel quale si comunica il rapimento della signorina Vaucanson e la disponibilità dell’ignoto criminale a renderle la libertà in cambio dell’”Uomo che attraversa un Ponte di Notte”. Quando si dice la combinazione.
“Bene! Ci siamo tutti?” – A parlare è il piccolo Van Zaatz. Siamo tornati sul ponte, dopo questa lunga parentesi; con noi, oltre al dottore, c’è una piccola, inaspettata folla che ha appena finito di sbarcare dal dirigibile. “Iago – non per voler essere scortese – ma chi è tutta questa gente?”
“Amici, Ippo – medium, spiritisti, il reverendo Quall, lì, è un sacerdote del culto del Ventitreesimo – ”
“Era una domanda retorica. Non mi interessa chi è il reverendo – con rispetto parlando, reverendo – ma cosa ci fa tutta questa gente qui?”
“Senti. In una situazione del genere si ha bisogno di tutto l’aiuto possibile. Non credo di essere molto lontano dalla verità nel definire il professor Odder un minchione; di per sé non sarebbe una minaccia – ma sta giocando col fuoco. Quel quadro è pericoloso, tu lo sai quanto me; non sappiamo cosa ci sia dentro, ma Odder forse si, e comunque ne è ossessionato – stregato. Non sappiamo cosa ci voglia fare, con quel quadro – e con tua cognata, che mi accorgo ora non ci è stata restituita – ma è di certo una follia.”
“E c’è proprio bisogno del circo? E poi la smetta di chiamarmi Ippo.”
“Non direi proprio circo – insomma; direi piuttosto congregazione, confraternita, liberi spiriti, magari un po’ eccentrici, ma chi non lo è al giorno d’oggi. Vedi quel tizio con gli occhiali? Ha un Bastone del Potere. O almeno dice. E quella vecchietta dall’aria così – ehm – incarognita? È la più grande esperta vivente di incantesimi protettivi. Ehm, salve, signora Ridborne, com’è andato il viaggio?”
“Uno schifo.”
“Ah. Ma ora bando alle ciance – Iago si rivolge di nuovo al dottore – hai messo quel che ti ho detto sulla cornice?”
“Quella specie di blatta morta? Si. Spero che serva a qualcosa. Lei sa a cosa serve, vero?”
“Blatta morta? Non farti sentire se ci tieni alle rotule – quello era un raro esemplare di folletto veggente. Si trovano sempre in coppia – e qui ho la femmina”. Van Zaatz estrae dalla borsa un barattolo di vetro, al cui interno si trova un minuscolo globo luminoso che ronza come un calabrone furibondo “Capisci, Ippo, la moglie sa sempre dove si trova il marito.”
“Come non lo invidio.”
“Professore, se lo lasci dire, lei è pazzo. Con tutto il dovuto rispetto, o quel che ne resta – lei non può comportarsi in questo modo. Ci sono delle leggi che lo impediscono, voglio dire, si sta cacciando in un mare di guai! Pensi alla sua carriera, pensi a cosa direbbero – “
A parlare è la signorina Vaucanson. Legata ad una sedia in uno dei locali caldaie, nelle viscere meccaniche del Ponte del Giubileo, osserva il professor Odder tracciare febbrilmente un rozzo pentacolo attorno al quadro. “E poi, che cosa sta facendo, per amor del cielo! La credevo una persona razionale, professore: non si metterà anche lei a credere a tutte quelle fandonie spiritiste che – “
“Silenzio! Per favore, per favore, per favore stia zitta! Non capisce l’importanza del momento? Fra poco sarà libero, non lo vede? Libero!” Il professor Odder, spettinato, gli occhi spiritati, la cravatta allentata, si aggira attorno al quadro come uno squalo. Tiene in mano una copia de Lo Spiritismo per il Gentiluomo Moderno, manuale divulgativo di un certo successo ma sulla cui affidabilità preferiamo non pronunciarci; da questo libro ha probabilmente tratto il disegno tracciato sul pavimento e le misteriose formule che da una mezz’ora sta borbottando. “Non lo sente? Sta arrivando, è vicino! Vicinissimo, le dico! Tra poco Lo vedremo, in tutta la Sua magnificenza!”
“Non oso chiederle di chi sta parlando…”
“Lo sa! Lo sa benissimo! Anche lei ha sentito la Sua voce! Ma non ha voluto piegarsi e riconoscere il Suo potere! E ora pagherà, ah si, se pagherà! Merixas! Nashdarshi! Varti Xshâma Dâmesates! Per mille e mille anni ha attraversato il Ponte che separa i mondi! E ora è arrivato!” il professore sembra essersi giocato gli ultimi brandelli di sanità mentale: come un invasato, gesticola e declama parole incomprensibili. Ma la cosa più inquietante è che il quadro sembra rispondergli: una vaga luminosità grigiastra, un soffio d’aria gelida e, soprattutto, uno sguardo malevolo e decisamente non umano sembrano provenire dalla tela.
“Ma questa è la più grande… la più… la più grande cazzata che io abbia mai sentito! Per mille anni attraversa un ponte e quando esce dove si trova? Su un altro ponte? Ma si è visto mai?”
“Eh?”
Saranno le circostanze non proprio normali, sarà la tensione del momento, ma tutta la paura e la frustrazione accumulate dalla signorina Vaucanson nelle ultime ore si trasformano in un’ondata di rabbia incontenibile: “Oh grazie, mio fedele servitore! Potevo uscire su un verde prato illuminato dalla luna! In uno splendido palazzo di cristallo, servito e riverito da elfi e ninfe! O almeno in un ristorante decente! E invece dove mi trovo? Su un PONTE! Dove credi che sia stato negli ultimi mille e mille anni?”
Il professore resta basito: l’inattesa trasformazione di Seraphina da sofisticata studiosa d’arte a mezzo-troll scaricatore di porto è un evento stupefacente quanto l’evocazione che sta cercando di portare a termine; così rimane a fissare la sua assistente (ormai ex-assistente), voltando le spalle al quadro – e tutto quel che riesce a dire è: “Ma io… ma…”
“Scommetto che questa genialata l’ha letta sul Manuale del Piccolo Idiota che si sta portando dietro, eh? Cento modi per far INCAZZARE la vostra divinità maligna preferita!”
“Ma… ma… ma questo è un bellissimo ponte! Voglio dire – la forma, lo slancio – i doccioni…”
“I doccioni fanno schifo!”
Mentre il povero professore cerca inutilmente di difendere la bontà del suo approssimativo piano e l’alto valore artistico del Ponte – oggettivamente indifendibile – il quadro sta lentamente mutando d’aspetto, come se visto attraverso una lente deformata. Una voce, lontana, quasi inaudibile – e anzi, del tutto inaudibile vista l’animata discussione in corso – comincia a intonare parole incomprensibili, mentre viticci traslucidi e semi-corporei prendono lentamente forma attraverso la tela.
“Ma a me piacciono!”
“E lei si definisce un critico d’arte? Se lo lasci dire, professore: lei è solo un incompetente,…”
I tentacoli hanno ormai acquistato forma e solidità.
“…un incapace, un inutile,… “
Come sinuosi serpenti si muovono ed espandono fino a riempire la stanza.
“…borioso, arrogante, meschino,…”
Il professor Odder è annichilito, e, travolto dall’ira della signorina Vaucanson, rimane fermo in mezzo alla stanza, con le braccia lungo i fianchi e un tic all’occhio sinistro, mentre il mostruoso groviglio gli si chiude attorno.
“…ributtante, stempiato…”
E, nel momento in cui le spire gli si avvolgono attorno e lo trascinano verso la tela, l’unico pensiero del professore è: “Come, stempiato?”
“…COGLIONE!”
Nella stanza torna il silenzio.
Seraphina, rimasta sola, si guarda attorno. “Professore?”, azzarda.
In quel momento bussano alla porta.
Il resto è presto detto. Il dottor Cadwal, col suo bizzarro seguito, irrompe nella stanza dopo che Otto ha abbattuto la porta. “Mi dispiace per il ritardo, signorina Vaucanson”, dice a Seraphina mentre la libera dalle corde. “I potenti mezzi di cui disponevamo – e qui lancia un’occhiataccia a Iago – hanno fatto un po’ di confusione, e abbiamo dovuto arrangiarci. Per fortuna abbiamo sentito delle grida provenire da qui. Per un attimo ho temuto che qui dentro si fosse scatenato qualcosa di orrendo – “
“Ippo, qui, – interviene Van Zaatz – pensava che la stessero sbranando. In effetti, si sentiva un bel baccano.”
“Ippo?”
“Iago, perchè non va a farsi un giro, magari giù dal ponte?”
Van Zaatz, ridacchiando, si mescola alla folla. Il variopinto gruppo dei medium è impegnato in ogni sorta di misurazioni, gradi di attività psicocinetica, resti di materializzazioni e di ectoplasma, vibrazioni paranormali e particelle metafisiche; borbottano e discutono, aggirandosi per la stanza con i loro bizzarri strumenti: il quadro giace immobile al centro del pentacolo.
“Per fortuna siamo arrivati in tempo – sta dicendo Cadwal – . Mi chiedo soltanto…”
“Vuole sapere dov’è finito il professore?” – a parlare è Otto: sta indicando il quadro. Tutti si fanno attorno.
E si accorgono che il quadro è cambiato: al centro della tela, ora, il professor Odder è ritratto con incredibile realismo mentre, in una notte di tempesta, attraversa un ponte d’acciaio. Porta con sé una copia, perfetta fino all’inverosimile, dell’”Uomo che attraversa un Ponte di Notte”, di Stoltz.
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